L’omofobia e il sessismo cominciano a incrinarsi tra i cristiani d’Africa
Riflessioni di Joan Charras-Sancho* pubblicate sul mensile protestante Évangile et Liberté (Francia) nel febbraio 2017, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
Sono andata per la prima volta in Madagascar nell’aprile 2013 con l’associazione missionaria per la quale lavoro, la Centrale della Letteratura Cristiana Francofona. Non mi stupii nel constatare che tutti i protestanti che incontravo avevano una gran voglia di discutere di quello che i loro media chiamano “l’inter-LGBT del matrimonio omosessuale”. Come potevano dei peccatori pensare di potersi sposare? Si sarebbero messi a comprare i bambini? Magari dei bambini malgasci? E perché le donne lesbiche andavano in giro a seno nudo? E infine: i matrimoni normali sarebbero stati proibiti?
Mi sarebbe sembrato disonesto non rispondere a tutte queste domande, che costituivano uno strano mix di informazioni prese qua e là – le Femen manifestavano a seno nudo in quegli anni -, di menzogne e di vere e proprie assurdità.
Una pastorale in attesa
Verso la fine della mia permanenza, un giovane mi chiese se era vero che nel mio Paese due uomini che si amano possono sposarsi senza essere banditi dalla comunità o uccisi dalle loro famiglie. Gli risposi positivamente, precisando che la legge non era ancora stata approvata ma che pensavo lo sarebbe stata presto. Mi rispose: “Ma signora Joan, lei è moglie di un pastore e parla tranquillamente di tutto questo. Il fatto che questa legge sia approvata non le porrebbe nessun problema?”. Allora gli spiegai che mi avevano sollecitata a produrre possibili liturgie di benedizione per le coppie dello stesso sesso e che, effettivamente, questa eventualità non mi disturbava. Alla fine di questo scambio di rara intensità, pieno di sorrisi, di silenzi e di sguardi profondi, quel giovane mi prese la mano e mi chiese di pregare con lui perché un giorno potesse sentirsi finalmente sicuro nel Paese che amava e nella Chiesa che rispettava…
Dialogare tra le tempeste ecclesiali
Nel maggio 2015 la Chiesa Protestante Unita di Francia ha deciso di autorizzare l’accoglienza e la benedizione delle coppie dello stesso sesso. Questa Chiesa è una piccola Chiesa ma si trova al centro di una vasta rete di diplomazia ecclesiale, soprattutto per via del suo retaggio calvinista e della Francofonia. Questa notizia fu dunque accolta come un fulmine a ciel sereno dalla maggior parte delle Chiese partner: subito arrivarono minacce di rompere la comunione ecclesiale da parte di molte di esse.
Qualche mese più tardi andai a visitare i nostri partner in Africa Occidentale. Due scambi mi hanno particolarmente segnata. Il primo mi è accaduto in Benin, con una dottoressa in teologia, che condivise con me la lotta quotidiana che la sua vocazione implicava nel suo contesto ecclesiale. Quando cominciammo a parlare di accoglienza delle persone omosessuali nella Chiese, fece naturalmente il collegamento tra discriminazioni di genere e di orientamento sessuale. Tale spontaneità, da parte di una pastora africana, nel creare un ponte tra il sessismo e l’omofobia nel contesto ecclesiale ha rafforzato la mia convinzione che la parola, nei dialoghi tra Chiese, viene spesso presa in ostaggio dagli uomini, scarsamente al corrente delle discriminazioni che le donne subiscono in continuazione. Si pone qui, in maniera cruciale, l’importanza della diversità e della parità tra rappresentanti ecclesiastici nelle nostre relazioni interecclesiali.
Un legame diretto con la poligamia e l’ingerenza teologica
Sempre nel corso del viaggio del novembre 2015 mi recai in Togo, dove venni accolta da un responsabile della Chiesa Presbiteriana. Mi disse che, prima di tutto, tale questione non era tabù nella Chiesa, anzi nel 2014 era stata al centro di un sinodo comune con la Chiesa sorella del Ghana; dopo aver discusso con franchezza se benedire le coppie stesso sesso, l’assemblea si pronunciò contro. Mi fece poi notare, in secondo luogo, come al tempo della venuta dei missionari, questi avessero cambiato completamente la concezione tradizionale della famiglia, talvolta distruggendo imponenti strutture di solidarietà basate sulla poligamia e lo scambio delle donne. Concluse poi con un sorriso: “Infatti voi teologi ‘bianchi’ avete la tendenza a venire qui a dettare come dobbiamo comportarci… Forse non avete avuto tutti i torti, ma dovreste almeno riconoscere che è frustrante per noi Africani”. Prendiamo in considerazione queste osservazioni, che riguardano da una parte le false idee sulle Chiese africane, che secondo molti non parlano mai di omosessualità, e dall’altra l’ingerenza teologica post-coloniale, tutt’ora in corso.
Quello che ho vissuto non sarebbe in grado di riassumere l’estrema varietà teologica che ho incontrato ovunque sia andata. Ho trasformato la mia considerazione per i miei colleghi e ho dovuto rendermi conto che l’Internet offre loro l’accesso a informazioni che un tempo erano irraggiungibili.
Mi sembrano molto lontani i tempi in cui si poteva dire: “Questa realtà non esiste in Africa e non è possibile discuterne”. A mio avviso, la recente e timida violazione dei tabù concernenti la vita affettiva e sessuale non potrà che rafforzare il partenariato tra Nord e Sud per l’annuncio della Buona Novella. E con quale gioia!
* Joan Charras-Sancho è dottoressa in teologia e collabora permanentemente con una associazione missionaria sostenuta dagli organismi missionari francesi e svizzeri. È impegnata da anni nel campo della teologia femminista, progressista e inclusiva.