Mio figlio gay può essere un ebreo fedele ai “valori della Torah”?
Testimonianza di Jami Nelson pubblicata sul sito di informazione The Times of Israel (Israele) il 17 dicembre 2017, liberamente tradotta da Alice Calcagni
Sto scrivendo in risposta all’articolo del 7 dicembre del rabbino Yair Hoffman sullo Yeshiva World, “Movimento crescente per tenere a freno l’ortodossia aperta: il dibattito dell’Unione Ortodossa (OU)”.
Solitamente non condivido i miei pensieri personali online, ma sto facendo un’eccezione in quanto non conosco altri modi per esprimermi su questo argomento molto importante.
Prima di tutto, essere omosessuale non è una “moda sociologica”. Non è una scelta, ma un modo di essere di qualcuno, come HaShem [nome ebraico di Dio, n.d.r.] li ha fatti. Mio figlio, ventitré anni, ha fatto coming out con la sua famiglia la scorsa estate, dopo anni di difficoltà e introspezione. Ha detto che sapeva di essere gay fin da piccolo, ma non ha mai potuto concretizzare questi suoi sentimenti quando frequentava la yeshiva [scuola ebraica, n.d.r.] e viveva la “tipica vita ortodossa”.
Noi non sapevamo cosa stava attraversando, e ciò mi addolorerà sempre perché sua madre, e so che lo avrei potuto sostenere se lo avessi saputo. Siamo una famiglia molto unita, e mi rimprovero di non aver saputo questa cosa, ma come avrei potuto saperla?
Quando aveva diciannove anni ha fatto l’aliyah [trasferimento in terra d’Israele, n.d.r.], dopo aver passato un anno nella Yeshivat Hakotel a Gerusalemme. Ha servito nelle Forze di difesa israeliane per un anno e mezzo in qualità di mifaked (comandante) nella Totchanim (artiglieria). È lì che mio figlio ha fatto coming out con i suoi amici.
L’ortodossia ebraica è qui per restare. Ma cosa si aspetta che facciamo con i nostri figli, rabbino Hoffman? Ignorarli? Non festeggiare con loro i momenti felici? La mia esperienza di madre di un ragazzo gay non è stata facile. Si, in quanto sua madre, io sono “out”, così come suo padre e i suoi fratelli e sorelle, e altri membri della nostra famiglia.
La mia strada a volte è stata solitaria, ed è stato un viaggio emotivo personale. Amo mio figlio con tutto il mio cuore e la mia anima, e voglio che viva una vita in salute, una vita piena, ricca di amore e accettazione.
Un noto rabbino locale mi ha consigliato delle “medicine e terapie per questo problema” e “che forse un giorno deciderà di incontrare una bella ragazza ebrea e di sposarsi”. Quanto è dannoso questo consiglio! La prego, non dica la stessa cosa ad altri genitori!
La nostra comunità è piena di persone che esternamente vivono una “vita nella Torah”, eppure commettono volentieri adulterio, abusano delle loro mogli e dei loro figli, rubano i soldi, truffano il governo, imbrogliano negli affari, ma sono considerate membri rispettabili della nostra comunità ebraica. Incarnano davvero i “valori della Torah”?
Mio figlio vuole rimanere vicino a HaShem e lo è, molto profondamente, ma non può accettare che la Torah lo consideri un abominio. Sta abbandonando l’ortodossia tradizionale, perché l’ortodossia tradizionale lo ha abbandonato per prima e gli ha voltato le spalle. Mio figlio non è un peccatore. È uno dei migliori essere umani che io conosca.
Vi è bisogno di un cambiamento. Dobbiamo affrontare la questione dei nostri figli gay e delle nostre figlie lesbiche. Lo ripeto, sono chi sono, non per scelta. Quindi mi rivolgo a un noto rabbino ortodosso: no! Non è la stessa cosa di mangiare treif [non kosher, ovvero infrangendo le regole alimentari, n.d.r.] o non osservare lo shabbat.
Non è come una dipendenza o una malattia mentale. Per mio figlio e tutti gli altri figli, non c’è scelta se non essere chi sono.
Devo trasferirmi a Riverdale per pregare all’Istituto Ebraico? C’è un posto per me dove poter pregare, un posto dove mio figlio sarà accolto e accettato?
Spetta ai rabbini, ma anche ai laici, trovare la vera compassione, e non solo un’adesione di facciata a una tolleranza condizionale, norma delle nostre comunità.
Testo originale: Losing my religion