‘Non c’era posto per loro’ (Lc 2,7). I fioretti di San Francesco e le veglie per le vittime dell’omofobia
Riflessioni di Gianni Geraci del Gruppo Il Guado di Milano del 21 maggio 2010
Quando, quattro anni fa, ho ricevuto l’email in cui gli amici di Firenze mi comunicavano la loro idea di organizzare una veglia di preghiera per le vittime dell’omofobia mi sono detto: «Ecco finalmente qualche cosa che dovrebbe trovarci tutti concordi e che dovrebbe trovare anche l’appoggio di tutte le nostre chiese, perché cosa c’è di sbagliato, per dei credenti, nel ritrovarsi insieme a pregare per le vittime di quella particolare forma di odio che è l’omofobia?».
E davvero, quando l’anno successivo ho iniziato a lavorare per organizzare la veglia in una chiesa della città di Milano non avrei mai immaginato di incontrare problemi. E invece i problemi sono arrivati!
E non c’entrano niente le condanne della morale o quelle della Bibbia. L’omosessualità è un problema molto più viscerale, che tocca il rapporto che molti uomini e molte donne hanno con l’immagine che hanno di loro stessi.
Ecco perché, a distanza di quattro anni, ancora incontriamo problemi quando decidiamo di rispondere all’appello degli amici di Gionata e iniziamo a darci da fare per organizzare delle veglie di preghiera per le vittime dell’omofobia.
Ecco perché ci sentiamo spesso rispondere che una veglia per le vittime dell’omofobia non è opportuna, o che non è il caso di farla perché non ci sono episodi locali che la giustificano, oppure che le vittime dell’omofobia possiamo ricordarle ogni giorno nelle nostre preghiere e che quindi non c’è motivo di organizzare una veglia di preghiera dedicata appositamente a loro.
Ecco perché, a distanza di quattro anni, facciamo ancora l’esperienza di quelli che debbono cercare una soluzione di ripiego perché, come è capitato anche a Maria e a Giuseppe la notte di Natale, «non c’era posto per loro» (Lc 2,7).
A Milano, quest’anno, un posto l’abbiamo trovato. E davvero, quando l’ho visto, mi sono accorto che non si trattava di un posto qualsiasi, ma di un posto ricco di significati.
A quanto mi ha raccontato uno dei cappuccini a cui è affidata quella che a Milano chiamano la «chiesa rossa» del Naviglio pavese, si tratta di uno dei più antichi luoghi di culto cristiani della città, come del resto sembrerebbero testimoniare i frammenti di un pavimento del II secolo dopo Cristo che si vedono sotto una delle lastre di cristallo che interrompono il pavimento di pietra posato durante gli ultimi restauri.
E davvero dobbiamo essere gradi al Signore per questo posto. Così come dobbiamo essere grati a chi ce lo ha messo a disposizione, così come dobbiamo essere grati alle comunità protestanti che, negli annni scorsi, ci hanno messo a disposizione le loro chiese.
Ma in quante altre città le cose non sono andate allo stesso modo? In quanti posti i programmi sono stati stravolti all’ultimo momento solo perché qualcuno ha gridato allo scaldalo di fronte all’idea che delle persone si incontrassero in una chiesa per ricordare le vittime dell’omofobia?
Anche nella mia città, a Varese, nonostante le buone relazioni personali che posso dire di avere sia in ambito cattolico che in ambito riformato, non ho trovato un posto in cui organizzare una veglia: tutte le persone che ho interpellato, seppure con rammarico, mi hanno detto di non essere in grado di ospitare un incontro di preghiera in cui si parlasse apertamente di omosessualità.
E’ stato allora che mi è venuto in mente un brano riportato nei «Fioretti» in cui san Francesco fa a frate Leone questo discorso: «Quando noi giugneremo a Santa Maria degli Angeli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta del luogo, e ‘l portinaio verrà adirato e dirà: “Chi siete voi?” e noi diremo: “Noi siamo due de’ vostri frati” e colui dirà: “Voi non dite vero: anzi siete due ribaldi, che andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andate via”, e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame, infino alla notte; allora, se noi tante ingiurie e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pazientemente sanza turbazione e sanza mormorazione, e penseremo umilemente e caritativamente che quel portinaio veracemente ci cognosca e che Iddio il faccia parlare contra noi, o frate Leone, scrivi che ivi è perfetta letizia» (Capitolo VIII,6).
Io non ho la stoffa di Francesco e faccio fatica ad accettare certe situazioni pazientemente, «sanza turbazione e sanza mormorazione». So però che, anche se quelli che dicono di parlare in suo nome ci rifiutano, Dio non rifiuta certo gli omosessuali, come del resto non rifiuta nessun uomo e nessuna donna.
Non è una mia opinione, ma è quello che ci ricorda Francesco nei suoi «Fioretti» ed è soprattutto quello che ci ricorda San Paolo nel brano della lettera ai Romani che abbiamo meditato insieme: «Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rom 8,38-39).
Ecco perché invito tutti gli omosessuali credenti italiani a non fermarsi di fronte a un rifiuto: continuate a chiedere, continuate a insistere, continuate a mostrare il vostro volto tranquillo e paziente. Con l’aiuto di Dio anche i muri più solidi, alla fine, crolleranno.