Michelangelo tra santi e dannati
Riflessioni di Massimo Battaglio
In questi giorni, la mia bacheca di facebook era inondata da immagini che ruotavano intorno a due temi. Da una parte trionfavano le maschere di Halloween; dall’altra, grandi raffigurazioni del Paradiso tratte dai capolavori della storia dell’arte.
Poi c’erano quelli che, saggiamente, provavano a smontare l’apparente contraddizione. E proponevano immagini di santi martiri, tanto macabre quanto quelle dei bambini vestiti da streghette e da zombi. E’ strano che nessuno, almeno tra i miei amici di facebook, abbia pensato al Giudizio Universale di Michelangelo, che, secondo me, rappresenta una sintesi mirabile tra queste tendenze.
Il Buonarroti, ormai sessantenne, nel grande affresco della Sistina, illustra la conclusione della storia della Salvezza dicendo ciò che pensa. Ce ne fornisce un’interpretazione personale. E per fare questo, ha bisogno di parlare senza peli sulla lingua. Il risultato è che la sua opera, criticata ferocemente ai suoi tempi, presenta oggi caratteri di estrema attualità.
Il Mestro non nasconde gli attributi iconografici dei martiri – quelli in stile Halloween, come la pelle di san Bartolomeo, la ruota uncinata di santa Caterina – né li esalta. Piuttosto li interpreta come elementi che concorrono a dare vigore alla scena, una scena in cui tutto è in movimento, tutto è turbinio e tensione, come se il tribunale dell’Altissimo non fosse un luogo di pacificazione generale, ma il termine di un lungo travaglio che percorre tutta la storia.
Prima di Michelangelo, nessun pittore avevano concepito paradisi con queste caratteristiche. Erano prevalse immagini statiche, ordinate, con santi e angeli disposti in bell’ordine lungo serie di cerchi concentirci secondo qualche gerarchia. Si era bandita ogni allusione al dolore e promossa l’idea di una felicità contenuta, di una serenità ascetica. Dante era stato maestro nel concepire una simile architettura e molti l’avevano seguito.
L’autore della “Pietà” e della “Creazione dell’Uomo” è il primo a raffigurare il Regno dei Cieli come un gran casino, con gente che arriva di corsa, altri un po’ più a fatica, chi da solo, chi in compagnia, ciascuno portando con sé le sue passioni e le sue fatiche.
Certo, c’è qualche forma di schema, ma è funzionale a creare movimento, non a confermare gerarchie. Ci sono, in basso a sinistra, le anime dei morti che vengono tirate a forza verso l’alto, spinte a mettersi in coda al cospetto del Figlio dell’Uomo. Al centro ci sono quelli che hanno già passato l’esame e, in basso, coloro che sono stati respinti.
C’è una divisione tra i personaggi più vicini a Gesù e quelli più lontani, una specie di solco azzurro che separa coloro che sono già arrivati da chi è ancora in cammino. Sembra alludere alla distinzione tra le due ondate successive di santi narrate nell’Apocalisse: prima i “centoquarantaquattromila” segnati dal sigillo dell’Agnello, poi la “gran moltitudine che nessuno poteva contare”.
E Michelangelo ci tiene molto a sottolineare l’incommensurabilità di questa moltitudine. Così inserisce figure che spuntano appena tra quelle principali, personaggi di cui si vede solo un braccio o un frammento del volto.
Ma la suddivisione tra le due schiere non è netta. A destra, la grande figura di san Pietro si pone a cavallo tra i due gruppi. Sembra dire la propria duplice appartenenza. Da una parte è infatti tra gli ultimi a provenire dalle “dodici tribù di Israele“; dall’altra è il primo dei rappresentanti della Cristianità.
Nel cerchio più esterno poi, ci sono presenze tra le più colorate e inaspettate, compresa una coppia di uomini stretti in un abbraccio tanto eretico quanto erotico. Si tratta dei santi Sergio e Bacco? Forse, ma nessuno, prima di Michelangelo, aveva osato ritrarli in una posa tanto esplicita. Dobbiamo riconoscere che il Giudizio Universale della Sistina è, come disse Giovanni Paolo II, “il santuario della teologia del corpo umano“.
Le verità ultime vi vengono rivelate attraverso il linguaggio dei corpi e dei gesti, più che degli attributi di ciascun protagonista. E l’attributo corporeo principale di Sergio e Bacco – o di chiunque siano i due uomini che si baciano – è proprio il bacio stesso: il loro criterio di santità sta nell’essersi amati, e il loro amore si esprime in quel bacio.
I bacchettoni hanno spesso tentato di dare un’altra interpretazione alla scena. Secondo loro, i due “sodomiti”, trovandosi alla sinistra di Dio, si scambiano l’ultimo bacio in attesa di essere precipitati sulla barca di Caronte. Peccato, cari i miei bigotti, che dalla stessa parte si trovino vere e proprie autorità del Cielo come san Giovanni evangelista e san Marco. Per condannare due omosessuali, siete disposti a mandare all’inferno anche gli autori del Vangelo? Ah già, dimenticavo: lo avete sempre fatto.
Allora i nostri riprendono dicendo che il cerchio interno contiene i salvati e, quello interno, le anime in attesa di giudizio, sante e non. I primi sarebbero meno numerosi perché “molti sono chiamati, ma pochi eletti” (Mt 22,14). Secondo questa lettura però, dovrebbero salvarsi solo i personaggi dell’antico testamento – Mosè, Giona tra i più riconoscibili – mentre i martiri e gli stessi apostoli dovrebbero ancora aspettare in una sorta di purgatorio che si protrae fino alla fine dei tempi.
Notiamo che, chi ragiona così, di solito, pone sicuramente se stesso tra i salvati, mica tra gli altri. E gli dà talmente fastidio l’idea di dover dividere il proprio metro quadro di paradiso con due “pervertiti”, da doversi lanciare in interpretazioni improbabili non solo di fronte al Vangelo ma anche alla più grande opera di Michelangelo.
Chissà se c’è un posto anche per loro.