Michelangelo. Il tirchio generoso
Articolo di Francesca Bonazzoli pubblicato sul Corriere della Sera del 15 dicembre 2015
Durante i suoi 89 anni, Michelangelo servì i signori di Firenze e nove papi, detestando il dispotismo degli uni e degli altri. Da Roma provò a scappare suscitando l’ira del pontefice; a Firenze si schierò con la Repubblica salvo poi fuggire misteriosamente per paura, si sussurrò, che gli venisse chiesto denaro per sostenere le spese di guerra. Proprio questo era il vizio capitale di Michelangelo: la tirchieria. Pur essendo diventato presto ricchissimo, viveva miseramente, senza concedersi agi. Dall’inventario redatto alla sua morte nella casa romana di via Macel de’ Corvi risulta che «in una stanza a basso» c’erano tre statue: un san Pietro, un Cristo portacroce e «un’altra statua principiata per uno Christo con un’altra figura sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite», oggi conosciuta come Pietà Rondanini.
Furono poi rinvenuti dieci cartoni preparatori tra i quali uno con una Pietà; ventiquattro camicie; alcuni barili vuoti, mezzo barile d’aceto e un cavallo. Nessun gioiello, mobili o vestiti preziosi. Però c’era un armadio che conteneva 8.289 ducati, l’equivalente di quasi 30 chili d’oro.
E tuttavia la tirchieria di Michelangelo era compensata dalla generosità verso amici e parenti, riconosciuta già dai contemporanei come Benedetto Varchi che ne parlò durante l’orazione funebre. Ai parenti regalava soldi e terreni, mentre agli amici destinava soprattutto disegni: invenzioni originali, non studi preparatori per altri lavori, di straordinaria cura esecutiva, tanto che invece di rimanere nell’ambito privato di un ristrettissimo giro di persone (Michelangelo era uno scorbutico asociale), divennero subito celebri, riprodotti anche in scala diversa e sui materiali più disparati, dall’alabastro ai piatti di maiolica.
Uno dei primi destinatari dei doni, a partire dal 1522, fu Gherardo Perini, oscuro amico fiorentino che morì nello stesso anno di Michelangelo. Celeberrimi, poi, divennero i fogli dedicati al giovane nobiluomo Tommaso Cavalieri di cui Michelangelo si invaghì subito dopo averlo incontrato a Roma nel 1532.
Il malevolo Pietro Aretino, evidentemente invidioso, non si lasciò sfuggire allusioni sulla facilità «di Gherardi et Tomai» di ottenere tali ambìti omaggi. Uno dei disegni più belli ricevuti da Tommaso rappresenta una Cleopatra: sul recto compare una donna bellissima con un’elaborata acconciatura dove i capelli si trasformano in serpenti e sul verso (rimasto coperto fino al 1988) la stessa figura esibisce un’espressione angosciata con accanto, appena accennato, un profilo di vecchio.
Qualche anno più tardi, intorno al 1534, Michelangelo conobbe Vittoria Colonna, vedova di Ferrante Francesco d’Avalos, marchese di Pescara. I temi profani dei disegni per Tommaso furono sostituiti allora da iconografie sacre: la nobildonna apparteneva infatti al circolo degli Spirituali cui facevano riferimento anche i cardinali Pietro Bembo, Federico Fregoso, Gasparo Contarini, Reginald Pole nonché il cappuccino filo-valdese Bernardo Ochino.
Per costoro, sorvegliati speciali dell’Inquisizione, Michelangelo disegnava Crocifissi e Pietà, soggetti di devozione del corpo santo di Cristo, culto cui era votato quel gruppo di riformatori che vide naufragare le speranze di rinascita morale della Chiesa con l’elezione al soglio pontificio del cardinale Carafa. Con lui la Chiesa rovinava indietro verso l’arroganza militare e politica, il nepotismo, il commercio delle indulgenze, i sospetti e i roghi.
Quando anche il cardinal Morrone, in odore di santità, fu arrestato, Michelangelo, sconvolto, gli donò il disegno di un crocifisso col Cristo vivo per offrirgli conforto durante la prigionia. Reginald Pole, il «cardinale angelico», riuscì a riparare in Inghilterra, ma invece di un crocefisso o una Pietà, come si vede nel frontespizio di un suo libro esposto in mostra, scelse per emblema il Ratto di Ganimede che Michelangelo aveva disegnato anni prima per Tommaso, trasformando quell’iconografia di spregiudicato amore sensuale in un simbolo neoplatonico di elevazione spirituale.
Così facendo teneva virtualmente insieme l’intero piccolo cerchio di amicizie di Michelangelo che nell’ultima parte della vita era passato dalla passione per la bellezza carnale al desiderio di redenzione spirituale.