Marco Mengoni e il mito della sessualità fluida
Riflessioni di Massimo Battaglio
In questi giorni, sta facendo discutere un’intervista rilasciata dal cantante Marco Mengoni al Corriere della Sera: “Noi giovani, felici di essere instabili e fludi in amore“. L’ormai trentenne protagonista della canzone italiana, sollecitato a parlare del proprio orientamento sessuale, glissa.
“La mia vita privata, sui social, non mi va di mettercela. Se è privata, non mi va di mettere in mezzo persone che non c’entrano con la mia fama […] Noi 30enni siamo messi meglio di chi ci ha preceduto. La mia generazione è fluida, più aperta in tutti i sensi e mi dispiace per le persone che ci governano non si aprano alla natura. Io non contemplo paletti e muri, non mi accorgo della tonalità della carnagione o della scelta di amare un uomo o una donna“.
Parole raffinate, senz’altro più di quelle di un Renato Zero o di una Gianna Nannini che, per evidenti ragioni di marketing, hanno sempre negato l’evidenza rasentando talvolta la volgarità. Ma il succo è sempre quello: volete farmi dire che sono gay o bisex? Neanche per sogno.
La raffinatezza della non-confessione di Marco Mengoni, a qualcuno è piaciuta. Esistono davvero tanti giovani e meno giovani che trovano in quell’aggettivo “fluido” un’elegante via d’uscita per sgattaiolare dall’onere di darsi una definizione. C’è tutta una letteratura in proposito, con tanto di filosofi in testa. Ma è una letteratura che, ai più, fa arrabbiare.
Giustamente, mi vien da dire. Perché il tema dell’auto-definizione e del rifiuto di “etichette” può anche essere importante ma – temo – è un argomento da gente sofisticata. A me che sto in periferia, pare una questione da privilegiati, appannaggio di chi ha già risolto problemi più fondamentali (bisogni primari, si diceva una volta). Dove, per problemi fondamentali, non intendo solo il mangiare e il dormire ma anche, per esempio, l’accettarsi ed essere accettati.
Dalle mie parti, il problema dei giovani omosessuali non è l’essere “fluido“, liscio o gassato che sia. Non stanno a discutere se la loro sessualità sia addirivata o effervescente naturale. La loro fatica consiste piuttosto nel cercare di vivere la storiella col compagno di classe senza farsi sgamare per non essere bullizzati. Non hanno paura delle etichette ma delle botte. Botte che raddoppierebbero a casa, a cura di madri mica tanto “inclusive”, e continuerebbero sotto altra forma all’oratorio, in piazza o al campo di calcetto.
I ragazzi che vedo girare nel mio quartiere avrebbero ben piacere di “definirsi” se non fosse seriamente pericoloso. La domanda che mi rivolgono più spesso è: “ma i tuoi sanno di te? E come hai fatto?”
Come sarebbe bello se, oltre alle povere risposte che posso dare io, questi giovani amici potessero giovare della testimonianza di qualcuno “che conta”. Qualche cantante coraggioso, qualche influencer sincero, potrebbero essere un’importante risorsa. Invece, le scappatoie “colte” dei Marco Mengoni riportano tutto indietro di decenni. Rimandano ai tempi di Pasolini, quando l’omosessualità era una cosa privata per signori di lusso, una roba brutta da vivere di nascoto, sempre che ce lo si potesse permettere.
Attenzione: non pretendo che qualunque personaggio pubblico si butti immediatamente a parlare di sè. Capisco che serve una maturazione graduale. Trovo molto giusto che non si vogliano saltare i passaggi, se non altro per evitare di dire cose che potrebbero essere dannose. Ma questa maturazione deve esserci, se non si vuole sfuggire alla propria inevitabile funzione educativa (o diseducativa). E nel frattempo, mentre si sta maturando, è meglio un sano silenzio, piuttosto che una “colta” sparata.
Mi viene in mente l’episodio della Pentecoste. Dopo la Passione di Gesù, gli apostoli non capiscono immediatamente che è il loro momento. Anzi: hanno forti dubbi che il Maestro sia veramente risorto. Hanno paura ad uscire. Ma non stanno in ozio. Si mettono interiormente in moto: discutono, pregano, riprendono i propri lavori ma poi tornano a cenare insieme, a continuare la discussione e la preghiera. E avanti così finché si accorgono del dono dello Spirito Santo.
A quel punto, non possono più tacere: escono in piazza, sfidano ogni pericolo, dichiarano chi sono e quale sarà, da quel momento, la loro missione. E per farsi capire meglio, non usano parole da filosofi ma si esprimono nelle lingue di tutti quelli che incontrano.
Se ce l’hanno fatta loro, poveri pescatori analfabeti, può farcela chiunque. Basta coltivare il giusto, positivo concetto di sè. E agire sapendo che qualunque cosa si dica o si taccia, lascerà comunque i suoi segni, buoni o cattivi, a seconda.