Morire di transfobia. Addio Cloe, addio Sasha scusateci, se potete
Riflessione di Massimo Battaglio
Oggi dobbiamo raccontare due storie tristi, lunghe e dolorose: quella di Cloe, già professoressa di fisica, e quella di un ragazzino di Catania, Sasha. Entrambi hanno deciso di morire. Entrambi erano trans: Cloe M>F (in transizione da maschio a femmina), il ragazzino, F>M (in transizione da femmina a maschio)
Di Cloe avevamo già sentito parlare nel 2015. A un certo punto del suo percorso lavorativo, aveva dovuto, come tutte le persone trans, presentarsi con abiti tipici del genere di elezione. Con sicuro coraggio e dopo averci pensato molto, si era messa una minigonna, si era fatta un taglio di capelli aggraziato, ed era andata a scuola così. “D’ora in poi, chiamatemi Cloe” aveva detto ai ragazzi.
C’era stato un putiferio: genitori indignati, colleghi imbarazzati, richieste di provvedimenti disciplinari. Provvedimenti? E per cosa? Ma si sa: i pregiudizi sono duri a morire e il maschilismo la fa da padrone, specialmente quando ci troviamo nel profondo nordest italiano, a San Donà del Piave. E’ un posto in cui, in questi dieci anni di ricerca sulle “Cronache di Ordinaria Omofobia”, abbiamo registrato 7 episodi omofobi gravi su 41.727 abitanti.
Il “caso” Cloe era rimbalzato addirittura in Parlamento, dove la Lega aveva presentato un’orribile interrogazione. Anche qui, niente di nuovo: i parlamentari di quel partito sono sempre stati speciali nel credere di essere dotati di potere giudiziario – anche al di sopra della legge – e di poter perdere tempo dietro le storie di qualunque singolo cittadino, specie se esce dai loro schemi. Ne sa qualcosa anche chi scrive.
La vita di Cloe, in questi sette lunghi anni, era andata sempre peggio. Ora viveva in un camper. E nonostante tutto, aveva continuato a lottare. Teneva anche un blog: PERsone TRANSgender. Sul quale blog, venerdì 10 giugno, è comparso il seguente messaggio:
“Oggi la mia libera morte, così tutto termina di ciò che mi riguarda.
Subito dopo la pubblicazione di questo comunicato porrò in essere la mia autochiria, ancor più definibile come la mia libera morte. In quest’ultimo giorno ho festeggiato con un pasto sfizioso e ottimi nettari di Bacco, gustando per l’ultima volta vini e cibi che mi piacciono. Questa semplice festa della fine della mia vita è stata accompagnata dall’ascolto di buona musica nella mia piccola casa con le ruote, dove ora rimarrò. Ciò è il modo più aulico per vivere al meglio la mia vita e concluderla con lo stesso stile. Qui finisce tutto.
Addio. Se mai qualcuna o qualcuno leggerà questo scritto”.
Poi ha dato fuoco al camper e si è lasciata morire. Non è il caso di aggiungere altro alla storia della professoressa.
Cambiamo scenario. Siamo a Catania, nelle stesse ore. Sasha, 15 anni, sta vivendo un brutto periodo. Ormai è certo di essere un ragazzo, nonostante il suo corpo continui a ripetergli di avere gli attributi di una donna. Ha cercato conforto e lo ha trovato nell’attivismo LGBT+. Nelle associazioni locali è conosciuto, è un po’ la mascotte e un po’ l’orgoglio del gruppo: così giovane e deciso. Ma non riesce a esprimere il proprio travaglio al di fuori di quel cerchio protetto, men che meno in famiglia. Si lancia dalla finestra, dal sesto piano. Anche lui ha deciso di morire.
Così ne parlano, subito dopo, i nuovi amici del Catania Pride:
“La notizia della morte di Sasha ci è arrivata, ci ha colpiti e ci ha sconvolto non poco. Ci stringiamo agli amici e le amiche e a tutti i suoi cari. Sasha era un giovane ragazzo della nostra comunità, appena 15 anni, vicino da poco al mondo del Pride e dell’attivismo. All’ultimo evento organizzato dal Catania Pride ha scelto di essere presente e in prima persona come volontario e ci ha aiutati nel sistemare e montare tutto per l’attività. Abbiamo avuto modo di parlare con lui, di conoscerlo e sentire le sue battaglie nel poter esprimere la sua identità di genere”.
Anche qui, non aggiungiamo altro se non un rispettoso, lacrimante silenzio. Ma, personalmente, mi permetto due considerazioni generali.
La prima: non dobbiamo permetterci di giudicare il gesto dei due amici. E abbiamo invece il dovere di prendere per buone le parole di addio di Cloe: il suo gesto, come lei dichiara, è un gesto di libertà.
Ma se, per qualcuno, l’unico modo per esprimere un gesto di libertà è quello di morire, la società in cui vige questa regola deve porsi qualche domanda e, prima ancora, sentirsi tremendamente in colpa. Se, per trovare pace, bisogna cercarla oltre la vita, è inutile appellarsi al buon Dio e parlare di “valori non negoziabili”. Nemmeno la vita è negoziabile.
La seconda: sento già qualcuno che blatera dicendo che Cloe se l’è cercata e che Sasha è stato traviato dalla lobby gay. Bene: chiunque faccia di questi ragionamenti, eviti di parlare di “natura” e “contro natura”. Perché non è affatto naturale elaborare pensieri di questo genere. Bisogna essere accecati da un odio patologico, del quale è bene parlare con uno psicologo, prima di esprimerlo sui social, sui giornali o addirittura dai pulpiti.
Ciao Cloe. Ciao Sasha. Perdonateci, se potete.