Né maschio, né femmina sono solo un ragazzo transgender
Articolo di Caterina Duzzi tratto da Gioia n. 49 del 15 dicembre 2007, pp.91-92
Nascere uomo in un corpo di donna, Una condanna? Non sempre: a volte solo il punto di partenza di un lungo viaggio per trovare se stessi. Storia di Daniele che si chiamava Diana. All’appuntamento si presenta con un maglione bianco, i jeans e la barba di qualche giorno. Ha uno zaino portato su una spalla sola, un piercing e i capelli rasati. A prima vista, Daniele Brattoli è, a tutti gli effetti, un giovane uomo di 23 anni. Anche la sua voce è maschile, e anche la maniera di camminare, rapida, un po’ molleggiata.
Daniele fino a qualche anno fa si chiamava Diana. Anzi, ufficialmente si chiama ancora Diana, perché, pur avendo ottenuto dal Tribunale l’autorizzazione al cambio di sesso, è ancora in attesa dell’intervento che gli consentirà di modificare il nome anche sui documenti. Con un aspetto da ragazzo e un nome da donna, il grottesco è all’ordine del giorno. «Di recente sono andato in posta a fare il “poste pay”», racconta Daniele. «L’impiegata, dopo aver guardato la mia carta d’identità, mi ha fissato interdetta e mi ha detto: “Ma lei è una signorina!”. Per non parlare di quando vado a votare, e mi metto nella fila delle donne… Ma ormai mi ci sono abituato, mi diverto persino. Penso che, quando farò l’intervento, queste situazioni mi mancheranno».
Ora come ora, l’isterectomia che, per lo Stato, sancirà il suo passaggio nel mondo dei maschi, per Daniele è solo un dettaglio. Lui la sua identità l’ha già trovata: «So che non è facile da capire, ma non mi sento né uomo, né donna: io sono un ragazzo T». Daniele è un transgender e abita una zona di confine tra i generi maschile e femminile. Una zona dove barba, peli e sesso femminile possono tranquillamente convivere, perché «non è un pene che fa di un uomo un uomo».
Daniele, nato Diana l’8 marzo di 23 anni fa («non è un caso che io sia nato proprio l’8 marzo, no»? domanda) è una persona in pace con se stessa. La pace la vive dentro di sé, ma la pratica anche: oltre a studiare giurisprudenza, lavora per un’associazione che si occupa di mediazione dei conflitti in ambito scolastico: «Nel mio corredo genetico c’erano pochi cromosomi Y, ma molti cromosomi della pace», sorride.
«Non è stato sempre così», continua Daniele. «Per moltissimi anni non c’è stato niente che mi facesse stare veramente bene. C’era sempre un malessere di fondo che non riuscivo a identificare.
A 14 anni mi dicevo che era il periodo che vivevamo, che eravamo tutti incasinati, ma sentivo che era una spiegazione insufficiente. A 18 anni mi sono innamorato di una ragazza, ho pensato di essere lesbica, ma non era nemmeno quello». Confondere questa disperata ricerca di un’identità con una tappa di un normale percorso di crescita è stato possibile fino a un certo punto.
«C’è un momento in cui prendi coscienza», dice Daniele, «anche se non so dire come ci sono arrivato. Ci arrivi un po’ per volta. A quel punto, a 19 anni, ho iniziato a cercare su Internet altri come me. Un amico mi ha parlato di Crisalide (associazione che si occupa dei diritti delle persone transgender, transessuali, intersessuate, n.d.r.), li ho iniziato a frequentare i gruppi di auto-aiuto».
All’interno di Crisalide Daniele matura la decisione di iniziare il suo percorso di transizione che, da un punto di vista puramente “tecnico’ segue un protocollo preciso: incontri con psicologi, una perizia psichiatrica e visite endocrinologiche per mettere a punto la terapia ormonale e per accertare che non ci siano anomalie genetiche pregresse. Per alcuni, una volta ottenuta l’autorizzazione del Tribunale, questo percorso si conclude con l’operazione di isterectomia ed, eventualmente, la plastica del pene (ma per il cambio del nome sui documenti è sufficiente la rimozione di utero e ovaie). Per altri, si tratta di un grande viaggio alla ricerca di se stessi senza esiti scontati.
In ogni caso, iniziare una terapia ormonale che, nel giro di due mesi, ti fa cadere i capelli, crescere i peli e cambiare voce, insomma che, perlomeno da fuori, ti regala un altro te stesso, non è certo una cosa facile. «E’ stata dura», conferma Daniele. «Però, nonostante tutto, ero sicuro della mia scelta. Sentivo che, finalmente, avevo trovato la mia strada. Il problema era dirlo al mondo, e soprattutto ai miei.
All’inizio hai l’impressione di dover affrontare tutto in una volta sola, invece poi capisci che si affronta una cosa alla volta».Ma che cosa significa circolare per il mondo prima da donna e poi da uomo? In qualche modo Daniele, attraversando la frontiera dei sessi, ha anche guadagnato una soglia di comprensione delle cose che tradizionalmente ci è preclusa. «Quando avevo un aspetto femminile, il maschilismo mi dava veramente fastidio. Non sopportavo il fatto che gli uomini si sentissero in diritto di fare apprezzamenti sulle donne.
Allo stesso modo c’erano comportamenti delle ragazze che non sopportavo. Con loro era sempre difficile essere schietti, diretti. Per esempio, giocare a pallavolo e, se una sbagliava, dirle “hai fatto una cazzata’.
«Gli stereotipi legati ai generi poi sono moltissimi, per esempio da un uomo ci si aspetta che reprima la propria emotività.
Essere un ragazzo T mi permette invece di essere libero di esprimere tutte le mie parti maschili e femminili. Di ricevere una pacca sulla spalla e farmi prendere in giro senza offendermi, ma anche di non aver paura di manifestare un’emotività forte, di piangere. Il traguardo più importante che ho raggiunto è che non devo essere qualcosa che gli altri mi chiedono di essere». E l’amore? «Ho avuto diverse storie con ragazze. E’ chiaro, non vado a rimorchiare in discoteca, cerco di conoscere le persone in altri ambiti e faccio subito presente chi sono».
All’ultima domanda (“Vorresti rinascere donna o uomo?”) Daniele ci pensa un po’ sue poi risponde: «Donna, perché, senza il percorso che ho fatto, non sarei quello che sono». E se ne va con il suo passo molleggiato.