“L’ospite inatteso”. Chiesa e omosessualità: quale pastorale? Quale accompagnamento familiare?
Prefazione di padre Pino Piva sj* al libro “L’ospite inatteso. L’omosessualità in famiglia” di Alessandra Bialetti, edito da Tenda di Gionata, 2021, pag.5-8
Devo confessare che la prima domanda che mi è sorta alla mente dopo aver letto questo lavoro – importante – di Alessandra Bialetti (L’ospite inatteso. L’omosessualità in famiglia, Tenda di Gionata, 2021, 44 pagine) è stata: perché viene chiesta la prefazione a un sacerdote? Nel testo non c’è alcun riferimento al ruolo della comunità ecclesiale, della Chiesa che, appunto, viene citata una sola volta e per il resto è completamente assente.
Ma, conoscendo Alessandra e per l’amicizia che ci lega, ho subito intuito la risposta: una tesi del genere, scritta da una persona che ha la sua esplicita vita di fede e di impegno ecclesiale, non può non interpellare anche la fede e la comunità cristiana!
Ma proprio qui sta il problema e forse Alessandra ha pensato bene, simpaticamente, di “scaricarlo” a me. Il problema del rapporto tra la Chiesa e l’omosessualità: quale pastorale? Quale accompagnamento familiare? Quale annuncio evangelico ai figli LGBT e loro genitori?
Di fatto la Chiesa Cattolica ha un problema irrisolto con l’omosessualità. Pur sapendo che tra i fedeli delle nostre parrocchie, come anche nel clero, ci sono molte persone che vivono questa condizione, di fatto è come se nella Chiesa le persone omosessuali non esistessero.
Non se ne parla se non con imbarazzo; non ci sono proposte pastorali organiche; al massimo si ripropongono le indicazioni dottrinali universali di più di trent’anni fa, senza alcuna mediazione interpretativa delle scienze umane (come invece avviene in tanti altri ambiti pastorali).
Anzi, tanti dei problemi nella comprensione e nell’approccio alla condizione omosessuale nelle nostre famiglie, in particolare quelle con una o più persone omosessuali, vengono da una visione religiosa distorta del tema, spesso propagandata nelle parrocchie o attraverso mezzi di comunicazione sedicenti “cattolici”.
Di fatto la Chiesa non ha ancora gli strumenti antropologici – e quindi teologici – per affrontare con serenità la questione; come conferma il documento finale del Sinodo dei giovani: «Nell’attuale contesto culturale la Chiesa fatica a trasmettere la bellezza della visione cristiana della corporeità e della sessualità (…).
Appare quindi urgente una ricerca di modalità più adeguate, che si traducano concretamente nell’elaborazione di cammini formativi rinnovati»[1]; «Esistono questioni relative al corpo, all’affettività e alla sessualità che hanno bisogno di una più approfondita elaborazione antropologica, teologica e pastorale, da realizzare nelle modalità e ai livelli più convenienti, da quelli locali a quello universale».[2]
Sempre nello stesso numero 150, i vescovi del Sinodo affermano: «Esistono già in molte comunità cristiane cammini di accompagnamento nella fede di persone omosessuali: il Sinodo raccomanda di favorire tali percorsi. In questi cammini le persone sono aiutate a leggere la propria storia; ad aderire con libertà e responsabilità alla propria chiamata battesimale; a riconoscere il desiderio di appartenere e contribuire alla vita della comunità; a discernere le migliori forme per realizzarlo. In questo modo si aiuta ogni giovane, nessuno escluso, a integrare sempre più la dimensione sessuale nella propria personalità, crescendo nella qualità delle relazioni e camminando verso il dono di sé».[3]
I vescovi lodano e citano in modo positivo questi cammini di accoglienza e di accompagnamento nella fede di persone LGBT; consapevoli però che quasi nessuno di questi cammini è stato offerto dalle comunità cristiane stesse o dalla pastorale diocesana. Sono cammini nati per iniziativa spontanea di singoli, omosessuali o famiglie; spesso ostacolati dalle chiese locali, ma solo ora rivalutati positivamente.
Comunque, dobbiamo riconoscere che un momento importante per la pastorale con le persone omosessuali e loro genitori, è stata la pubblicazione di Amoris Laetitia da parte di Papa Francesco, che nel numero 250 afferma: «Con i Padri sinodali ho preso in considerazione la situazione delle famiglie che vivono l’esperienza di avere al loro interno persone con tendenza omosessuale, esperienza non facile né per i genitori né per i figli. Perciò desideriamo anzitutto ribadire che ogni persona, indipendentemente dal proprio orientamento sessuale, va rispettata nella sua dignità e accolta con rispetto, con la cura di evitare «ogni marchio di ingiusta discriminazione» e particolarmente ogni forma di aggressione e violenza. Nei riguardi delle famiglie si tratta invece di assicurare un rispettoso accompagnamento, affinché coloro che manifestano la tendenza omosessuale possano avere gli aiuti necessari per comprendere e realizzare pienamente la volontà di Dio nella loro vita».[4]
Con questa affermazione autorevole la pastorale con le persone omosessuali, almeno nelle intenzioni di Papa Francesco, viene inserita nella più ampia pastorale familiare; la condizione omosessuale in sé, quindi, non viene più intesa come antagonista e pericolosa per il contesto della famiglia (è il numero 251 che si preoccupa di tracciare alcuni confini solo circa il matrimonio sacramentale).
Piuttosto, nella prospettiva più attuale della famiglia “reale” tipica dell’Amoris Laetitia che non ha paura di parlare anche delle difficoltà e delle famiglie ferite, la condizione omosessuale trova una collocazione pastorale e il contesto primario in cui venire affrontata: la famiglia.
Grazie a questa indicazione, finalmente la pastorale può assumersi le sue responsabilità nell’accompagnamento delle persone omosessuali e in particolare delle loro famiglie – o meglio “nelle” loro famiglie – come insiste questo contributo di Alessandra Bialetti. C’è una forma di “genitorialità” (paternità e maternità) a cui la Chiesa non può permettersi di rinunciare e che, piuttosto, “rimane sempre”, appunto; anche nei confronti delle persone omosessuali e del loro contesto familiare. Perciò la lettura di questo testo non sarà utile soltanto ai genitori di figli LGBT (o omosessuali loro stessi), ma anche agli operatori pastorali che cercano strumenti utili per accompagnare queste famiglie.
La progressiva assunzione di responsabilità genitoriale (o empowerment, come la definisce il presente studio) è un compito che la stessa comunità cristiana deve sentire; per se stessa e nel suo compito di accompagnamento delle famiglie. I genitori, per l’irrompere inaspettato dell’omosessualità in famiglia, hanno bisogno di declinare in modo nuovo e creativo il loro compito educativo; un opportuno accompagnamento pastorale, insieme al counseling, possono supportare questa rinnovata declinazione educativa tenendo conto anche della dimensione spirituale e di fede.
Gli operatori pastorali adeguatamente formati dovranno sostenere e liberare i genitori, soprattutto, dai loro sensi di colpa nel non aver saputo “modellare” il figlio secondo le regole della società e della morale… Perché la nascita e la crescita di un figlio è un mistero a cui Dio solo ha pieno accesso; un mistero che non può essere controllato o predeterminato, ma che piuttosto chiede apertura e ascolto perché può suggerire nuove visioni della realtà, del mondo e di Dio stesso. E in questo senso, resiliente, anche l’irrompere inaspettato dell’omosessualità, potrebbe accompagnare la famiglia verso nuove possibilità, a nuovi e più autentici modi d’essere “famiglia”.
Parafrasando le parole di Alessandra, direi che la stessa comunità cristiana dovrà esercitare, anche nei confronti dei genitori, quell’ascolto empatico che significa accogliere i loro sentimenti di paura, confusione, rabbia e disperazione per il lutto del “figlio” o del “genitore” ideale; riconoscere questi sentimenti, senza negarli perché sono normali e non vanno giudicati. La comunità cristiana potrebbe diventare quella “cassa di risonanza” del vissuto travagliato, difficile da esprimere, dei genitori e dei figli; e condurli verso una maggiore autenticità e comprensione nel dialogo familiare.
Certo, la stessa comunità cristiana è chiamata a lavorare inizialmente su se stessa, sul proprio pregiudizio religioso e sociale, in un cammino di conversione al vero ascolto di Dio, della famiglia e delle persone reali.
Solo così potrà costituirsi evangelicamente – come direbbe Alessandra – “mediatrice protettiva e rassicurante”, nei confronti del mondo più ampio, complesso e spesso ostile verso le persone omosessuali. In sintesi, la comunità cristiana è chiamata a essere sempre più luogo educativo di fondamentale importanza nel processo di costruzione identitaria delle persone omosessuali e le loro famiglie, come figli di Dio amati e custoditi da lui.
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1. Cfr. Sinodo dei Vescovi sul tema «I giovani, la fede e il discernimento vocazionale», Documento finale, 149.
2. Op. cit. 150.
3. Ibidem. 7
4. Cfr. Amoris Laetitia 250.
* Padre Pino Piva, gesuita, si occupa di accompagnamento spirituale e della “Spiritualità dalle Frontiere”.