Nemici e gay: eppure sposi
Articolo del 12 aprile 2013 di Michele Monni pubblicato su l’Espresso
Si chiamano Shlomo e Mohammed. Uno israeliano, l’altro palestinese. Omosessuali. Si conoscono in Rete. Si innamorano. E vivono la relazione più proibita di tutte, tra continue minacce di morte. Ma c’è il lieto fine
Lui si chiama Shlomo e lui si chiama Mohammed. Due mesi fa sono diventati marito e marito. Il problema sta nel fatto che uno è palestinese e l’altro è israeliano. Non solo. Uno è cresciuto a pane e sionismo, col nonno militante nel gruppo paramilitare ebraico “Haganah”, noto per la violenza delle azioni contro britannici prima e palestinesi poi, durante la creazione dello Stato ebraico; l’altro viene da Jenin, città nel nord della Cisgiordania, famosa per essere un bastione del conservatorismo islamico palestinese nonché una delle roccaforti di Hamas nei Territori.
«Ci siamo conosciuti un anno e mezzo fa su una gay-chat», dice un raggiante Mohammed, 26 anni, mentre stringe la mano di Shlomo, 29 anni, seduto sulla terrazza di un appartamento nel centro di Ramallah dove li abbiamo incontrati. «Sai come vanno queste cose, incominci a raccontare un po’ di te, che lavoro fai, cosa ti piace… shuai shuai (piano piano, ndr)». Naturalmente all’inizio, confidano i due, la diffidenza era reciproca, ma a poco a poco, liberatisi dal tarlo della propaganda, hanno incominciato a esprimere le proprie emozioni.
Haram! (Proibito!) Direbbe qualcuno a Ramallah. Havar! Ribadirebbe qualcun altro a Tel Aviv. In questo angolo di mondo, una storia come quella di Shlomo e Mohammed è ancora considerata blasfema. Non solo perché si tratta di due uomini ma perché l’uno per l’altro, nella propaganda dei rispettivi campi, sono il «nemico». E se, in mezzo alle rivendicazioni di fanatici da entrambi i fronti, qualcuno sceglie l’incontro, o meglio, un incontro in mezzo a uno scontro desta dei sospetti che sfociano nella riprovazione e addirittura nella violenza. Come dimostra questa storia che i protagonisti hanno deciso di raccontare per la prima volta.
«Non dimenticherò mai il giorno in cui finalmente ci siamo incontrati, il nostro primo appuntamento fu un totale disastro», attacca Mohammed. «Non essere così tragico», cerca di minimizzare Shlomo: «Poteva andare peggio». Dopo quasi un anno di video-chat i due decidono di vedersi. Essendo residente in Cisgiordania, Mohammed non può recarsi in Israele e nemmeno a Gerusalemme (i Territori sono sotto occupazione dal 1967, quasi 46 anni). Per farlo, deve richiedere il nulla osta al ministero dell’Interno israeliano e dimostrare, nel suo caso grazie alla complicità di un medico palestinese, di aver bisogno di una visita medica specialistica impossibile da ottenere nei Territori.
Avuto il permesso, Mohammed e Shlomo si incontrano al di là del check-point di Kalandia, principale punto di transito tra Gerusalemme e la Cisgiordania. Racconta Shlomo: «Appena ci siamo visti ci siamo abbracciati e abbiamo pianto senza dire una parola. La situazione era veramente surreale. Tutto intorno a noi un viavai di macchine strombazzanti e a poca distanza i soldati dell’esercito israeliano che ci osservavano annoiati».
E poi via: una corsa in macchina con lo stereo a palla verso Gerusalemme, dove Mohammed non andava da più di dieci anni a causa delle restrizioni imposte da Israele ai cittadini palestinesi dopo la seconda Intifada.
Ma l’eccitazione e la gioia del primo incontro durano poco. Mentre Shlomo e Mohammed passeggiano come qualsiasi altra coppia per i vicoli della Città Vecchia, vengono notati da un gruppo di poliziotti israeliani vicino alla Porta di Jaffa, uno degli ingressi principali. I poliziotti li fermano e li tempestano di domande. Shlomo è israeliano e cerca di far leva su questo per convincere gli agenti che non c’è da preoccuparsi, sono solo due amici che si fanno una passeggiata. Gli agenti richiedono a Mohammed di fornire le proprie generalità e lui mostra il documento di identificazione “verde” (quello rilasciato da Israele ai cittadini palestinesi dei Territori) e il nulla osta del ministero che gli permette di entrare in Israele.
La polizia contesta a Mohammed che il permesso è valido solo per il tragitto dai Territori all’ospedale e non lo autorizza a muoversi liberamente a Gerusalemme. In pochi minuti i due si ritrovano ammanettati e scortati alla stazione di polizia situata all’ingresso di via Saladino.