“Ma così… è un matrimonio!”. Riflessioni sulla benedizione delle coppie omosessuali
Riflessioni di Antonio De Caro*
Nel 2018 Jerry e io abbiamo partecipato al Forum dei cristiani LGBT ad Albano Laziale (RM). Ci avevano chiesto di portare la nostra testimonianza sul cammino che ci aveva portati, nel maggio 2017, all’unione civile. Abbiamo parlato della nostra storia in uno dei workshop, dove c’era anche un anziano sacerdote di lunga esperienza. Quasi alla fine della nostra testimonianza, don G. si è lasciato sfuggire un’esclamazione improvvisa: “ma così… è un matrimonio!”.
Le sue parole nascevano, credo, dal fatto di avere capito che il nostro amore di coppia omosessuale intendeva diventare un progetto per prenderci cura fedelmente l’uno dell’altro. E che di questa alleanza solo noi due potevamo essere ritenuti responsabili. Nessuna autorità umana ha potuto impedire alle nostre coscienze di credere in questo amore e di prendere questo impegno. Per questo solo noi due siamo i custodi e i “ministri” di un patto per il quale, il giorno dell’unione, abbiamo invocato la presenza e l’aiuto amorevole di Dio, anche attraverso l’intercessione di Maria.
“È un matrimonio”: questo significa che solo gli sposi possono decidere la forma e lo scopo da dare alla loro unione, e che nessun altro ha il diritto o l’autorità, politica o religiosa, di negarne il senso etico. Persino nel matrimonio sacramentale cattolico i ministri sono gli sposi, e il sacerdote può solo ricevere pubblicamente il loro consenso, che vale spiritualmente, in forza della loro fede e del loro amore, anche in assenza di un riconoscimento esteriore.
Basta infatti Dio a riconoscerlo, poiché vede le autentiche intenzioni della coscienza. E visto che il Dio di Gesù Cristo non può negare cose buone a coloro che gliele chiedono, noi crediamo che di fronte all’invocazione di due che si amano Dio non negherà la sua amorevole assistenza -cioè la sua Grazia.
“È un matrimonio”: questo vuol dire che don G., come Pietro a casa di Cornelio, può solo riconoscere la presenza dello Spirito che ammanta l’intenzione degli esseri umani verso il bene. Non può impedire che la Grazia discenda persino su coloro che la tradizione considera “impuri” e “profani”.
La Chiesa non ha il potere di impedire questa benedizione di Dio: ha bensì il dovere di renderla visibile e di affermare, come Pietro, “come possiamo negare che siano battezzati con acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?”. Come possono gli uomini, negare la benedizione a coloro che Dio ha già benedetto? Questo dovrebbe dire la Chiesa, se veramente obbedisse alla voce dello Spirito e non alla cieca frenesia di conservare il potere a prezzo del dolore dei suoi figli.
Due esseri umani che si amano gioiscono per il dono di essersi incontrat*, di essere cresciut* insieme nell’amore fino al punto di volersi donare l’un* all’altr*. Sono grat* a Dio che ha benedetto l’un* con la presenza dell’altr* e con la nascita del loro amore: e rispondono a questa benedizione di Dio benedicendolo a sua volta, cioè ringraziandolo e invocando la sua protezione per i periodi di prova che certamente arriveranno. La Chiesa non può impedire questo atteggiamento di abbandono grato e fiducioso all’amore di Dio: ma per quale motivo dovrebbe farlo, se davvero il suo compito fosse quello di mediare e costruire ponti fra Dio e gli uomini?
Gli sposi, quindi, si benedicono a vicenda (io l’ho fatto con mio marito, quel giorno) e invocano un* per l’altr* la benedizione di Dio. E la loro promessa di dono reciproco diventa anche una benedizione per la comunità umana, che cresce e si fortifica ogni volta che l’amore costruisce nuovi legami per propagarsi. Questo è il motivo per cui anche la comunità avrebbe interesse a benedire gli sposi, come segno dell’amore di Dio per l’umanità, a condividerne la festa e a promettere conforto e sostegno per i periodi di prova che certamente arriveranno.
“È un matrimonio”, ha detto il sacerdote alla coppia omosessuale che ha testimoniato il proprio cammino e il proprio progetto. Certo che lo è, perché i valori di questo patto scaturiscono dalla nostra interiorità. Non ci interessava solo accedere facilmente a dei “diritti” (che pure ci spettano, come cittadini ed esseri umani, e non devono esserci concessi dall’alto), ma assumerci dei doveri di cura reciproca, fra cui rientra anche quello della fedeltà. La fedeltà non è un obbligo, ma un dono che deriva dall’amore, cresce e matura con gli sposi che ne comprendono gradualmente il prezzo e il valore.
Io ho voluto e voglio fortemente che l’unione con mio marito sia fondata sul mio impegno per il suo bene. Mi è assolutamente chiaro che, come essere umano, non sono perfetto e quindi sbaglierò, e non sarò sempre all’altezza di questo impegno: ma proprio per questo chiedo umilmente la benedizione di Dio e la forza di perseverare anche nei periodi di prova che certamente arriveranno.
Quindi, se siamo noi due i responsabili della nostra unione, vorrei per favore che nessuno, in nome di una male intesa tradizione religiosa o ideologia politica, si arrogasse il diritto di dirmi se posso o non posso chiamare matrimonio il mio matrimonio o marito mio marito. Solo noi due possiamo avere questa libertà, che comporta anche delle responsabilità verso Dio, noi stessi e la comunità.
L’essenza del matrimonio, anche di quello sacramentale, riposa nella coscienza dei coniugi e nelle loro scelte morali: non certo in pseudo-argomenti linguistici che non reggono alla prova dei fatti, anche semplicemente storici e culturali. È assurdo negare che sia un “matrimonio” perché l’etimologia latina richiama solo il “compito della maternità” (matris munus): ciò varrebbe solo per la lingua italiana, non certo per il resto del mondo che chiama il matrimonio in molti altri modi, tutti egualmente validi. Se dobbiamo seguire questa strada, allora per favore impediamo alle donne di lavorare, cioè di contribuire al “patrimonio”, compito che la mentalità patriarcale riservava solo all’uomo. Ed impediamo agli uomini di essere padri affettivi ed amorevoli, se il “compito della generazione” spetta solo alle donne.
Quando alcuni genitori o persino alcuni omosessuali, con ostinazione, affermano che occorrerebbe cercare formule e nomi nuovi per indicare le unioni fra omosessuali, mi sembra di cogliere in loro solo molto omofobia introiettata: cioè tanta paura di “offendere” le norme tradizionali, religiose o politiche.
Gesù non aveva paura di frantumare la tradizione se c’era da amare e liberare davvero la dignità umana. Se dico (e lo dico sempre) che sono sposato con un uomo che è mio marito, in nessun modo questo può indebolire la forza con cui due sposi eterosessuali si amano e fanno la scelta di propagare la vita. In nessun caso la pienezza della mia identità può inficiare la loro vocazione.
Da questo punto di vista, quando gli omosessuali aspirano alla dignità sponsale, non si tratta (se non in alcuni casi, ovviamente) di “conformismo”. Sono conformista se il mio obiettivo è solo un’esteriore omologazione, un’imitazione dell’apparenza (la cerimonia, gli anelli, la festa…).
Ma se due persone omosessuali si amano in modo oblativo, esse aspirano alla “conformità”, cioè a condividere gli stessi doveri e diritti delle altre forme di relazione. Con-formità vuol dire infatti “avere una forma insieme” (i due saranno una sola carne…); o anche “dare una forma insieme”, poiché tutta la comunità trae beneficio se le persone scelgono liberamente di amarsi in modo costruttivo, cioè di formare una famiglia.
La fedeltà è quello che nasce -dentro di me e dentro mio marito, o mia moglie- quando capiamo che tutto questo può darci la forza e la gioia di cui abbiamo bisogno. Lo capisci, però, quando lo “desideri”, cioè quando ascolti l’impulso al bene che porti nel cuore.
* Antonio De Caro, classe ‘70, esperto di cultura grecolatina, vive e insegna materie umanistiche e collabora con l’associazione “La Tenda di Gionata” e col settimanale cristiano Adista. Ha ha edito l’ebook di riflessione teologica “Cercate il suo volto. Riflessioni teologiche sull’amore omosessuale“ (Tenda di Gionata, 2019) e il saggio “La violenza non appartiene a Dio” (ed. Etabeta, 2020, 214 pagine).