Noi cristiani siamo tutti figli di un arameo (siriano) errante
Riflessioni del teologo spagnolo Xabier Pikaza* pubblicate sul suo blog (Spagna) il 1 settembre 2015, liberamente tradotte da Marco Galvagno
Questa è una delle credenze più importanti della bibbia: ogni ebreo, ogni cristiano si presenta davanti a Dio come figlio di Giacobbe e gli dice: “Mio padre era un arameo errante in Egitto e risiedette lì con pochi uomini, però gli egiziani ci maltrattarono e umiliarono. Abbiamo gridato a Jahvé, al dio dei nostri padri, e Jahvé ha ascoltato la nostra voce, ha visto la vostra miseria e ci ha fatti uscire dall’Egitto con mano forte e braccio disteso e ci ha condotti in questo luogo”(Deuteronomio 265-10, Giuseppe 24-7, Salmi 136, 78).
Non sono un fan dell’interpretazione letterale della Bibbia, dato che bisogna sempre tener conto dei simbolismi, dei generi letterari e delle circostanze, però questo è uno dei testi che risuonano oggi come tremila anni fa, sembra scritto stamattina.
I giudei o ebrei professavano con queste parole la loro fede in Dio e affermavano di essere figli di immigrati aramei (siriani) della stessa zona dalla quale attualmente stanno emigrando centinaia di migliaia e milioni di aramei, cioè di siriani e iracheni del nord, la cui lingua e cultura originaria è stata per millenni e continua ad essere l’aramaico; molti di loro sono attualmente cristiani, altri musulmani.
Da una emigrazione aramaica come quella proveniamo tutti noi ebrei e cristiani, almeno in senso culturale e religioso. Tutti siamo figli di immigrati in cerca di una terra promessa, tutti stiamo facendo quel percorso dell’antico ebreo che si riconosceva figlio di un migrante siriano cioè aramaico delle terre del Nord della Siria e dell’Iraq, dominate attualmente dall’Isis e divenute luoghi di guerra e di morte. Da questo fondamento dobbiamo riconoscere e valorizzare al meno come credenti la nuova immigrazione che bussa alle nostre porte in condizioni simili a quelle di Giacobbe e Abramo, in un contesto che continua ad essere simili a quello degli antichi imperi ( assiro, babilonese, persiano, greco).
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Una po di storia. La Bibbia, un libro di migranti
Abramo un migrante. Le tre tradizioni monoteiste (ebrea, musulmana e cristiana) ci presentano Abramo, padre della fede come un emigrato che uscì dalla propria terra: Ur dei Caldei ubbidendo alla parola di Dio, però seguendo anche la rotta di tutti i nomadi che cercavano una terra stabile.
“Parti dal tuo paese, dalla casa di tuo padre e va nella terra che io ti mostrerò. Farò di te un popolo grande, ti benedirò, renderò grande il tuo nome e tu sarai benedizione. Benedirò quelli che ti benediranno e maledirò quelli che ti malediranno in te saranno benedette tutte le famiglie della terra”.
Abramo, migrante e esiliato, appare come un principio di benedizione per tutte le famiglie della terra.
I dieci comandamenti. Un decalogo per migranti. “Io sono Jahvé, il tuo Dio che ti ha fatto uscire dall’Egitto per condurti a una terra di libertà” (Esodo 20-2, Deuteronomio 5-6, Re 12-28, Geremia 2-6). Queste parole di introduzione al decalogo costituiscono l’espressione più chiara dell’identità israelita come un popolo di migranti, che Dio aiuta. In questo i comandamenti ci appaiono come una guida di vita per i migranti, cioè per tutti quelli che devono lasciare la propria terra, le proprie sicurezze vecchie per creare un nuovo ordine sociale in un’altra terra, in una terra nuova, tra questi comandamenti c’è quello di onorare i propri genitori (da immigrati proveniamo), di non uccidere e di non rubare.
Mosé guida di un popolo di migranti. Mosé nasce in Egitto, in una terra dove la sua famiglia è dovuta emigrare per mangiare. In una terra in cui gli ebrei si sentivano perseguitati. Ha una grande esperienza di Dio che appare come un protettore di migranti e ha il compito di creare un popolo nuovo a partire dai migranti che devono cercare la propria terra promessa in mezzo a grandi difficoltà. Così ascolta sulla montagna “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo. Ho ben veduto l’afflizione del mio popolo che è in Egitto e ho ascoltato i loro lamenti a causa dei suoi oppressori: ben conosco i suoi affanni. Sono sceso per liberarlo dalle mani degli egiziani, per farlo salire da quella terra verso una terra buona e spaziosa, una terra stillante latte e miele, nel luogo del cananeo, dell’eteo…” (Ex 3, 7-8).
Leggi sopra i migranti nella Bibbia. Una delle prime leggi della Bibbia sono quelle che sono state promulgate per proteggere tre “collettività”, cioè tre tipi di persone oppresse: i migranti non si possono prendere da soli, ma bisogna relazionarli a altri gruppi di oppressi. Al tempo della bibbia ebraica si uniscono gli stranieri alle vedove e agli orfani.
Le vedove (donne senza famiglia, né protezione sociale) sono anche oggi una parte importante dei rifiutati dal sistema che continuano ad essere segnati dalla violenza di genere e dalla manipolazione sessuale. Ci sono nel mondo milioni di donne vittime del commercio sessuale, non c’è bisogno di rinchiuderle in vere e proprie carceri, perché la loro vita è già un carcere.
Gli orfani (bambini e giovani senza un nucleo famigliare) sono candidati allo sfruttamento e alla delinquenza specialmente nei paesi in cui v’è una forte decomposizione delle strutture famigliari e sociali.
Finalmente gli stranieri o i migranti, membri di altre “razze”, continuano a vivere in situazioni di violenza permanente, quasi la metà dei detenuti di alcuni paesi europei sono stranieri, negli Stati Uniti la maggioranza dei prigionieri sono persone di colore.
Dodecalogo (=Dodici leggi) di Siquem (Deuteronomio 27 15-26). Sembra il codice più antico della tradizione ebraica e comincia invocando la maledizione su quelli che fabbricano idoli, perché distruggono l’identità di Dio. In quinto luogo dice “Maledetto chi conculca il diritto dello straniero, dell’orfano e della vedova e tutto il popolo dica Amen” (Dt 27, 19).
Questa maledizione suppone che coloro che si avvicinano a Dio e vogliono stabilire un patto con lui debbano impegnarsi a rispettare i diritti di orfani, vedove e forestieri, cioè di quelli i cui diritti potrebbero essere più facilmente violati, dato che non hanno un goel, cioè un famigliare potente in grado di difenderli.
Gli stranieri, gli orfani e le vedove vengono presentati come famigliari di Dio, cioè come suoi protetti in modo che tutta la famiglia israelita riunita nel suo nome debba impegnarsi a difenderli.
Il Codice dell’Alleanza (Esodo 20, 22-23-19) Forma parte di un testo legale molto antico che include diverse norme di tipo sociale, criminale, economico e liturgico. Tra le sue norme incontriamo queste “Non maltrattare e non opprimere il forestiero, perché anche voi siete stati forestieri in Egitto. Non affliggete nessuna vedova e nessun orfano. Se tu lo affliggi egli griderà a me e io ascolterò il suo grido” (Esodo 22, 20-21)
La legge che esige l’aiuto allo straniero trova così sostegno nel ricordo più sacro della storia degli israeliti, dato che furono stranieri in Egitto. Il parallelismo letterario che questo passaggio ha tracciato tra i due articoli di questa legge ci fa supporre che gli stranieri, non gli israeliti, vengano associati agli orfani e alle vedove d’Israele (o di altri popoli), cioè con quelli che sono privi di protezione legale e sociale. Tutti loro possono gridare, come in precedenza hanno gridato gli israeliti venendo ascoltati dal Signore delle Altezze (cf. Esodo 2, 23-24).
Deuteronomio 1: Solidarietà nella festa. Il corpo centrale del Deuteronomio (Dt 12-26) raccoglie e sistematizza fino al settimo secolo avanti Cristo le leggi più antiche integrandole in un contesto più solenne di legalizzazione sulle feste.
“Celebrerai la festa dei tabernacoli davanti a Jahvé, tuo Dio, tu e i tuoi figli, il tuo schiavo e la tua schiava e il levita che abita nella tua città, e lo straniero, l’orfano e la vedova che viva tra i tuoi nel luogo che Jahve tuo Dio scelga perché rimanga il suo nome. Ricorda che anche tu sei stato schiavo in Egitto” (Dt 16,11-12).
Si allude qui alla festa di rendimento di grazie, che gli israeliti più fortunati celebrano dopo il raccolto in autunno per ringraziare il Signore per l’abbondanza della vita. In questa festa il padrone di casa deve aprire il proprio spazio famigliare, offrendo un luogo di fraternità religiosa e comunicazione sociale non solo ai famigliari, ma anche ai migranti che vivono lì. Dove i poveri e gli stranieri non vengono invitati alla festa della vita non si può parlare di legge di Dio. Come anche su un altro piano, però con lo stesso spirito.
Deuteronomio 2: Solidarietà alimentare. Per che possa essere celebrata la festa condivisa è necessario un gesto di solidarietà economica. “Non violerete il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderete in pegno la veste della vedova…
Quando nel tuo campo sarai a mietere la messe e avrai dimenticato un manipolo nel campo, non tornare indietro a prenderlo, ma sia per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricorda che sei stato schiavo in Egitto..” (Deuteronomio 24, 17-22)
Di fronte alla brama di coloro che vogliono possedere tutto il testo richiama il diritto dei poveri che urlano a Jahvé e vengono ascoltati. Di pane vino e olio vive l’uomo per questo è necessario che coloro che possiedono questi beni li condividano con i poveri, che non hanno terre, esprimendo così la generosità di Dio che li offre a tutti.
Deuteronomio 3: Ampliamento spirituale: Amore verso gli stranieri. In questo contesto riprendendo un tema che appare sotto un’altra forma nel Levitico 19 che dice “ amerai il prossimo”, cioè l’israelita il nostro testo esige che amiamo gli stranieri “ Poiché il Signore Dio vostro è grande, forte e tremendo e non ha riguardi personali e non accetta presenti, fa giustizia all’orfano e alla vedova. Ama il forestiero per dargli il cibo e i vestiti. Amate dunque il forestiero, perché anche voi siete stati forestieri in Egitto. (Dt 10, 17-19)
Il testo afferma che Dio ama gli stranieri, cioè uomini e donne che non fanno parte del popolo eletto e che non hanno una patria o un luogo dove sentirsi protetti. Logicamente anche gli israeliti dovranno amare gli stranieri.
Questa esigenza di amare, cioè di accogliere nello spazio della vita famigliare del clan e del gruppo religioso, gli stranieri, gli orfani e le vedove costituisce uno degli apici della tradizione ebraica e dell’intera umanità.
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* Xabier Pikaza Ibarrondo (12 giugno del 1941) è un teologo cattolico vicino alla Teologia della liberazione, nativo dei Paesi Baschi (Spahmo), ex religioso dell’Ordine della Mercede e sacerdote della Chiesa cattolica. A 31 anni è stato nominato professore alla Pontificia Università di Salamanca sino a 2003, quando si ritirò a vita privata e dopo aver dato le dimissioni dalla vita religiosa per gravi contrasti con alcuni esponenti conservatori della Chiesa cattolica. Attualmente tiene conferenze e continua a scrivere libri di Teologia, Etica e storia religiosa e gestisce un blog di riflessioni religiose su http://blogs.periodistadigital.com/xpikaza.php
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Quante volte vediamo la catastrofe umanitaria che sta avvenendo alle porte dell’Europa, il dramma dei rifugiati e l’ostinazione di quanti si proclamano cristiani e negano loro asilo. Eecco perché vi invitiamo a leggere questo articolo del teologo Xabier Pikaza.
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Testo originale: Un arameo errante/emigrante fue mi padre