Neuroteologia. Siamo programmati per credere?
Riflessioni di Sarah Cestau pubblicate sul sito del settimanale cattolico La Vie (Francia) il 13 agosto 2013, liberamente tradotte da Domenico Afiero
La scienza cerca di trovare la traccia della fede nel cervello umano. Ma il religioso non si lascia schiacciare facilmente come vedremo in questa inchiesta. Abbiamo un interruttore “divino” in testa? Una parte del cervello, una disposizione particolare dei neuroni che permetterebbe di identificarci come credenti o meno? Gli studiosi, soprattutto negli USA dagli anni ’80 in poi, lavorano su questa ipotesi. Ecco la ragione della nascita di un campo originale di ricerca: la neuroteologia.
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Il gene di Dio
Dean Hamer, un genetista americano, nel 2005 , sostiene di aver trovato il “gene di Dio”, il quale determina il nostro potenziale genetico a credere o meno. Mille volontari , per dar prova dell’esistenza del gene, rispondono a un questionario sulle loro affinità religiose. Questo studio, però, non è stato mai pubblicato su, una rivista scientifica. La sfida dei ricercatori in neuroteologia, senza voler strafare, è riuscire a identificare, se non un punto ben preciso, almeno una regione del cervello che abbia un’ attività specifica durante l’ “esperienza” religiosa.
Infatti, nel 1999 gli americani Andrew Newberg e Eugene d’Aquili, neurologo e psichiatra rispettivamente, setacciano i cervelli di monaci buddisti in meditazione con la risonanza magnetica nucleare. Nel 2006, lo scienziato quebecchese Mario Beauregard ripete la risonanza magnetica su 15 carmelitane raccolte in preghiera. I risultati dimostrano semplicemente che il cervello, nel suo insieme, è attivo , anche se certe aree sono sollecitate più delle altre in quei momenti di grazia.
Uno stato mentale alterato
Gli specialisti in neuroscienze, dunque, sono capaci di vedere grazie alla risonanza l’attività cerebrale in un dato momento di comunione: la meditazione , la preghiera etc. Ma il credente, poi, quando non prega o medita per esempio, ha un’attività cerebrale identica a quella del non credente?Credere o aver fede sono visibili soltanto in quei momenti di condivisione intensa col divino?
Pierre-Henri Castel, psicanalista e direttore del CNRS (Centro Nazionale di Ricerca Scientifica francese), spiega :«Le neuroscienze sociali tendono a dedurre i comportamenti individuali dalle proprietà sociali». E’ un approccio che spinge a «ridurre la fede ad uno stato mentale alterato» ed esclude la dimensione sociale della religione.
Inoltre, le pratiche religiose sono diverse , a seconda della fede che si professa:cattolicesimo, buddismo,ebraismo o cattolicesimo. Le pratiche religiose non possono essere etichettate tutte insieme con la parola “religione”. La ricerca scientifica del sacro nel cervello umano «manda a pezzi le distinzioni fondamentali del posto che le religioni hanno nelle società».
Pierre-Henri Castel sostiene che questi studi «osservano il fenomeno religioso riducendolo ad un momento di fede, senza tener conto della Storia e del suo senso concreto nella vita delle persone».
Lo studio neurologico della religione non prende in considerazione, per definizione, l’ambiente in cui vive il credente. Come isolare, quindi, questo dato nel cervello?L’ambiente è un dato essenziale per spiegare le diverse sensibilità: due gemelli,quasi geneticamente identici, non reagiscono allo stesso modo alle sollecitazioni religiose. In queste situazioni, trovare il famoso interruttore divino diventa un vero grattacapo per gli studiosi.
Il concetto di exaptation
L’americano Scott Atran e il francese Pascal Boyer , antropologo il primo e antropologo e psicanalista il secondo,prendono le distanze dagli studi con la risonanza magnetica nucleare e analizzano la religione in una prospettiva evoluzionistica. Per entrambi gli studiosi, la rappresentazione di Dio sarebbe il frutto di una parte della corteccia cerebrale. L’uomo si evolve e sviluppa certe capacità piuttosto che altre per sopravvivere.
Una capacità , adottata per un uso concreto,può tuttavia avere un’utilità diversa da quella per cui è stata selezionata. Le piume degli uccelli, per esempio,utili per proteggersi dal freddo, sono state adottate per volare più tardi. Questo è il concetto di exaptation.Ritornando alla religione , quindi, il nostro cervello produrrebbe delle immagini di nemici immaginari perché potessimo vigilare i potenziali pericoli. Ma queste immagini spingerebbero l’uomo a credere in potenze sovrannaturali protettrici.
Una traccia del creatore
La spiegazione, anche qui, rimane solo molto scientifica. E per certi, una spiegazione un po’ fredda. Perfino riduttrice. Secondo Jean Duchense, membro dell’osservatorio Fede e Cultura della Conferenza dei vescovi di Francia,«non dobbiamo fermarci alla sola lettura razionale del fenomeno religioso». Anzi:«anche se i ricercatori dimostrassero che un’area del cervello umano fosse identificata, senza ombra di dubbio, come quella del “divino”, «la cosa non avrebbe valore per il credente». Secondo la Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II, «Dio, che crea e dona la vita ad ogni cosa attraverso il Verbo, dà all’uomo e alle cose create una testimonianza di Lui».
Jean Duchense precisa che anche i testi della Rivelazione ci indicano che «Dio si manifesta agli uomini grazie agli strumenti di quest’ultimi».Quello che gli studiosi cercano di isolare come la prova del concetto di Dio attraverso il cervello sarebbe la manifestazione di un legame con Dio.
In un certo modo, gli studiosi proverebbero bene il legame tra Dio e i credenti, ma non l’esistenza di Dio. Jean Duchense riassume così:«La creatura porta in sé la traccia del creatore». Dunque,gli studiosi possono continuare a setacciare il cervello umano per far progredire la scienza. Il resto è tutta un’altra storia.
Testo originale: Neurothéologie. Sommes-nous programmés pour croire ?