Noi gay nei campi di concentramento come triangoli rosa: “dannati fra i dannati”
Articolo di Marco Procopio pubblicato su Il Fatto Quotidiano.it il 27 gemmaio 2019
Torna in libreria “Gli uomini con il triangolo rosa“, il libro dello studente universitario, amante di un kapò, Heinz Heger che nel 1972 per la prima volta riferì delle deportazioni dei gay nei campi di concentramento. Ma all’epoca della pubblicazione era ancora un tabù: il reato in Germania fu depenalizzato solo nel 1994.
I rossi erano i prigionieri politici, i gialli erano gli ebrei, il verde era destinato ai criminali comuni. E poi c’erano loro, i “finocchi”, i “froci”, i “degenerati”, contraddistinti da un triangolo rosa affisso sul petto. Un lembo di stoffa “più grande degli altri di circa due o tre centimetri”, perché così gli omosessuali “erano riconoscibili anche da lontano”.
Heinz Heger, studente universitario poco più che ventenne, era uno di questi. E per la sua relazione con il figlio di un gerarca nazista venne spedito in un lager nel 1940. Non ne uscì fino al 1945, dopo anni di torture e violenze, lavori forzati, rapporti amorosi instaurati con un solo obiettivo, quello di sopravvivere. La sua storia è raccontata in un libro, Gli uomini con il triangolo rosa, uscito per la prima volta in lingua tedesca nel 1972.
“Si tratta della prima testimonianza in assoluto di un deportato gay nei campi di concentramento”, spiega Giovanni Dall’Orto, storico e curatore della nuova edizione italiana, pubblicata quest’anno da Edizioni Sonda. “All’epoca il romanzo fu accolto da un successo mondiale, perché la persecuzione degli omosessuali era del tutto ignota. È solo grazie a Heger se altri deportati iniziarono a raccontare le proprie storie. Per questo, rappresenta una pietra miliare del nostro tempo”.
Gli uomini con il triangolo rosa
Heger arrivò nel campo di concentramento di Sachsenhausen con un vagone bestiame nel gennaio del 1940. Qui chi aveva il triangolo rosa doveva rispettare delle regole diverse dagli altri. “Potevamo dormire solo in camicia da notte e con le mani fuori dalle coperte”, racconta Heger. “Un omosessuale non poteva ricoprire un ruolo nel campo, né scambiare una parola con i detenuti degli altri blocchi: questo per evitare che potessimo traviarli”. Un trattamento che si traduceva spesso in punizioni corporali, assegnazione ai lavori più usuranti, esecuzioni sommarie. “Secondo le stime, i gay internati nei campi di sterminio nazisti sono stati circa 30mila”, chiarisce Dall’Orto. “Un numero che non è comparabile a quello degli ebrei, contro i quali il regime agì per sterminarli fisicamente. Ma si tratta comunque di una persecuzione che aveva l’obiettivo di tenere sotto controllo l’omosessualità, sfruttando la detenzione come deterrente”.
Come testimonia lo stesso Heger, avere il triangolo rosa voleva dire far parte dei “dannati fra i dannati”, cioè coloro che stanno al gradino più basso della gerarchia interna al lager. “Il loro destino in quel periodo era un terno al lotto, dipendeva dalle convinzioni di chi si trovavano davanti”, continua Dall’Orto. “Questo perché il nazismo non stabilì mai in modo ufficiale cosa fosse l’omosessualità. Le idee predominanti erano tre: una degenerazione di tipo fisico, una malattia mentale o un vizio morale”.
In quest’ultimo caso si interveniva, proprio come successe a Heger quando da Sachsenhausen fu trasferito dopo pochi mesi nel lager di Flossenbürg, vicino al confine cecoslovacco. “Su ordine del comandante supremo delle Ss Heinrich Himmler, nell’estate del 1943 venne aperto un bordello per detenuti”, si legge nel libro. “Noi omosessuali eravamo obbligati a frequentarlo regolarmente per ‘guarire’ dal nostro orientamento”.
Tentativi di rieducazione come questi o veri e propri esperimenti medici, spiega Dall’Orto, non erano rari. “Alla base c’era sempre il programma di eugenetica del Reich: gli individui degenerati non dovevano contaminare la razza con una prole a sua volta difettosa”. Un’alternativa poteva essere quella della castrazione, offerta anche allo stesso Heger in cambio della promessa di essere rilasciato. Ma l’austriaco non accettò, consapevole che la sua “posizione” nel lager – prima amante di un kapò, e poi kapò a sua volta – avrebbe potuto comunque garantirgli la salvezza.
Chi era Heinz Heger
“Sulla figura di Heger è necessaria una precisazione: in realtà si tratta di uno pseudonimo”, spiega Dall’Orto. Dietro al suo nome si celano due persone: Josef Kohout, il vero protagonista, e Hans Neumann, un amico giornalista che ha materialmente scritto il libro basandosi su 15 interviste raccolte fra il 1965 e il 1967.
“Non è un dettaglio da trascurare. Gli uomini con il triangolo rosa non è un documento storiografico, è un romanzo scritto da un narratore terzo che certamente ha influenzato alcuni aspetti del racconto”. Fra questi, il sadismo a tratti erotico dei nazisti descritto in diverse scene. “Si tratta di suggestioni che derivano dal clima degli anni Sessanta, quando fu scritto il libro. Era il periodo del film Salon Kitty, di Salò di Pasolini. Il nazista veniva spesso dipinto come un degenerato sessuale, un aguzzino che si masturba mentre fa bastonare le vittime”, commenta Dall’Orto. “Una dimensione che non ha riscontro nelle ricerche storiche”.
Ma ciò non significa che la testimonianza di Heger abbia meno valore. “A parte questi dettagli, non ci sono finzioni nel racconto. È stato tutto verificato dal lavoro degli storici. Heger è riuscito a far parlare della persecuzione degli omosessuali quando ancora era un tabù”.
E non è un caso che abbia scelto di celarsi dietro a uno pseudonimo. “All’epoca della pubblicazione del libro, essere gay era ancora un reato in Germania, mentre in Austria era stato depenalizzato da poco”, aggiunge. Il famoso paragrafo 175 del codice penale tedesco sull’omosessualità, infatti, fu abolito completamente solo nel 1994, dopo la riunificazione. “Il nazismo di fatto ha inasprito una norma pre-esistente, in maniera simile a quanto avvenuto in Italia durante il regime di Mussolini”.
Nazismo e fascismo a confronto
Per la nuova edizione italiana de Gli uomini con il triangolo rosa, Giovanni Dall’Orto ha scritto anche un saggio sulle differenze fra nazismo e fascismo riguardo alla persecuzione dell’omosessualità. “Germania e Italia offrono due esempi analoghi di resilienza della tradizione culturale”, spiega lo storico. “Come il nazismo non ha fatto altro che inasprire una norma che già c’era, così il fascismo ha perpetuato quella tendenza pre-esistente a non punire direttamente l’omosessualità”.
Un compito che, secondo Dall’Orto, era ed è tuttora relegato alla Chiesa cattolica. “Introdurre delle leggi anti-gay avrebbe causato scandali su scandali e tutti ne avrebbero discusso. In Italia vigeva quindi una sorta di patto sociale fra Stato e mondo omosessuale, una tolleranza repressiva che, con l’avvento del fascismo, si è mantenuta”.
Uno dei metodi utilizzati era quello del confino, anch’esso già presente nell’ordinamento. “Le stime parlano di diverse migliaia di omosessuali colpiti, a cui vanno aggiunti i 93 condannati al confino politico”, continua lo storico. “Le persone venivano rimosse chirurgicamente se la polizia riteneva che turbassero in qualche modo la serenità del paese”.
Questo tipo di approccio spiega, secondo Dall’Orto, anche perché in Italia la comunità gay si è formata molto tardi. “I movimenti di liberazione omosessuale sono nati laddove c’erano delle leggi repressive. Da noi per molto tempo non c’è stata alcuna coscienza politica su questo tema”, conclude.
Da qui la necessità di parlarne e di leggere ancora oggi il racconto di Heinz Heger. “È importante che le generazioni più giovani sappiano di avere una storia e di come si è arrivati ai nostri giorni. E forse una testimonianza del genere, che lascia una memoria nelle persone che lo leggono, è il modo migliore per farlo”.