Nella chiesa è l’ora dei laici (se l’orologio va)
Articolo di Gilfredo Marengo* pubblicato sul quotidiano cattolico Avvenire il 29 aprile 2016
Papa Francesco nel suo intervento sulla partecipazione pubblica del laicato nella vita dei popoli dell’America Latina (“Lettera al cardinal Ouellet”, 19 marzo 2016, resa pubblica il 26 aprile) – segnalata la deformazione del clericalismo – si muove auspicando un discreto decentramento dell’autorità dei pastori, quando afferma «Non è il pastore a dover dire al laico quello che deve fare e dire, lui lo sa tanto e meglio di noi. Non è il pastore a dover stabilire quello che i fedeli devono dire nei diversi ambiti.
Come pastori, uniti al nostro popolo, ci fa bene domandarci come stiamo stimolando e promuovendo la carità e la fraternità, il desiderio del bene, della verità e della giustizia». Così facendo, Francesco mette a fuoco il profilo originario dell’autorità nella Chiesa: essa infatti non supplisce alla libertà del fedele, ma la rende possibile.
Si annuncia una concezione dell’autorità che non occupa il centro della scena, ma si presenta come condizione di possibilità senza della quale la comunità ecclesiale non può confessare e annunciare con sicurezza il Vangelo; nel medesimo tempo quell’autorità non elimina il rischio della libertà e della prova della storia. In altri termini: il suo compito non è fissare un modello da eseguire, ma creare le condizioni di una novità creativa dell’esperienza cristiana. Che in alcuni frangenti storici il Papa e i vescovi abbiano esercitato una funzione di supplenza in presenza di forti fragilità della compagine ecclesiale resta una eccezione, comprensibile e doverosa, ma comunque sempre tale.
Per cogliere tutta la fecondità di questo accento, è necessario ricordare quanto in non pochi interventi (da ultimo Amoris laetitia), il Papa vada nella direzione di sciogliere il nodo della opposizione tra dottrina e pastorale, intorno al quale si sono ingarbugliati non pochi fili della vita più recente della comunità ecclesiale. Qui sta il senso del forte appello a dare spazio al rischio di una approfondita «inculturazione», liberata dalla paura di commettere errori. Se «è illogico, e persino impossibile, pensare che noi come pastori dovremmo avere il monopolio delle soluzioni per le molteplici sfide che la vita contemporanea ci presenta», anche eventuali passi falsi, compiuti rischiando giudizi e interventi nella vita pubblica, cessano di essere sempre ricondotti a sintomo di un tradimento della «necessaria unità di dottrina e di prassi» che è cosa ben diversa da una pretesa di uniformare attraverso «direttive generali per organizzare il popolo di Dio all’interno della sua vita pubblica». Non è casuale che Francesco presenti l’inculturazione come «lavoro artigianale e non una fabbrica per la produzione in serie di processi che si dedicherebbero a “fabbricare mondi o spazi cristiani”».
In questo percorso non si perde nulla del profilo originario dell’autorevolezza del ministero pastorale e si correggono piuttosto alcuni annosi equivoci. Si è ritenuto spesso che il Papa e i vescovi avessero il compito di “dettare la linea” a tutto il popolo cristiano, in forza della loro qualità di maestri autentici e custodi del deposito della fede. Ne è venuto che ogni intervento pastorale è stato talvolta presentato come immediatamente dedotto dai fondamenti della fede e pertanto inteso come indiscutibile.
Quando si è voluto uscire da questo rigidità si è rischiato di sottostimare il magistero pastorale (lo si vide già in talune reazioni a Gaudium et spes e la tentazione riappare in qualche commento ad Amoris laetitia), riducendolo al rango di semplici opinioni o indicazioni contingenti: a un ossequio formale ai princìpi non ha corrisposto una unità vitale nell’agire ecclesiale, sovente insterilito da un logorante conflitto delle interpretazioni. Ci si potrebbe domandare se una certa ipertrofia di interventi da parte delle varie istituzioni ecclesiali non sia un modo con cui si è ritenuto, ingenuamente, di supplire con la quantità a queste incertezze di metodo di comunicazione intraecclesiale.
Francesco investe piuttosto sulla comune appartenenza al Popolo di Dio e la custodia della memoria cristiana, senza della quale il laico si ritrova sradicato dalla sua identità, incapace di camminare ed essere protagonista della storia.
L’insistenza sulla vocazione battesimale e sulla testimonianza profetica corregge il molto frequentato polo opposto al clericalismo, la cosiddetta «autonomia del laico», tipica di quella stagione in cui – osserva con ironia il Papa – ricorreva «la famosa frase: “È l’ora dei laici”, ma sembra che l’orologio si sia fermato». Si affaccia un percorso nel quale la comunione ecclesiale si manifesta come originario criterio di giudizio e di azione. In questa prospettiva l’unità della comunità cristiana è la sorgente che alimenta ogni esprimersi pubblico dei cristiani.
*Ordinario di antropologia teologica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia