Nelle favela brasiliane tra le persone LGBT che lottano per la vita
Articolo di Jefferson Puff pubblicato sul sito BBC Brasil (Brasile) il 17 novembre 2015, liberamente tradotto da Sara Zampieri
“Nelle favelas non ci si può dare un bacio, né prendersi per mano. Chi è gay, lesbica o transessuale nelle favelas non usufruisce dei progressi che la comunità LGBT sta sperimentando. (Nelle favela) non lottiamo per adottare un figlio. Stiamo ancora lottando per sopravvivere”.
È così che Gilmara Cunha, attivista transessuale residente nel Complesso (della favela) di Maré, nella zona Nord di Rio de Janeiro (Brasile), prende posizione sulla questione delle differenze tra l’essere LGBT “nelle strade” della zona Sud (della città) e nella favela.
“Là loro possono denunciare i preconcetti, le aggressioni, ed esistono perfino possibilità che i colpevoli vengano puniti. Qui non abbiamo modo di fare lo stesso. Siamo in una terra senza legge. La realtà è un’altra, i rischi sono altri”, dice la carioca di trentun anni, che l’8 dicembre prossimo sarà la prima transessuale a ricevere la Medaglia Tiradentes, che è il più alto riconoscimento della zona fluminense (zona Nord di Rio, ndt), concessa dall’Assemblea Amministrativa dello Stato di Rio de Janeiro per i servizi prestati alla comunità.
Proposta in assemblea dal deputato statale Fábio Serafini, la medaglia rappresenta un riconoscimento al lavoro di questa attivista. Dice il parlamentare “Gilmara dà voce alla popolazione LGBT delle favelas, che è tanto nascosta. E ottiene dalle differenti sfere del potere pubblico azioni e rispetto per questa popolazione”.
Nell’intervista alla BBC Brasile, Gilmara ha raccontato un po’ della sua storia personale, che si mischia con quella del suo attivismo e della maturazione della questione LGBT nelle favelas.
Nata nel Complesso Tedesco e cresciuta nel Maré (quartieri popolari di Rio, ndt) dall’età di tre anni, è stata chierichetta ed ha passato l’adolescenza in una confraternita della Chiesa Cattolica a Marilia, nella provincia di San Paolo, fino a che non ha rivelato la sua omosessualità e successivamente la sua trasnsessualità.
Creatrice, nel 2006, di “Connessione G” la prima ONG impegnata nella causa LGBT nelle favelas del Brasile. Gilmara ha raccolto sempre più visibilità, e oggi è consigliera nazionale della gioventù, oltre a participare negli organi statali e municipali ed essere frequentemente invitata a convegni pubblici e conferenze in diverse parti del paese e perfino negli Stati Uniti e in Argentina.
Nel Maré ha già organizzato sei gay pride che sono arrivati a riunire trentamila persone, mantiene un ritmo costante di attività e organizza azioni con nuovi gruppi che sorgono in diverse favelas di Rio, ed ha già ricevuto un premio dal Ministero della Salute per il suo lavoro.
Per lei, che si presenta come “povera, nera e abitante di una favela, con molto orgoglio”, le persone LGBT delle comunità più periferiche sono “ben lontani dall’essere inclusi” nelle politiche pubbliche o “dall’essere ricordati” quando si tratta di campagne e centri contro l’omofobia o di promozione alla salute. “I gay e le lesbiche delle favelas non sono una priorità. Le travestite e i transessuali ancora meno”, dice.
“La mia famiglia è sempre stata molto umile e ho un fratello e una sorella. Verso i tredici anni di età ho cominciato a percepire la mia omosessualità, il che mi ha portato verso il cammino della Chiesa Cattolica, perché pensavo che la questione fosse relazionata al peccato.
Sono nata in un ambiente machista, eteronormativo, e quando in me sono cominciati ad apparire alcuni gesti più femminili tutti mi dicevano sempre che dovevo essere “uomo”. La chiesa arrivò come una specie di tentativo di annichilire questo desiderio che sorgeva in qualche modo, ma che io non sapevo da dove veniva, né perché sorgesse.
Cominciai con l’essere chierichetta in una chiesa di Maré, per poi migrare verso quella di Assis, e lì sono rimasta fino ai ventun anni di età, quando abbandonai gli studi per essere prete e tornai nella favela. Due mesi dopo mi unii al progetto sull’uguaglianza di genere e pian piano cominciai a capire meglio chi fossi e cos’era l’omosessualità.
A poco a poco sorse in me l’idea di creare un gruppo all’interno della favela di Maré che lavorasse con la diminuzione dell’omofobia, perché sappiamo che questa non cesserà mai, ma si può diminuire a partire da campagne ed azioni che interferiscano nel quotidiano di questi individui.
Perciò nel 2008 nacque “Connessione G”, per opera mia e di altri cinque giovani omosessuali. Nello stesso anno diedi una conferenza negli Stati Uniti e mi offrirono delle risorse per finanziarmi un corso di psicologia qui a Rio. Ad oggi mi mancano due anni alla fine del corso. Ho interrotto per via della ONG.
“Connessione G” è stato molto presente come gruppo LGBT delle favelas del Brasile. Oggi ne stanno sorgendo altri, e sono contenta di sapere che la mia scelta di dare la priorità alla ONG si è rivelata quella giusta. È gratificante vedere i risultati e vedere che stiamo motivando altre persone.
All’inizio non avevamo la concezione del fatto di stare facendo politica. Subivamo pregiudizi e aggressioni quotidiane. Ci insultavano, ci tiravano cipolle, pietre. Abbiamo realizzato che bisognava fare qualcosa con risultati concreti e il più velocemente possibile, per donare una qualità di vita migliore a questa popolazione nei territori delle favelas.
Se la città era divisa e noi vivevamo nella favela, allora anche la favela era divisa e noi eravamo i gay della favela, ancora più vulnerabili. Eravamo poveri, abitanti di favelas e omosessuali. C’erano centri di congregazione nella comunità, per esempio, che non potevamo frequentare, perché eravamo bersaglio di scherzi e battute. All’inizio è stato molto difficile. È stato molto brutto.
Ci sono varie questioni in una favela, ed una di esse è il potere parallelo. È un potere machista, sessista, omofobo, transfobico. Ho dovuto prendere le redini della situazione molte volte perché il lavoro potesse avere credibilità e ci siamo uniti ad una ONG già esistente per avere rispetto.
Un altro fattore è rappresentato dalle chiese evangeliche. L’assenza dello Stato favorisce la proliferazione di chiese, che certamente contribuiscono all’omofobia e alla violenza contro le persone LGBT all’interno dei territori delle favelas.
Ma a poco a poco le cose sono cambiate, e abbiamo guadagnato l’approvazione delle famiglie. La nostra proposta era proprio quella di rompere i pregiudizi, quindi facevamo spettacoli e realizzavamo performance in mezzo alla strada, non in locali chiusi. Abbiamo cercato di decostruire il loro timore che tutti i bambini sarebbero diventati travestiti o omosessuali dopo essere entrati in contatto con noi.
Li abbiamo conquistati attraverso l’allegria. Anche se l’allegria era una cosa di facciata, perché noi non eravamo allegri. Eravamo lì e usavamo questa strategia per costruirci una rispettabilità all’interno di quel territorio. Se ha funzionato? Certo che sì, basta vedere che oggi riusciamo ad organizzare un gay pride dentro alla favela, con carri e trentamila persone. Ha molto più che funzionato, direi che è stata la ricetta perfetta.
Siamo partiti da una realtà in cui la frase che ci definiva era ‘lasciami esistere’, e oggi sento che stiamo superando questa tappa, nonostante una serie di sfide. Oggi il motto che ci definisce è ‘sono gay, sono lesbica, sono travestito/a ma sono uguale a te e voglio rispetto’. La nostra lotta si è espansa e abbiamo posto l’attenzione sull’assenza di politiche pubbliche per le persone LGBT delle favelas.
Negli organi governativi non esiste una mobilizzazione quando si parla di omofobia nelle favelas. Ora, se parliamo di Ipanema e Leblon (punti turistici di Rio, ndt), il discorso cambia, perché lì è come se ci fosse una vetrina. Nel caso dell’abitante delle favelas, ci sarà sempre lo stereotipo di persona emarginata o violenta che predomina, sia che essa etero o gay.
Il gay delle favelas è ancora molto dimenticato, sotto tutti gli aspetti. Anche le campagne e i gruppi contro l’omofobia dialogano molto con la classe media, ma poco con le favelas. Per entrare nel Centro di Riferimento contro l’Omofobia, nel centro di Rio, bisogna avere un certo di tipo di abbigliamento ed avere dei documenti. L’abitante delle favelas incontra più difficoltà nell’accedervi e a fare una denuncia, e non ci sono centri dentro la comunità dove vive.
Se ci sono stati dei progressi nella causa LGBT del paese? Certo che sì, ma noi non ne usufruiamo. Unione civile, matrimonio, adozione. All’interno della favela stiamo lottando per qualcosa di ancora più basico: la vita. Conservare la nostra vita. Tenersi per mano e baciarsi? Io direi che è ancora quasi impossibile nelle favelas. Può succedere, ma certamente ci saranno reazioni, che possono espressarsi in un’occhiata di traverso o in insulti. Io, per esempio, non prendo per mano mio marito in pubblico.
Ed è chiaro che per i travestiti ed i transessuali il pregiudizio è sempre maggiore di quello contro gay e lesbiche. Si può notare che stanno apparendo travestiti che sono rettori di università, ma è ancora solo per ribadire che siamo qui ed esistiamo. Non si tratta ancora di ampiezza di diritti, di maggior rispettabilità, di fatti.
Dato che fanno parte di un gruppo sociale molto vulnerabile, vengono commessi molti omicidi di transessuali in Brasile. In fondo, si sa che uccidere un travestito non comporterà nulla, anche perché esistono stereotipi negativi su di loro, sono visti come ladri o emarginati. In realtà, la società appoggia chi uccide un travestito. Si sta arrivando a una estinzione dei transessuali e alla società non importa niente.
Riguardo alla mia medaglia e al futuro? Questa medaglia rappresenta per me il fatto che non c’è più modo di ignorare le persone LGBT nel territorio delle favelas.
Mi sono sempre presentata come abitante di una favela. Dormo e mi sveglio con la favela nella bocca. Vivo in una favela, non in una comunità, perché comunità è un termine accademico. Chiamarla comunità non minimizzerà quello che io vivo qui, quindi io sono un’abitante della favela, sì. Povera, nera, e vivo in una favela, con molto orgoglio.
Il mio sogno è di creare un Centro di Riferimento contro l’Omofobia all’interno della favela del Maré, con tutti i tipi di attività, supporto psicologico, servizi e assistenza sanitaria, e con punti per la denuncia dell’omofobia. Anche con il sostegno di agenti di polizia, affinché possiamo costruire una rete. Ci sto lavorando.
Quanto al mio futuro? Sono sposata da quattro anni, e la mia famiglia, che è stata la prima a reprimermi, oggi mi accetta al punto che viviamo tutti insieme. All’inizio è stato difficile, ma oggi viviamo uno accanto all’altro, io, loro e mio marito, e costruiamo un ambiente sano per tutti noi”.
Testo originale: Gay da favela não usufrui de avanços. Ainda estamos lutando pela vida’, diz ativista transexual