Né donna né uomo. Vi porgo la mia altra Saggezza
Riflessioni di Chris Paige tratte dal sito Trans Faith Online (Stati Uniti), del maggio 2001, liberamente tradotte da Giacomo Tessaro
Sono qui in chiesa seduta e guardo il mio amico Paul che celebra la comunione. Mi viene da piangere. Sia io che Paul eravamo presbiteriani.
Dopo aver terminato il Seminario di Princeton come gay dichiarato, Paul si unì a una congregazione in comunione con la Chiesa Unita di Cristo (UCC) e la Chiesa Presbiteriana, a cui mi unii io stessa pochi anni dopo.
Lì ci incontrammo e diventammo amici. Nonostante il talento di Paul per il pastorato, la Chiesa Presbiteriana non intendeva ordinarlo perché apertamente gay.
La doppia identità della nostra congregazione gli si presentava come una scelta e un invito: poteva rimanere nella Chiesa Presbiteriana, che era casa sua ma in cui non poteva adempiere alla sua vocazione, oppure poteva diventare membro della UCC e ricevere l’ordinazione. Dopo aver molto riflettuto, Paul decise di ricevere l’ordinazione nella UCC.
Mi ricordo benissimo il giorno in cui divenne pastore e celebrò la Cena del Signore per la prima volta. L’emozione era palpabile. Fu un momento di gioia ma anche di cordoglio per il passo che Paul stava facendo in quella sua nuova identità.
Sono passati diversi anni. Ora, mentre lo guardo in questa sua chiesa che conosce così bene, lontano da dove ci siamo incontrati la prima volta, pronuncia le parole dell’istituzione con nonchalance, come se avesse passato tutta la vita a pronunciarle.
Mi vengono lacrime di gioia mentre lo guardo, dopo tanti anni di lotte, adempiere alla sua vocazione, sopravvissuto alla difficile scelta di abbandonare la Chiesa in cui era cresciuto e aveva trovato la fede, per trovare una nuova casa.
Conosco molte pastore lesbiche, pastori gay, seminaristi e licenziati in teologia che hanno dovuto affrontare una scelta simile, decidendo di rimanere nella loro Chiesa di origine e lavorare per la riconciliazione.
Ognuna e ognuno di essi ha una storia unica. Sono profeti e agenti di trasformazione in una Chiesa che spesso e volentieri farebbe a meno di loro.
E poi ci sono io, e altri come me. Sono un po’ dentro e un po’ fuori la Chiesa Presbiteriana. Sottolineo “un po’ dentro e un po’ fuori”, da qualche parte nel mezzo. Sento profondamente mia questa Chiesa e le sue lotte.
Rimango membro di una congregazione presbiteriana, sono un’anziana e partecipo regolarmente alla vita della Chiesa. Eppure l’ho lasciata.
Non partecipo più agli incontri di zona e a quelli nazionali. Tengo a debita distanza le politiche ecclesiastiche e le lotte per riformare la Chiesa.
Mi guardo bene dall’identificarmi troppo come una presbiteriana, un’identità che mi sembra una trappola fatta per farmi sentire schierata, incapace di essere a mio agio.
Eppure non ho intenzione di abbandonare la mia tradizione religiosa e identificarmi con la UCC o con qualche altra denominazione più accogliente, anche se potrei farlo senza difficoltà, senza nemmeno lasciare la mia comunità locale.
Sono un po’ nel mezzo, non proprio dentro e non proprio fuori. Vivo ai margini di ciascuna identità cercando di stare al centro di me stessa. Ho rinunciato all’idea che la mia Chiesa sia in grado di contenere la mia intera identità spirituale.
Io sono una donna. Ma sono giunta a capire che questa etichetta mi ha creato un continuo conflitto interiore.
Ho cercato molte volte di ricostruire “donna”, ma mi sembra ancora un qualcosa di limitativo, come se tagliasse fuori una parte importante di me. Sarò sempre una donna, come sarò sempre una presbiteriana. Ambedue queste identità e affiliazioni mi hanno formata, hanno fatto di me quello che sono, e non è poco.
Ma sto anche rinunciando all’idea che “donna” sia in grado di contenere la mia intera identità di genere. Mi sento sempre più libera di esplorare le mie inclinazioni e priorità senza sentire la pressione di giustificarle in termini di identità “femminile”.
Certo, c’è l’opzione “uomo”. Qualche volta vengo scambiata per un uomo, e fin qui mi sta bene. Mi sono chiesta seriamente se questa etichetta mi convenga meglio di “donna”. Ma non è quello che sono.
Potrei essere maschio per associazione in alcune circostanze, per le strutture e le tradizioni della nostra società, ma non credo faccia parte del mio cammino diventare un maschio transessuale.
Per me tale transizione non risolverebbe il mio dilemma, proprio come identificarmi attivamente con la Chiesa Unita di Cristo non mi porterebbe a casa. Quella non sono io. Sto un po’ nel mezzo.
Non veramente maschio. Non completamente a mio agio come femmina. Io sono Altrimenti. Credo di vivere sulla cuspide dell’indecisione. Ma solo perché a tutti noi hanno insegnato che una decisione ci vuole.
Quando cominciai a leggere le opere di Kate Bornstein, come “Gender outlaw” e “My gender workbook”, cominciai anche ad abbandonare la lotta per adattarmi agli stereotipi maschili e femminili.
Fui in grado di dare un nome all’insidiosa violenza sociale da me vissuta nell’infanzia, una violenza che io chiamo “genere non consensuale”.
Alla nostra nascita ci viene assegnato un genere. Questa etichetta – maschio o femmina – arriva a definire quasi ogni interazione che viviamo da bambini e da adulti. È permanente, immutabile, non negoziabile.
Alcuni di noi (questa è la mia esperienza) entrano in un mondo sociale le cui aspettative associate con questa etichetta ci terrorizzano. La pressione al conformismo è costante.
Ci si aspetta da noi che diamo un taglio a delle parti di noi stessi per poter entrare nell’ordine binario: o maschio o femmina. Inoltre, ci si aspetta da noi che trapiantiamo dei pezzi di identità che per noi sono assolutamente estranei, minacciando ancora di più la nostra integrità.
Questa pressione si esercita attraverso la minaccia, il comando o la schietta ostilità, come attraverso delle forme sistematiche ma sfumate di reazione, rifiuto, disapprovazione, abbandono e mancato sostegno. Questa sottile violenza lascia il segno.
La violenza e il terrorismo del genere non consensuale, tuttavia, iniziano così presto che difficilmente ce ne “ricordiamo”. È sempre stato parte della struttura della nostra vita. Cresciamo assuefatti a questo abuso sistematico. Il nostro adattamento diventa un’abitudine inconscia.
Personalmente sono stata allevata da piccola femminista. Mi è stato sempre detto che avrei potuto essere qualsiasi cosa volessi. Questo atteggiamento mi ha trasmesso forza in molte cose, dal giocare con le macchinine invece che con le Barbie all’essere brava in matematica, in scienze e negli sport.
A casa mi hanno sempre sostenuto incondizionatamente.
Ma non di meno, a livello inconscio, ho imparato che ci sono anche limiti ed aspettative di genere. Il messaggio del conformismo è arrivato a me in molti modi, sottili e meno sottili.
Quando volevo giocare nella terra con i bambini, venivo messa in fila con le brave bambine con i loro vestitini, ricordandomi che non riuscivo ad adattarmi a nessuno dei due mondi.
I ragazzi della squadra di pallacanestro delle elementari rifiutavano ostentatamente di passarmi la palla, anche se facevo i tre quarti dei punti della squadra! I miei riconoscimenti facevano sempre riferimento al mio genere.
Ritornando sul mio notevole lavoro su diverse riviste scientifiche il mio insegnante del liceo, un tipo progressista, fece la battuta “Non c’è nulla come una ragazza intelligente”. Che fosse la recita dell’asilo o il viaggio della squadra di pallacanestro, la società si aspettava che mi vestissi da bambina.
La società mi suggeriva che non era accettabile che io fossi quello che volevo essere. Imparai a fare attenzione, sceglievo costantemente tra il conformismo o la resistenza alle aspettative di genere di chi mi circondava.
Ora da adulta, quando le commesse mi chiamano “signore” e poi si accorgono del loro sbaglio, trovo che la loro ansia intensa mi confonde.
Da bambina venivo spesso scambiata per un maschio e tali reazioni negative, sperimentate regolarmente, mi comunicavano parecchio sulla mia identità impropria. Infatti ho portato i capelli lunghi dalle scuole medie fino all’università proprio per evitare simili esperienze.
Tali adattamenti mi hanno aiutato a sopravvivere ma hanno anche minacciato la mia integrità.
Attraverso un’attenta presentazione e la consapevolezza sociale cercai in qualche modo di riconciliare questi due concetti radicalmente opposti: che ero sia pura potenzialità che profondamente in errore. E, in superficie, penso di aver fatto funzionare la cosa.
Ma la dissonanza che ho vissuto ha scavato in profondità. Il mio subconscio ha imparato bene ciò che la società mi ha insegnato in anni di interazioni e finzioni e aspettative e reazioni. Ora so che queste etichette semplicistiche non si adattano alla complessità della nostra effettiva identità.
Essendomi identificata come sopravvissuta di questo abuso sistematico, ora ho la forza di esplorare la mia identità di genere da una posizione nuova, che rifiuta sia “maschio” che “femmina”. Al loro posto mi identifico come “Altrimenti”.
In questo processo sto diventando poco a poco più consapevole dei pezzi di me stessa che ho cercato di tagliare via per poter sopravvivere, le parti “ragazzo” e le parti “ragazza” che venivano aizzate le une contro le altre.
Sto imparando a rimettere i pezzi assieme in modi nuovi. Sono una sopravvissuta della violenza e del terrorismo del genere non consensuale, ma non sono più divisa contro me stessa.
Solo ora, da una posizione di crescente interezza, posso rimettere in discussione in maniera più profonda la finzione che mi ha obbligato a fare scelte perdenti, come se il mondo cadesse a pezzi se io rimanessi sospesa da qualche parte al di sopra o in mezzo alla limitata scelta di maschio o femmina.
Ci hanno insegnato che è essenziale essere l’uno o l’altro. O sei nella Chiesa Presbiteriana o non lo sei. O sei maschio o sei femmina. Tu hai una e una sola identità, e il confine è presumibilmente chiaro.
Ebbene, mi rifiuto di fare tale scelta. Farla significherebbe fare violenza a me stessa. Violerei la pienezza dell’identità che è la mia. Invece voglio il mio posto in quanto Altrimenti.
E questa è l’Altra Saggezza che vi porgo: che non dobbiamo scegliere. Il “o questo o quello” non è la sola opzione. È ora del “un po’ questo un po’ quello”, l’ora della gioia e della pienezza, anche se porterà nuovo dolore e nuove lotte.
Vi porgo questa Altra Saggezza, che è la vostra integrità a dover definire la vostra identità. Per alcuni questo vorrà dire continuare a identificarsi con il genere (o la Chiesa) che vi è stato assegnato alla nascita, mentre date e ridate forma a quella tradizione e a quello che significa per voi nel cambiamento e nella crescita, rendendo visibile il vostro sé più profondo. Per altri, la scelta sarà diversa.
Erin Swenson si è lasciata alle spalle l’identità di genere che ha ricevuto alla nascita per poter vivere pienamente nella sua identità di donna, come il mio amico Paul si è lasciato alle spalle la Chiesa in cui è nato per vivere pienamente la sua identità di pastore della UCC.
La giovinezza presbiteriana di Paul rimarrà per sempre impressa nella sua identità e nella sua storia, ma ora è membro a pieno titolo di un’altra Chiesa.
Erin sarà sempre influenzata dalla sua vita da uomo, ma ora si identifica pienamente nel genere femminile. In ciascun caso c’è una transizione, un cambiamento di identità. La persona dentro di sé può rimanere fondamentalmente la stessa, ma l’individuo compie una scelta, un cambiamento di identità, per vivere con una maggiore integrità e onestà.
E poi c’è il resto di noi. Quelli che si rifiutano di scegliere. Io scelgo di rimanere sospesa da qualche parte nel mezzo. Non correggo la gente che mi scambia per un uomo. Eppure, se costretta a scegliere, mi identifico come donna.
Ma qualcosa nel più profondo di me si libera quando dico “tutti e due” (o “nessuno dei due”). Quando rivendico questa etichetta “Altrimenti” vivo una pienezza di spirito che porta con sé una potente sensazione di gioia e pienezza.
Ci sono queste due parti di me stessa, “maschile” e “femminile”, che a lungo sono state in conflitto l’una con l’altra. In Altrimenti fanno la pace, si danno la mano e iniziano a danzare. Ancora non conosco tutte le implicazioni future di questa nuova identificazione.
Ma di una cosa sono sicura: ognuna e ognuno di noi ha un dono da portare quando viviamo nell’integrità. Eppure possiamo scoprire la natura del dono solo se viviamo in modo autentico chi siamo.
Le nostre scelte non saranno certamente sempre le stesse. Le identità possono cambiare nel tempo. Ma insieme tessiamo una storia di guarigione che si aggiunge alle altre attraverso i secoli.
Come il cieco del vangelo di Giovanni a cui venne chiesto di spiegare la sua guarigione e la sua nuova identità, testimoniamo la nostra integrità e intoniamo un inno con Colui a immagine del quale siamo stati creati: “Sono io!” (Giovanni 9:9).
Testo originale: OtherWise