Mala noche. Viaggio nel cinema LGBT americano
Scheda di Luciano Ragusa con cui è stato presentato al Guado di Milano il film “Mala noche” di Gus Van Sant il 12 dicembre 2021
Nella mente degli appassionati di cinema, il termine indipendente, evoca lungometraggi dal sapore romantico, sperimentale, d’avanguardia, legati a processi non industriali a seguito dei quali viene sovvertito il formalismo dominante, in nome di una libertà assoluta d’espressione.
Certamente, soprattutto in particolari momenti, il settore indipendente ha rappresentato tutto questo, ma, la sua storia, è molto più intricata e sfumata di quanto si possa immaginare. Per esempio, nell’ultimo decennio dell’800 e nei primi anni del 900, il termine viene applicato ai produttori che operano al di fuori di Edison, Biograph, Vitagraph, società che detengono l’intero mercato industriale cinematografico del periodo.
Le contese sono legate ai brevetti, veri strumenti giuridici che impediscono agli esterni l’accesso ad aspetti chiave della tecnologia: per noi, oggi, è molto semplice acquistare macchine per fare riprese, nessuno verrebbe a rivendicarne la proprietà intellettuale (già inclusa nel prezzo di vendita). Agli albori della “settima arte”, invece, costituisce l’aspetto determinante, precede l’idea stessa di fare riprese, che nella migliore delle ipotesi durano dai 15 ai 20 minuti.
Non è difficile dedurre che negli anni dieci del secolo scorso, il concetto di indipendenza legato al cinema, suggerisce la lotta contro ogni abuso monopolista, a questo punto anche commerciale e distributivo. Non a caso nasce Hollywood, esperienza produttiva a capo della quale ci sono le cinque “major” che regolano l’intero mercato in ogni sua specificità (negli anni del primo conflitto mondiale il 90% dei film al mondo viene prodotto in California dalle compagnie hollywoodiane).
Negli anni trenta, le società indipendenti come Republic e Monogram, contribuiscono a soddisfare la richiesta del sistema per la produzione di film di serie “B”, i quali, costituiscono le pellicole di importanza minore della doppia programmazione nelle sale cinematografiche. Malgrado ciò, in questo decennio, produttori indipendenti come David Selznick e Sam Goldwyn, finanziano pellicole di altissimo livello, prendendo a prestito attori e teatri di posa dalle major. Emblematici sono Via col vento (1939) diretto da Victor Fleming, e Rebecca, la prima moglie (1940) capolavoro di Alfred Hitchcock, che arricchiscono trasversalmente filiere parallele.
Qui comincia la parte complicata della faccenda, perché i rapporti tra lo “star system” americano e gli indipendenti si strutturano in una collaborazione intricata, dove la lettura di chi produce cosa non è palese. A partire dagli anni cinquanta gli studios commissionano realizzazioni portate a termine da società esterne alle major, presentate come individuali e confezionate come progetti unici. In sostanza, parte della creatività che orbita fuori dei circuiti codificati viene indirettamente fagocitata, con esiti paradossali: film come Terminator 2: il giorno del giudizio (1991, James Cameron) e Basic Instint (1992, Paul Verhoeven) avranno un successo commerciale planetario, ovvero blockbuster, sebbene rubricati come indipendenti perché prodotti da Carolco in concomitanza con Tri-Star Pictures.
Naturalmente non è una regola pattuita a priori, tant’è che interi filoni “indie” (contrazione di indipendente) hanno deliberatamente scelto di non essere flessibili, avventurandosi in aree in cui Hollywood ha scelto di non addentrarsi. Due esempi su tutti sono il genere Horror, e pellicole pensate per spettatori teenager, pubblico che fino agli anni novanta, le grosse industrie, hanno inconsapevolmente snobbato, lasciando agli indipendenti facoltà di sperimentare.
Così come non mancano capolavori dal linguaggio innovativo e d’avanguardia, operazioni strettamente non commerciali e rigorosamente “indie”. Dunque, concludo questa supersonica sintesi, sottolineando che le linee di demarcazione tra il cinema indipendente, e Hollywood, in molti casi sono sfumate: a volte sono nette, altre si presentano con diverse gradazioni di interazione; per alcuni è tratto distintivo, per altri la strada che conduce al cinema convenzionale.
GUS VAN SANT
Di fronte alla scheda di un regista, un autore, in generale un personaggio pubblicamente noto, si pone sempre il dilemma relativo alle notizie da inserire, perché il rischio di un comodo copia incolla, oppure la ricerca di informazioni spiazzanti, possono vanificare la comprensione dello stesso.
Proverei ad affrontare Gus Van Sant in continuità con la pagina precedente, cercando di attraversare quei ponti che orientano il suo sentire cinematografico, dal contesto indie, a quello convenzionale, e viceversa.
Senza ombra di dubbio la prima fase della carriera del regista è indipendente: film come Mala noche (vedi pagina successiva), Drugstore cowboys (1989), Belli e dannati (1991), Cowgirl – Il nuovo sesso (1993), Da morire (1995), possiedono gli stilemi tecnici, narrativi, economici, dell’universo fuori dal mainstream.
Figlio di un commesso viaggiatore di lontane origini olandesi si avvicina al cinema con la mediazione della pittura, disciplina che studia con passione ai tempi del college. Alla Rhode Island School of Design, scuola d’arte d’avanguardia, matura il suo amore per il cinema sperimentale, che lo porterà, all’inizio degli anni 70’, a traferirsi a Los Angeles, patria della cinematografia d’ogni genere.
Nella città degli angeli frequenta ambienti marginali, legati alla tossicodipendenza, prostituzione maschile. Oppure gli esclusi di Hollywood, aspiranti divi, registi, sceneggiatori, la cui permanenza in città nulla ha prodotto. Inserito in questa fauna diventa presto icona del cinema indipendente, grazie a cortometraggi in Super 8 e mediometraggi in 16 mm, fino a quando, trova l’occasione per produrre il suo primo lungometraggio (1985).
È probabilmente con Belli e dannati (1991) che Van Sant raggiunge i vertici più alti della sua produzione indie: il film, a sfondo omosessuale, rivela una lucidità narrativa sorprendente, nella quale si innesta un gusto pittorico che, sia negli spazi sconfinati, che negli interni angusti, suggerisce una maturità compositiva di livello. Al suo interno non c’è moralismo –cifra stilistica di questo tipo di cinema- tutto viene mostrato come dato di fatto, senza l’esigenza di esprimere giudizi perché quotidiano, evidente, per certi versi necessario.
La seconda metà degli anni 90’ vede il regista collaborare con le major, che, nel frattempo, si sono accorte del suo talento. Nasce Will Hunting genio ribelle (1997), un film riuscito (10 candidature all’Oscar con 2 centri) in cui si fondono dettami congeniali al grande pubblico, ma con un occhio educato alla pratica indie. Segue il film Psyco (1998), remake filologicamente fedele all’originale dove Van Sant si misura con il concetto, ed il valore, di immagine clonata.
Scoprendo Forrester (2000) è una curiosa rilettura del mito dello scrittore J.D. Salinger nell’America contemporanea. Mentre con Gerry (2002), apologo metafisico sul viaggio nel deserto di due amici che portano lo stesso nome, Elephant (2003), ispirato al massacro della Columbine High School del 1999, e Last Days (2005), che ruota attorno agli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain dei Nirvana, torna su un versante più aduso al cinema indie.
Nel 2009 riesplode con Milk, pellicola situata a metà strada fra indie e convenzionale, nella quale Sean Penn, da Oscar insieme alla sceneggiatura originale, interpreta il primo consigliere comunale apertamente gay degli Stati Uniti, assassinato nel 1978. Seguono i meno fortunati L’amore che resta (2011), dramma adolescenziale sulla durezza della vita; Promise Land (2012), storia di abusi commissionati da un’industria di trivellazioni in cerca di gas naturale sugli abitanti del luogo; La foresta dei sogni (2015), in concorso a Cannes dove il protagonista viene respinto dagli spiriti del monte Fuji nei suoi propositi di suicidio; Don’t Worry (2018), in cui si rievoca il percorso di vita del vignettista satirico John Callahan, che, dopo una giovinezza fatta di droga e alcool, trova nel disegno la strada per risollevarsi.
Come potrà notarsi il tema della morte, e del sesso, sono ricorrenti nelle opere del regista. Del resto, lo vedremo nelle schede successive, il cinema indipendente occupa spazi e temi che lo star system lascia volutamente scoperti, perché indigesti al grande pubblico, che magari preferisce un lungometraggio (con tutti i diritti del mondo) più tradizionale, nel quale l’obiettivo è rivolto all’aspetto ludico dell’esperienza visiva.
MALA NOCHE
Il film, ricalca fedelmente l’itinerario di chi, autore emergente, sceglie circuiti produttivi e distributivi caratteristici del cinema indipendente. Racimolati i risparmi ottenuti dall’attività di designer pubblicitario a New York, Gus Van Sant, si getta anima e corpo a costruire il suo primo lungometraggio. Il risultato è Mala noche, una pellicola in 16 mm (introdotta dalla Kodak nel 1923, e siamo nel 1985!), in bianco e nero, con gli attori protagonisti consapevoli della gratuità della prestazione.
Tutto ciò, non interferisce sulla qualità del girato: supportato da una fotografia (John J. Campbell) dagli effetti grafici simili alla vecchia grana della pellicola su schermo, e da una recitazione modulata sulla credibilità dei personaggi, il film si impone su più livelli, dal pubblico alla critica. Da segnalare alcuni inserti a colori ripresi in super 8 che gli interpreti usano per riprendere scene di spensierata quotidianità.
Il soggetto è tratto dall’omonimo romanzo (1977) di Walt Curtis, scrittore vicino alla “beat generation”, nel quale viene descritta la vita di poveri disperati che vagano nello sconfinato territorio americano usando treni merci come mezzo di trasporto. Il regista traspone fedelmente il clima, dimostrando come il tema del viaggio, la volontà dei molti di non mettere radici solide, appartengono al genoma narrativo statunitense, dalla letteratura (Melville, Kerouak, ecc.) al cinema.
Il lungometraggio non passa inosservato in Italia, infatti, vince al Torino International Gay & Lesbian Film Festival nel 1988, alla sua seconda edizione. In patria ottiene un riconoscimento al Los Angeles Critics Association Awards, nella categoria film indipendenti e sperimentali. Nel 2006 è stato presentato in una proiezione speciale, a trent’anni dall’uscita, alla Quinzaine des Réalisateurs (selezione parallela a quella ufficiale) del Festival di Cannes.
SCHEDA DEL FILM:
Regia e sceneggiatura: Gus Van Sant
Soggetto: Walt Curtis.
Fotografia: John J. Campbell.
Montaggio: Gus Van Sant.
Musiche: Peter Dammann, Karen Kitchen, Creighton Lindsay.
Paese di produzione: Stati Uniti d’America.
Produttore: Gus Van Sant.
Distribuzione in italiano: Campi Bisenzio: Cecchi Gori home video, 2014.
Cast: Doug Cooeyate (Johnny), Sam Downey (impiegato dell’albergo), Nyla McCarty (Betty), Ray Monge (Roberto Pepper), Tim Streeter (Walt Curtis)
Genere: drammatico; anno: 1985; durata: 78 minuti.
TRAMA:
Roberto e Johnny sono due giovani messicani che attraversano, da sud a nord, gli Stati Uniti d’America. A muoverli, oltre alla ricerca di una vita migliore, anche l’ebbrezza dei grandi spazi, il profumo di un’esistenza “on the road”. Giunti a Portland (Oregon), si imbattono in Walt, gestore di un negozio d’alimentari con il quale, per un breve periodo, incroceranno le loro esistenze.