Monsignor Casale: «L’omosessualità è ricchezza»
Intervista a mons. Casale pubblicata su www.lettera43.it il 6 ottobre 2015
Papa Francesco ha chiesto ai vescovi, riuniti a Roma per il Sinodo sulla famiglia, di parlare con sincerità, schiettezza e onestà. Monsignor Giuseppe Casale, arcivescovo emerito di Foggia, non se lo è lasciato ripetere due volte. Lettera43.it lo ha raggiunto a Vallo della Lucania, in provincia di Salerno, dove si è trasferito da qualche tempo. «LA SESSUALITÀ È LA BELLEZZA DI DIO IN NOI». Sessualità, omosessualità, celibato, comunione ai divorziati risposati, il coming out di Krzysztof Charamsa: monsignor Casale, classe 1923, laureato in teologia, ha risposto su tutto con freschezza e lucidità: «Le dico volentieri come la penso e mi auguro che le cose che le dirò possano diffondersi. Perché bisogna creare una mentalità nuova in un mondo cattolico chiuso, retrogrado, che commette tante porcherie quando ruba e quando imbroglia, e poi diventa ‘di naso fine’ quando si entra nel campo della sessualità, che è la bellezza di Dio in noi».
OMANDA. Come considera l’atteggiamento di papa Francesco rispetto all’accoglienza delle coppie omosessuali da parte della Chiesa?
RISPOSTA. L’atteggiamento del papa è stato molto chiaro. Ha dato dei segnali, pur senza entrare specificatamente nel merito della questione. E ha lasciato al Sinodo la libertà di esaminare il tema, sia a ottobre 2014 sia adesso.
D. Francesco è un riformatore, ma il tema appare particolarmente delicato.
R. Direi che è uno dei più delicati, perché una gran parte del mondo cattolico, dei vescovi e dei preti, non riesce a concepire una sessualità staccata dalla genitalità.
D. Cosa intende?
R. Il Concilio Vaticano II aveva già aperto la strada, dicendo che il fine primario del matrimonio non è la generazione. C’è un fine unico del matrimonio, che è il completamento delle due persone, da cui nasce la generazione.
D. Sta dicendo che il fine del matrimonio non è la procreazione?
R. Dico che la genitalità entra nel complesso della vita matrimoniale, ma non la esaurisce. Si tratta di un concetto che purtroppo non è penetrato nel mondo cattolico. Buona parte di esso è rimasta ferma all’amore genitale, non riesce a concepire l’amore come una relazione interpersonale più vasta, più aperta all’incontro. Ci sono tanti matrimoni senza figli e sono matrimoni validi. Questa concezione di una sessualità unidirezionale, che vede la genitalità come il suo scopo, è una mentalità che non si riesce a superare.
D. Il ragionamento che lei fa vale anche per l’omosessualità?
R. Nel Catechismo della Chiesa cattolica, per l’esattezza ai paragrafi 2358 e 2359, l’omosessualità non è indicata come un male, come un peccato, bensì come una realtà che bisogna accettare. Però, allo stesso tempo, è considerata una tendenza che non va esercitata. Il Catechismo è rimasto fermo su questa posizione e secondo me qui c’è una contraddizione evidente.
D. In cosa consiste?
R. Nel dire che l’omosessualità è una situazione che riguarda molte persone, che bisogna rispettarla, ma che gli omosessuali sono chiamati alla castità. Se non si tratta di una malattia, se siamo d’accordo che non è un peccato, perché chi non è chiamato per sua scelta al celibato o alla castità deve essere obbligato a evitare l’esercizio della sua sessualità? La sessualità non è solo genitale, finalizzata alla procreazione. È fatta di relazioni, di amicizie, di amplessi. Lo spettro della sessualità è molto più ampio di chi lo riduce solo alla genitalità.
D. Secondo lei, su questo punto, come la pensa davvero papa Francesco?
R. Papa Francesco non vuole procedere con un diktat. Non vuole ripetere, in senso opposto, l’esempio di Paolo VI, che con l’enciclica Humanae Vitaecondannò la contraccezione. Un esempio lampante, perché quel diktat, di fatto, è stato ignorato dal mondo cattolico. Il papa non vuole procedere allo stesso modo. Piuttosto, vuole muovere il Sinodo verso una posizione aperta, che non venga assunta come un’imposizione.
D. Quanto forti sono le resistenze all’interno della Chiesa?
R. Se osserviamo lo svolgimento del Sinodo straordinario notiamo chiaramente come l’iniziale apertura dell’Instrumentum laboris, e poi i contenuti della Relatio post disceptationem, abbiano creato un vero e proprio scompiglio.
D. Cosa è accaduto?
R. L’Instrumentum, cioè il documento di partenza, affermava al paragrafo 117 la necessità di approfondire il senso antropologico e teologico della sessualità umana e delle differenze sessuali tra uomo e donna. Già questo apriva la discussione. Poi è seguito un fatto nuovo. La Relatio post disceptationem, ai paragrafi 50 e 51, affermava che le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana. E ci si domandava se la Chiesa fosse in grado di accoglierle, garantendo loro spazio e fraternità. Ma il documento andava anche oltre.
D. Cioè?
R. Affermava in maniera ancora più impegnativa che occorreva elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica che integrassero la dimensione sessuale. Tutto questo, nella Relatio conclusiva, è caduto. Siamo tornati alla vecchia posizione. L’omosessualità è una tendenza che si riscontra in alcune persone, non è un peccato, non è una malattia, però non si può esercitare. Si è tornati alla posizione del Catechismo, secondo cui chi è omosessuale deve essere casto.
Il coming out di Charamsa? Una scelta non positiva
D. Cosa prevede che deciderà, adesso, il Sinodo ordinario?
R. Prevedo un’uscita morbida, che non risolverà il problema, ma in sostanza dirà: «È una questione da approfondire, lasciamo aperto l’approfondimento». Purtroppo, nel mondo cattolico, quando si parla di omosessualità in molti reagiscono male. L’omosessualità viene vista come il diavolo.
D. Che cos’è invece l’omosessualità, secondo lei?
R. Un diverso orientamento sessuale che mette in evidenza un rapporto affettivo, di stima, tendenzialmente duraturo nel tempo. Un rapporto che consente di affrontare in comune i problemi della vita e che spesso riesce a non cadere in quella sessualità esasperata che oggi colpisce tanti matrimoni eterosessuali, che purtroppo falliscono.
D. Ma il mondo cattolico è pronto per una concezione del genere?
R. Vedo l’apertura di orizzonti nuovi per una sessualità relazionale, che esalti la bellezza di un rapporto fra due persone – anche due maschi o due femmine – che vivono insieme e mettono insieme le loro scelte, i loro problemi. La Chiesa non deve mettere il naso tra le lenzuola delle persone. Lasciamo che le persone vivano la loro sessualità come credono, nell’affetto, nello scambio di un abbraccio, di un bacio, di quello che vogliono. Anche questo è sessualità.
D. È immaginabile una legittimazione dell’omosessualità da parte dei padri sinodali?
R. Mi auguro che al Sinodo prevalga una linea media, che almeno apra delle prospettive, ma non credo che i vescovi arriveranno a legittimare l’omosessualità. Anche se al Sinodo straordinario si è manifestata una forte corrente in tal senso.
D. Sono possibili dei passi in avanti?
R. Per me sarebbe una ricchezza se la Chiesa riuscisse ad acquisire le positività dell’omosessualità in una visione più ampia e più completa della sessualità. Mi auguro che sotto la guida sapiente del papa, con la luce dello Spirito Santo, si possa fare qualche passo avanti per uscire dalla terribile contraddizione in cui si trova oggi la dottrina cattolica.
D. Il cardinale Kasper ha dichiarato che «gay si nasce». È d’accordo?
R. Non è che gay si nasce, gay si diventa, anche. È un fatto psicologico, sociologico, culturale, ambientale. Non tutto dipende dalla biologia. L’omosessualità è una realtà che secondo me fa parte della ricchezza della sessualità umana, che va aperta all’incontro relazionale e va liberata dalla schiavitù del legame con la genitalità, che diventa talvolta brutale e addirittura controproducente.
D. È favorevole alla comunione per i divorziati risposati?
R. Sono favorevole alla riammissione dopo un itinerario penitenziale. Quando ci sono dei figli, una nuova famiglia, dire che un divorziato è in stato di peccato per me è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Ho incontrato molte persone che piangevano per la loro situazione, perché non potevano accostarsi all’eucarestia, che è un sacramento costitutivo del cammino penitenziale dell’uomo. Privare un cristiano dell’eucarestia significa privarlo di tutta la sua ricchezza.
D. Cosa pensa del coming out di monsignor Charamsa?
R. Fare coming out alla vigilia del Sinodo, secondo me, non è stata una scelta positiva. È evidente la volontà di sfruttare il momento. E poi monsignor Charamsa, come prete, era tenuto a osservare il celibato. Lo aveva scelto e quindi, indipendentemente dal suo orientamento, non avrebbe potuto vivere una vita sessuale normale. Detto questo, io non giudico la persona. Dico solo che si è presentato come un prete che ha mancato a un impegno che aveva assunto, mi auguro io, liberamente.
D. Monsignor Charamsa ha sostenuto che l’astinenza totale dalla vita d’amore sia disumana. Non è quello che pensa anche lei?
R. C’è una differenza. Io penso che sia sbagliato vietare la sessualità a chi può legittimamente esercitarla. Vale a dire, a un omosessuale che non ha promesso il celibato, che non ha fatto voto di castità, e che oggi se volesse potrebbe sposarsi.
D. In Italia, per la verità, non potrebbe.
R. Oggi non è consentito, ma speriamo che si arrivi a dare una legittimazione civile alle unioni omosessuali. E chissà, magari più in là… non dico un sacramento, ma almeno una benedizione del Signore, a due persone dello stesso sesso che vogliono stare insieme, che si vogliono bene e vogliono vivere insieme con stabilità. Mi auguro che la Chiesa arrivi a invocare la benedizione di Dio su due omosessuali che vogliono stare insieme e vivere una vita di dedizione reciproca. Questo tirerebbe fuori dalla clandestinità tante persone, forse anche tanti preti che vivono il celibato di malavoglia e chiederebbero di essere liberati dal peso che grava sulla loro coscienza.
D. Nella sua esperienza di vescovo, le è mai capitato di raccogliere la confessione di un prete omosessuale?
R. Sì, ci sono stati alcuni casi. Io ho cercato di aiutare i sacerdoti che si sono confidati con me a recuperare con pazienza la fedeltà al celibato. La situazione del resto non era compromessa, si trattava di sbandate che possono capitare. D’altra parte, oggi si pone il problema: l’omosessuale può essere accolto come prete? Attualmente la Chiesa risponde di no. Anche su questo, però, noi vescovi dovremmo riflettere.
D. In che senso?
R. La castità riguarda in maniera analoga eterosessuali e omosessuali. Il giovane che vuole diventare prete, indipendentemente dall’orientamento sessuale, deve avere la forza, il coraggio, l’aiuto di Dio per vivere la castità. Un impegno che noi vescovi dovremmo esaminare attentamente, con l’aiuto di psicologi e pedagogisti, per valutare se il soggetto è in condizione di assumerlo oppure no.
D. Il celibato per i preti, quindi, rimane un punto fermo anche per lei?
R. Il celibato è un dono e una norma giuridica, ma va ripensato e va vissuto in un clima nuovo, un clima di comunità. Perché un prete solo è un prete che vive di stanchezza, di inquietudine, di solitudine. Dovrebbe vivere in una comunità lieta, fatta non solo di altri preti, ma di uomini e donne insieme. Il prete dovrebbe saper vivere con le famiglie, aprirsi all’amore, avere anche lui degli affetti e delle amicizie, perché non si può chiudere il cuore. Un prete con il cuore chiuso non è capace di fare il padre, di comprendere e accogliere gli altri. Chi ha il cuore duro non sa far altro che sentenziare, e manda via la gente. Diventa una persona anchilosata, incapace di capire gli altri.
D. Quante sono nella Chiesa le persone che condividono i suoi orientamenti?
R. Credo siano in molti, però è necessario che queste idee emergano non come forme di rifiuto di una tradizione millenaria, ma come forme di arricchimento. Occorre conservare quello che c’è di bello nel celibato, ma aprirlo contemporaneamente alla condivisione, alla vita in comune. Infine, a mio parere, sarebbe necessario spostare la scelta del celibato a un’età più matura. C’è un’età in cui i sentimenti e i sensi scoppiano: bisogna superarla per poter dire un ‘sì’ a occhi aperti e con il cuore sereno.