Misericordia ambrosiana
Articolo di Inos Biffi*
Un articolo di monsignor Inos Biffi dedicato al tema della misericordia negli scritti di sant’Ambrogio che smonta tutte le perplessità di monti “bravi cristiani” che arricciano il naso quando sentono parlare della “sconfinata” misericordia di Dio.
Secondo sant’Ambrogio il Cristo misericordioso o la misericordia che da lui proviene è il motivo per cui Dio ha creato il mondo e particolarmente ha creato l’uomo. Il perdono è la prima e l’ultima parola del mondo e della sua storia.
Di conseguenza, ai suoi occhi il peccato non ha la competenza di decidere e di riuscire, ed è già, in certo modo, preventivamente perdonato e sciolto. Anzi: esso stesso ha una sua positività, servendo per l’esaltazione dell’opera autentica cui Dio mirava, che non è la creazione, bensì la redenzione, incomparabilmente più stupenda.
Più di tutti gli altri Padri della Chiesa egli ha sentito la potenza della grazia che ricrea e per la quale la colpa si dissolve.
Egli ha scritto: «Dove si tratta di elargire la grazia, là Cristo è presente; quando si deve esercitare il rigore, sono presenti solo i ministri, ma Cristo è assente» (De Abraham, i, 6, 50).
Il Cristo di Ambrogio è specialmente il medico, che cura le ferite dell’anima. Egli così faceva pregare Levi: «Recidi, Signore Gesù, con la tua spada affilata quanto in me è corrotto a causa dei miei peccati. Elimina tutto ciò che è guasto, mentre ancora mi tieni avvinto con le catene dell’amore».
E riconosce: «Anch’io ero piagato dalle passioni: ho trovato un medico, che abita in cielo ed effonde la sua medicina sulla terra: egli solo può risanare le mie ferite, perché non ne ha di proprie. Egli solo può cancellare il dolore del cuore, il pallore dell’anima, poiché conosce i mali nascosti» (Expositio evangelii secundum Lucam, v, 27).
«Scopri al medico – esorta il vescovo – la tua ferita, per poter guarire. Anche se non la mostri, egli la conosce, e tuttavia attende di sentire la sua voce. Cancella le tue cicatrici con le lacrime: così la donna nel vangelo cancellò il suo peccato e allontanò il fetore delle sue colpe» (De paenitentia, ii, 66-67). Il Cristo che sant’Ambrogio si compiace di rievocare è il Cristo che guarda Pietro e ne riempie gli occhi di pianto salutare.
Ambrogio non esita a confessarsi, quando pensa allo sguardo del Signore, sommamente e continuamente desiderato – ad affascinarlo, di Cristo, è particolarmente lo sguardo – e non è difficile immaginare la sua conversione come un’esperienza intensa di questa carità misericordiosa, che trasfonderà nei suoi inni, perché i suoi fedeli la imprimano nella memoria e nel cuore.
E con la figura di Pietro in lacrime, a fissare l’ammirata considerazione di sant’Ambrogio è quella del ladro che, morendo perdonato, passa in un attimo nella vita e nel regno, dal momento che «la vita consiste nell’essere con Cristo, poiché dove c’è Cristo, là c’è il regno» (Expositio evangelii secundum Lucam, x, 121).
Canta nell’inno pasquale (Hic est dies verus Dei): «Agli smarriti Dio ridonò la fede; ridiede luce, con la vista, ai ciechi. Chi sarà ancora oppresso da timore dopo il perdono al ladro? Questi mutò la sua croce in un premio, Gesù acquistando con rapida fede; così, giustificato, arrivò primo nel regno di Dio. Persino gli angeli ne stupiscono, contemplando lo strazio delle membra, e, tutto stringendosi a Cristo, il reo carpire la vita beata».
Il seguito è tutto un canto all’onnipotenza e alla riuscita della misericordia: «Che c’è di più sublime? Cerca la grazia la colpa (…) è dall’amore vinta la paura, la morte ci ridona a vita nuova». La conclusione è l’annientamento della morte, la sola a perire nella salvezza universale.
La visione cristiana e pastorale di Ambrogio, per il quale il Signore Gesù si fa trovare anche da chi terribilmente ritarda, non ha nulla di deprimente: la sua concezione cristiana rasserena e infonde fiducia, proprio perché tutta affidata alla tanta pietas del Signore Gesù (Epistula iii, 10).
Ma il testo più stupefacente e più rivelatore della teologia di Ambrogio sulla misericordia come sostanza e motivo della creazione si legge al termine del commento all’opera dei sei giorni: «Il Signore Dio nostro – osserva – (…) creò il cielo e non leggo che si sia riposato; creò la terra e non leggo che si sia riposato; creò il sole, la luna le stelle, e non leggo nemmeno allora che si sia riposato; ma leggo che ha creato l’uomo e che a questo punto si è riposato, avendo un essere cui rimettere i peccati» (Exameron, vi, ix, 10, 76).
L’uomo, «preziosissima opera di Dio (pretiosissimum opus Dei)» (Expositio Psalmi cii, 10, 6), – «senza del quale il mondo sarebbe risultato vano» (ibidem, 10, 7) – è creato da Dio fin dal principio come «essere perdonabile», anzi, come un essere «da perdonare». Nel suo disegno misterioso e imperscrutabile il tratto divino che Dio vuole avanzare e rivelare, in cui di fatto unificare tutti gli altri, è l’amore misericordioso, o l’amore che perdona. Il Cristo redentore o il Cristo crocifisso appare, così, il motivo per cui Dio crea il mondo. Per questo dove si esercita la misericordia si fa festa in cielo: la creazione raggiunge il suo fine e la sua gloria.
Sant’Ambrogio non cesserà di rievocare questo disegno che apparirà come la ragione per la quale la Chiesa e i suoi ministri devono essere, contro il rigorismo di un Novaziano, i segni delle pietà; per questo soprattutto ricercherà il volto o lo sguardo di Cristo.
Egli giungerà a dire: «Beata la caduta, che da Cristo viene in meglio riparata (Felix ruina, quae reparatur in melius)» (Explanatio Psalmi xxxix, 20): vengono in mente le parole dell’Exsultet romano: «O felice colpa, che meritò di avere un così qualificato e così grande redentore! Non ci sarebbe stata di vantaggio la creazione, se ci fosse mancato il beneficio della redenzione»: parole in qualche manoscritto medievale cancellate o mancanti, perché ritenute eccessive.
Ma ascoltiamo ancora da Ambrogio: «Non mi glorierò perché sono giusto, ma mi glorierò, perché sono redento. Mi glorierò non perché sono vuoto di peccati, ma perché i peccati mi sono rimessi. È più proficua la colpa dell’innocenza. L’innocenza mi aveva reso arrogante, la colpa mi ha reso umile» (De Iacob, i, 6, 23). E rivolgendosi a Cristo dirà: «Signore Gesù, sono più debitore alle tue sofferenze, per le quali sono stato redento, che non alla potenza delle tue opere, per le quali sono stato creato. Non sarebbe stato utile nascere, se non avessi avuto il vantaggio della redenzione» (Expositio evangelii secundum Lucam, ii, 41-42). Un ultimo testo di Ambrogio: «Anche la colpa dei santi è utile: Non mi ha nociuto per nulla la negazione di Pietro, mentre mi è stato di vantaggio il suo ravvedimento» (ibidem, x, 89).
Istituito così il Cristo misericordioso nel suo primato, Ambrogio è soprattutto a lui che si affida e che affida il ministero della Chiesa e la speranza degli uomini. Ed è la vicissitudine di Pietro – che, dopo aver rinnegato, allo sguardo di Cristo piange e si ravvede – che ritorna per animare la confidenza per sé e per i suoi fedeli, ai quali ogni giorno, nell’inno «al canto del gallo» (Aeterne rerum conditor), rievocava quel pianto e quel perdono: «Il gallo canta. La sua voce placa il furioso fragore dell’onda; e Pietro, roccia che fonda la Chiesa, la colpa asterge con lacrime amare».
E dalla narrazione passa alla preghiera: «Gesù Signore, guardaci pietoso, quando tentati incerti vacilliamo: se tu ci guardi, le macchie dileguano e il peccato si stempera nel pianto».
Ambrogio si soffermerà sul perdono di Pietro con evidente agio e soddisfazione nell’Esamerone, nel Commento a Luca, nel De paenitentia.
Soprattutto in questo testo troviamo la teologia, la spiritualità e la pastorale della misericordia secondo Ambrogio, insieme – potremmo dire – con le sue confessioni, commosse, pur nel loro riserbo.
È un messaggio di fiducia: «Cristo verrà alla tua tomba, e se vedrà piangere per te Marta, donna impegnata in un premuroso servizio, Marta, che ascoltava attentamente la parola di Dio, come la santa Chiesa, che “ha scelto per sé la parte migliore”, sarà mosso a compassione» (De paenitentia, ii, 52).
Ed ecco la preghiera: «Signore Gesù, con piena fiducia sono venuto alla tua Chiesa. Manda i tuoi servi ai crocicchi delle strade, raccogli i buoni e i cattivi, fa’ entrare nella tua dimora storpi, ciechi e zoppi. Comanda che essa sia strapiena, introduci tutti alla tua cena: tu renderai degno chi inviterai e ti avrà seguito. Manda a invitare tutti. La tua Chiesa non declina l’invito al tuo banchetto. La tua Chiesa confessa le sue ferite e vuole essere curata. Anche tu, Signore, desideri guarire tutti e nel più debole di noi esperimenti la nostra infermità» (ibidem, i, 30-32).
Abbiamo parlato delle confessioni di Ambrogio. Le ascoltiamo in questo vibrante e commovente brano del De paenitentia, che ci introduce ai suoi sentimenti più personali e più umili, dov’è rievocata l’inattesa e non desiderata nomina episcopale e la sua condotta mondana che l’aveva preceduta. Egli sa bene quello che dicono di lui: «Ecco quello che non è stato allevato nel grembo della Chiesa, non è stato domato fin da ragazzo, ma è stato trascinato a forza dai tribunali, strappato dalle vanità di questo mondo; quello che, abituato un tempo alla voce del banditore, si è avvezzato al cantico del salmista, rimane nell’episcopato non per suo merito ma per grazia di Cristo, e siede tra i convitati della mensa celeste».
Ma questo giudizio non deprime Ambrogio; al contrario, esso gli accende nel cuore l’implorazione ancora più ardente: «Conserva, Signore, la tua grazia, custodisci il dono che mi hai fatto, nonostante le mie ripulse. Io sapevo infatti che non ero degno di essere eletto vescovo, poiché mi ero dato a questo mondo.
Per la tua grazia sono quello che sono, e sono senz’altro l’infimo tra tutti i vescovi e il meno meritevole; tuttavia, siccome anch’io ho affrontato qualche fatica per la tua santa Chiesa, serbane i frutti. Non permettere che si perda, ora che è vescovo, colui che, quando era perduto, hai chiamato all’episcopato; e soprattutto concedimi la grazia di condividere con intima comunione il dolore dei peccatori: questa è la virtù più alta (…) Ogni volta che si tratti del peccato di uno che è caduto, concedimi di provarne compassione, di non rimproverarlo altezzosamente, ma di gemere di piangere con lui, così che, mentre soffro per un altro, io pianga su me stesso, dicendo “Tamar è più giusta di me”» (ibidem, ii, 73).
Paolino scrive nella sua Vita di Ambrogio che il vescovo «ogni qualvolta uno, per ricevere la penitenza, gli confessava le sue colpe, piangeva in modo tale da indurre anche quello al pianto; gli sembrava infatti di essere caduto insieme con quello che era caduto peccando» (Vita Ambrosii, xxix, 1).
E, continuando le sue confessioni, Ambrogio aggiungeva in un crescendo di umiltà e di compassione: «Può darsi che sia caduta una giovinetta, ingannata e travolta delle occasioni, che sono un incitamento ai peccati. Pecchiamo noi vecchi; la legge di questa nostra carne si ribella in noi alla legge del nostro spirito e ci trascina prigionieri verso il peccato, così che facciamo ciò che non vorremmo. Quella ha una scusa nella sua età, io non ne ho nessuna: essa infatti deve imparare, noi insegnare. Dunque, “Tamar è più giusta di me”» (De paenitentia, ii, 72-73).
E tuttavia la coscienza della propria indegnità non deprime il vescovo: egli per primo confida nella pietà del Signore Gesù.
* Inos Biffi è un presbitero della Diocesi di Milano che ha insegnato come professore di teologia sistematica e storia della teologia medioevale presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale di Milano; è stato docente delle stesse materie presso la Facoltà di Teologia di Lugano, dove dirige l’Istituto di Storia della Teologia, da lui fondato. È membro della Pontificia Accademia di S. Tommaso d’Aquino e della Pontificia Accademia di Teologia; è dottore aggregato della Biblioteca Ambrosiana.