Nella teologia delle periferie con la “Via Crucis di un ragazzo gay”
Dialogo di Katya Parente con Luigi Testa
La via crucis è una pratica devozionale nata durante il Medioevo, che ricorda il percorso che Gesù fece fino al Golgota. Nel linguaggio comune però ha assunto il significato di un tratto di vita particolarmente doloroso, costellato di difficoltà e cadute, talvolta dall’incomprensione di chi ci sta vicino. E’ proprio quello che spesso accade alle persone LGBTQ+, a volte emarginate e derise, quando non apertamente oltraggiate. E anche quando questo non succede, è quasi sempre presente una sensazione di disagio strisciante.
Su questo tema l’editore Castelvecchi propone il volume di Luigi Testa intitolato “Via Crucis di un ragazzo gay”, significativamente pubblicato nella collana “teologia dalle periferie”, di cui abbiamo parlato già altrove su gionata.org
Ora ne intervistiamo l’autore, giovane docente di diritto pubblico comparato all’Università degli Studi dell’Insubria e di diritto pubblico all’Università Bocconi. con al suo attivo testi a carattere giuridico oltre ad editoriali per alcuni quotidiani nazionali. “Via crucis di un ragazzo gay” è la sua prima prova di scrittura intimistico-religiosa.
Perché scrivere un libro, e perché proprio questo?
Forse dovrei anzitutto chiarire che questa Via crucis non nasce subito come libro destinato alla pubblicazione. Nasce, invece, due anni fa, come qualcosa di intimo da far circolare tra alcuni amici stretti, con cui si condivideva sensibilità e cammino di fede.
Tra questi amici, nello scorso autunno, sono finiti Teresa Forcades, teologa queer, e Sergio Massironi, del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, ed è con loro che è venuta fuori l’idea di dare un maggior diffusione a quelle meditazioni.
Quanto al motivo per cui ho pensato di scriverla prima e di pubblicarla poi, due anni dopo, forse la domanda giusta, più che perché, è per chi. E i per chi sono tre, a dirla tutta.
Quel testo è anzitutto una dichiarazione d’amore in pubblico, ad alta voce, a Gesù: proprio come mi capita nell’amore umano, sentivo il bisogno di dire a Lui, ad alta voce, davanti a tutti, «ti voglio bene». E l’ho fatto.
Allo stesso tempo, ho scritto quelle meditazioni pensando alle tante ragazze e ragazzi le cui confidenze mi è capitato di raccogliere, e che fanno fatica a vivere la propria omosessualità mettendosi sulla traiettoria dello sguardo di amore di Dio.
C’è una parabola di Gesù in cui c’è una grande cena e molti inviti, ma gli invitati esitano, tentennano, nicchiano. Allora il padrone di casa dà un ordine preciso: «Esci per le strade, e spingili a entrare» (Lc 14,23). Ecco, nelle pagine della Via crucis c’è questo desiderio: quello di raccogliere tutte le persone omosessuali che si sentono “sporche” davanti a Dio, e spingerle ad entrare, prenderle e metterle davanti allo sguardo di amore del Crocifisso: vedi, Lui ti ama così. Così: fino a questo punto; così: proprio come sei.
E poi forse c’è un ultimo destinatario: ed è chi omosessuale non è, ed anzi fa fatica ad accogliere. Perché si affacci sulla vita interiore di una persona omosessuale, ed anche sulla sua sofferenza, e si lasci interpellare.
Credi che, in qualche modo, le persone LGBTQ replichino la via crucis di Gesù?
Credo che nella vita di ogni persona, qualunque ne sia l’orientamento o ogni altra condizione di vita, ci sia qualcosa che riproduca la via crucis di Gesù, e la Sua Passione. Se Lui ha voluto toccare il fondo, è stato perché nella vita di ciascuno non ci fosse mai un solo momento, un solo dolore, una sola fatica, una sofferenza, una solitudine, una lotta, in cui si possa dire: «Ecco, Tu qui non ci sei». In ogni circostanza della nostra umanità – e in modo particolare nella sofferenza –, Lui c’è stato prima, ed ora è insieme a noi. In questo senso, sì: anche l’esperienza di fatica – e a volte di dolore – delle persone omosessuali riproduce la Sua Passione.
Cosa vuol dire essere cattolici & gay?
Non credo che – riducendo il discorso all’essenziale – essere cattolico e omosessuale sia diverso dall’essere cattolico e basta. E, secondo me, questo significa fondamentalmente due cose.
La prima – sul piano della vita interiore – è riconoscersi, con serenità, piccoli ma infinitamente amati. Mi accompagnano da sempre dei versi di David Maria Turoldo: «Non fuggo per nascondere / dietro gli alberi / la mia nudità: / orgoglioso d’essere / questo nulla / da te amato».
La seconda – su un piano più istituzionale – è sentirsi parte viva di un corpo, la Chiesa, che cresce insieme, e dunque, in questo senso, contribuire con la propria specificità, la propria esperienza, la propria sensibilità, le proprie intuizioni – in un dialogo franco, a volte anche violento, come in ogni famiglia – alla crescita e allo sviluppo di tutto il corpo, insieme.
Questo tuo libro è una sorta di doppio coming out: il tuo mondo (accademico ed ecclesiale) scopre che sei gay (e credente). Eri già dichiarato? Che impatto ha (avuto) questo volume sulla tua vita?
È vero che pubblicare questo libro ha significato, effettivamente, strappare una parte della mia vita interiore per esporla allo sguardo di tutti. Ma finora, per fortuna, ho ricevuto solo sguardi molto buoni, che spesso mi hanno commosso. La mia comunità di riferimento – personale, lavorativa, ed anche ecclesiale – sa, o comunque può sapere con facilità, che sono omosessuale, e che sono cattolico.
Forse, a questo giro, qualche sguardo di sospetto in più è venuto da parte della comunità LGBTQ, che resta un po’ guardinga rispetto a scelte di fede. Ma capisco che non mancano le ragioni “storiche” per questa diffidenza – o talvolta anche per un astio dichiarato –, e confido che, presto o tardi, potrà essere sanato tutto quanto ancora sanguina.
Quale consigli daresti ad un/una ragazzo/a gay credente per vivere appieno queste due parti imprescindibili della loro persona?
Mi pare che la maggior parte delle difficoltà delle persone omosessuali rispetto alla vita cristiana si situi sul piano del rapporto con la Chiesa, più che su quello della fede personale. Spesso, le difficoltà che si hanno sul piano istituzionale rischiano di essere sovradimensionate sul piano soggettivo, di diventare troppo ingombranti. E questo è un rovesciamento dell’ordine naturale delle cose: la Chiesa non è un assoluto; la Chiesa è solo strumento di salvezza; l’assoluto è Dio.
Naturalmente un consiglio che aspira ad essere buono richiede di essere costruito sul caso concreto e non è mai una regola generale, ma, con tutte le cautele del caso, ad un amico in difficoltà su questo fronte forse darei questo consiglio: di provare – almeno temporaneamente – ad aggirare gli ostacoli nella relazione con la Chiesa, a non occuparsene più, e ad investire invece di più sul rapporto diretto, personale, sincero con Dio – e, in particolare, con Gesù, che ci mostra il volto di misericordia del Padre.
Dopo un po’ di tempo che si sarà investito su questo rapporto personale, verrà forse anche più naturale tornare a sentirsi parte della Chiesa nel modo giusto, come sua parte viva, con cui si cresce insieme – e in cui ci si vuol bene anche se non ci si capisce su tutto –, magari anche grazie all’aiuto dei tanti gruppi di cristiani LGBT+ che esistono nel nostro Paese e che sono già un’esperienza di Chiesa.
Sappiamo che i gruppi di gay cristiani sono una risorsa non trascurabile per i credenti LGBTQ+. Ci sono anche parecchi ottimi sussidi e letture tra cui si aggiunge a pieno titolo il lavoro di Luigi Testa che ringraziamo per la sua disponibilità.
Speriamo che la lettura di questo agevole libretto sollevi ed aiuti chi, LGBTQ+ o meno, stia sperimentando la propria personale via crucis perché, come ha scritto Gianni Rodari, “dopo la pioggia viene il sereno/brilla in cielo l’arcobaleno”. È l’augurio che facciamo a tutti i nostri lettori.