Noi “siamo” un corpo. Il cammino di suor Derouen con le persone trans
Reportage di David Van Biema* pubblicato sul sito di Outreach (USA) il 19 agosto 2024 e liberamente tradotto da Luigi, Valeria e Ilaria de La Tenda di Gionata, terza parte
Derouen è cresciuta a Welsh, in Louisiana, una tipica cittadina del sud degli Stati Uniti, a est di Lake Charles. Suo padre era un coltivatore di riso e sua madre una casalinga. «Ho avuto un’adolescenza davvero speciale», dice. Era «la ragazza più bella e più famosa. Tutte le mamme della città volevano che i loro figli sposassero me, o qualcuna come me». Era la reginetta del ballo del liceo. L’articolo di Schneider racconta che, una volta, una donna cieca che si trovava su un autobus disse di riuscire a capire quanto Derouen fosse bella semplicemente da come il conducente le si rivolgeva.
Tuttavia, c’era un altro aspetto della sua vita. La madre di Derouen andava a messa ogni domenica, mentre suo padre non andava in chiesa. Eppure, fin dai primi anni dell’adolescenza, lei andava a messa ogni giorno. Leggeva avidamente libri della biblioteca parrocchiale sulle vite dei santi e su come pregare. E faceva volontariato come dattilografa per le Missionarie Eucaristiche di San Domenico, una congregazione religiosa con sede a New Orleans.
Le Missionarie Eucaristiche erano un esempio dello spirito estroverso che alcune congregazioni religiose femminili avevano assunto anche prima del Concilio Vaticano II. Di solito, il termine “eucaristico” nel nome di una comunità significava che la sua funzione principale era l’adorazione del Santissimo Sacramento. Ma fin dall’inizio, le Missionarie hanno inteso il termine in senso più ampio: come obbligo di essere Cristo per gli altri, donandosi per la vita del mondo.
Lo statuto della congregazione richiedeva di emulare i servi nella parabola di Gesù della cena nuziale, ai quali il re ordinò di «andare per le strade e lungo le siepi» e di «far entrare i poveri, gli storpi e i ciechi», tra gli altri, alla sua grande festa. La comunità religiosa era impegnata nel catechismo per i bambini e nella formazione per gli adulti nelle parrocchie di campagna. Le suore si prendevano cura anche del benessere fisico e sociale delle comunità che avevano adottato, partecipando a partite e funerali e discutendo di economia domestica intorno ai tavoli di cucina, nelle case dei parrocchiani.
Derouen era attratta da loro. Desiderava avvicinarsi di più a Dio. Si sentiva una “amante delle persone,” come i testi vocazionali delle Missionarie descrivevano le suore della congregazione. Un giorno, una suora la prese da parte e le disse: «Hai tutto ciò che una ragazza potrebbe desiderare. Hai mai pensato di mostrare la tua gratitudine a Dio e restituirgli tutto?». Ci fece caso in quel momento. Ricorda di aver pensato: «Non voglio svegliarmi ormai anziana e rendermi conto di stare vivendo una vita a metà. Ho sempre desiderato vivere una vita piena e ricca». Nel 1961, subito dopo il liceo, tra la costernazione dei familiari (una zia le comprò una stola di pelliccia nel tentativo di dissuaderla), entrò in noviziato.
Nel 1964, quando professò i suoi primi voti, il Concilio Vaticano II era già iniziato e Derouen lo accolse con entusiasmo: «Ho ancora la mia copia originale dei documenti, con le mie sottolineature». Le Missionarie Eucaristiche svilupparono una particolare sensibilità verso la giustizia sociale che a volte le metteva in contrasto con il clero locale più tradizionale. Derouen e Dot Trosclair, una buona amica della comunità, parlano entrambe di un momento difficile a Welsh nel 1967. Le suore nel paese prestavano il loro servizio presso congregazioni separate per neri e bianchi, ma volevano fare il catechismo a tutti i bambini insieme. Quando il sacerdote bianco lo proibì, presentarono la questione al vescovo locale e la spuntarono. «Quando venivamo cacciate da un posto, andavamo in un altro», dice Trosclair.
Nei suoi primi trent’anni, Derouen operò in diverse attività pastorali. Svolse attività pastorali nelle parrocchie in Louisiana e in Colorado, gestì programmi di formazione religiosa, organizzò gruppi giovanili e guidò cori (ha una voce bellissima). Divenne responsabile delle vocazioni della sua comunità religiosa. Dopo essersi laureata in studi religiosi e poi in liturgia, fu consulente liturgica in Colorado, Arizona e in Australia. Scoprì anche di avere talento nella predicazione, e veniva frequentemente invitata a farlo, anche se la Chiesa limita la possibilità di fare omelie a sacerdoti e diaconi. «Sarebbe bastata una sola persona a lamentarsi, e avrei smesso», dice. Nessuno si lamentò.
Tuttavia, a partire dalla fine degli anni Ottanta, sentì una chiamata verso un’altra attività pastorale. Le ci volle un decennio per chiarirsi le idee, e in questi dieci anni trascorse un anno in preghiera con una comunità di suore benedettine monastiche in Alabama, coordinò la casa madre della sua comunità religiosa e svolse un altro mandato come responsabile delle vocazioni, cosa che l’aiutò molto a riflettere. Provò profonda frustrazione a causa del divieto della Santa Sede riguardante l’ordinazione di coloro che hanno «tendenze omosessuali profonde». Derouen aveva familiari e conoscenti omosessuali.
«Miei cari amici!» scrisse in quel periodo. «Miei meravigliosi e straordinari amici cattolici gay! È orribile che la Chiesa si privi di tanta bontà, di tanta santità!». Decise che la sua nuova vocazione era per una pastorale di accoglienza per persone gay e lesbiche. I suoi superiori le concessero il permesso di andare avanti, a condizione che rimanesse “nell’ombra”.
Così, nella primavera del 1999, stava partecipando a un incontro della sezione di New Orleans di PFLAG (una associazione di genitori e amici di lesbiche e gay) quando entrò una donna e la stanza esplose in applausi. Qualcuno le spiegò che si trattava di Courtney Sharp, una delle leader nazionali dell’organizzazione nonché una persona transessuale (nel vocabolario dell’epoca), che tornava dopo un intervento chirurgico di affermazione di genere. «Ero affascinata», ricorda Derouen, «Una transessuale. Ecco un’intera nuova dimensione della vita per me!». Aveva cinquantaquattro anni e si trovava al trentottesimo anno della sua vita religiosa.
Sharp era nata nel 1953, seconda di undici figli in una famiglia cattolica. Fin da bambina era consapevole di essere diversa, ma iniziò a esplorare l’identità di genere a metà degli anni Ottanta («Pensavo: ‘Aspetta! Questa sensazione potrebbe non andare via!’»). Era l’epoca pre-Internet e Sharp scoprì finalmente il lavoro di Harry Benjamin, talvolta chiamato il padre degli studi transgender occidentali, in uno sgabuzzino sotterraneo per libri rari nella biblioteca della Louisiana State University. Benjamin, la cui paziente più nota era Christine Jorgensen, aveva reso popolare il termine “transessuale” e definito la condizione ora nota come disforia di genere, una mancata corrispondenza tra il sesso assegnato alla nascita e l’identità di genere di una persona.
Poco dopo, Sharp iniziò a consultare medici e psicologi in una clinica per la affermazione di genere a Galveston, Texas. «La mia speranza era quella di recuperare l’armonia della mia persona e risolvere il conflitto interiore», dice. Iniziò il suo percorso di affermazione di genere nel 1992. Come la maggior parte delle persone transgender allora, come anche adesso, pagò un prezzo molto alto per l’affermazione della sua identità, perché a un certo punto perse il lavoro e l’assicurazione con cui stava pagando i trattamenti. La sua fede fu fondamentale per superare le difficoltà. «Cercavo certezza in un mondo incerto con un futuro incerto, e sentivo di dovermi arrendere a Dio», racconta. Fu per lo più un’impresa portata avanti in solitudine, poiché non si sentiva molto sicura nell’affidarsi alla Chiesa.
Molto tempo dopo aver intrapreso un secondo lavoro, come attivista di grande successo per le tutele legali delle persone transgender a New Orleans, Sharp continuò a credere che la componente spirituale fosse essenziale nel percorso di transizione. Fece del suo meglio per aiutare diversi amici che cercavano di mantenere la fede nonostante il disprezzo che avvertivano nelle loro parrocchie, ma sentiva che l’aspetto spirituale era “uno spazio non occupato”. E poi, ha raccontato: «Salta fuori suor Luisa».
Quando le due si sedettero, la conversazione arrivò rapidamente all’operazione chirurgica di Sharp. «Sapevo di averne bisogno», disse, «ma non avevo realizzato quanto fosse importante». Derouen rispose immediatamente, «Non mi sorprende affatto. Noi non “abbiamo” un corpo, noi “siamo” un corpo. Non possiamo essere ciò che Dio vuole che siamo senza il nostro corpo. È difficile immaginare quanto deve essere difficile… sentire che il tuo corpo e il tuo cervello non vanno d’accordo».
La sua osservazione non si basava sulla conoscenza degli studi di genere, dei quali Derouen non sapeva nulla. Non le era ancora venuto in mente quello che sarebbe diventato il suo brano preferito di santa Teresa d’Avila: «Cristo non ha più corpo ora se non il tuo, / Nessuna mano, nessun piede sulla terra tranne i tuoi, / Sono tuoi gli occhi con cui Egli guarda / con compassione questo mondo».
Cercando di spiegare adesso quel particolare momento, mi dice che Dio stava riversando in lei amore per le persone transgender «fin dall’inizio. E l’amore rende più facile la comprensione». In ogni caso, entrambe le donne ricordano che Sharp si appoggiò alla spalliera, fece una pausa, puntò il dito verso Derouen e disse: «Hai capito. Tu hai veramente capito!». E poi Derouen ebbe un’illuminazione: questo era ciò che Dio aveva in mente per lei.
*David Van Biema è stato il capo redattore della sezione religione per la rivista Time, dove ha lavorato dal 1993 al 2008. I suoi scritti sono apparsi su The Atlantic, America, Religion News Service e altri.
Testo originario: No Body Now But Yours