“Non chiamatelo matrimonio” e altre obiezioni assurde quando si parla di persone LGBT
Riflessioni di Massimo Battaglio
In questi giorni, mi sono imbattuto in discussioni sui temi delle rivendicazioni LGBT, di quelle che non fanno piacere. Le solite questioni: “Non chiamatelo matrimonio”, “manca l’obbligo di fedeltà”, “l’utero in affitto”, “l’omofobia è un’invenzione”.
Pensavo davvero che fosse un dibattito in qualche modo superato ma invece devo notare che appassiona ancora, soprattutto in ambito cattolico. D’altra parte, persone, preti, genitori o anche giovani omosessuali provenienti da un certo circuito culturale, hanno bisogno di un tempo di maturazione. E allora è giusto discutere.
“Non chiamatelo matrimonio”
L’ultima volta che ho sentito questo slogan è stato da parte di un gruppo di genitori di ragazzi LGBT. Dicevano che, riguardo alla parola “matrimonio” ma anche alle espressioni “marito e marito” o “moglie e moglie”, sarebbe meglio fare uno sforzo creativo e cercare qualche sinonimo. Eh sì perché l’etimologia di “matrimonio” sarebbe “mater” e “munus”, cioè “doveri della madre”. Dunque, in assenza di maternità, si dovrebbe cercare un’altra parola.
Ma cari i miei linguisti: quell’assenza di maternità è tutta ideologica. Per esempio, taglia fuori tutte le donne, che sono perfettamente in grado (legalmente o meno, è un altro discorso) di avere figli senza dover ricorrere a un marito. Poi esclude tutti coloro che ricorrono a maternità surrogata (i cui figli, a prescindere dalla nostra approvazione, esistono) e infine ignora le coppie LGBT che, nei Paesi dove è possibile, adottano dei figli.
In secondo luogo, sappiamo benissimo tutti quanto sia riduttivo e fuori tempo teorizzare il primato della procreatività nella relazione sessuale. Applicare lo stesso criterio al contratto che la regola, che senso ha? Capisco che, per noi italiani, è una faccenda un po’ difficile perché la nostra lingua deriva fortemente dal latino. Ma altri popoli, con altre culture, ci sono arrivati da secoli. E infatti, in inglese, matrimonio si dice “marriage”. In francese “mariage”, che deriva da mas/maris, il maschio. Il matrimonio è cioè l’atto del prendere un compagno. In tedesco si dice “ehe”, che fa pensare a “herr”, signore. In spagnolo si usa “casamiento”, insistendo unicamente sulla coabitazione. Il matrimonio è, nella tradizione iberica, l’atto di mettere su casa insieme.
La Bibbia stessa – oltre che il Magistero più recente – distingue molto bene sessualità e generatività. Eva non è creata solo per procreare ma innanzitutto perche “l’uomo non sia solo”, perché abbia a fianco un essere “che gli sia simile”. Sembra che il Padre, nello sdoppiare Adamo in maschio e femmina, voglia dargli l’opportunità di vivere in prima persona un amore simile al Suo, un amore che è insieme unità e relazione tra le distinte Persone della Trinità. E’ per questo, e non per far figli, che i due si uniscono diventanto “una cosa sola”. Il tema dei figli arriverà due capitoli più avanti (e non sarà mai unico: nel comando “crescete e moltiplicatevi”, il termine “crescere” vuol dire: andate avanti, diventate adulti, siate creativi).
Dunque, “non chiamatelo matrimonio” non è un’indicazione tattica per avere gli stessi diritti senza farsi notare. E’ l’obiezione di chi continua dentro di sé a conservare un pregiudizio. E se vogliamo “crescere”, obbedendo davvero a Dio, i pregiudizi vanno superati.
Quanto a “marito e marito” o “moglie e moglie”, davvero: è solo questione di abitudine. Vale lo stesso principio di certi nomi che ci suonano strani quando sono declinati al femminile (sindaca, assessora). E dobbiamo farcene una ragione perché mio marito non è il mio “compagno”. Col compagno si divide il pane (cum panis). Col marito, si condivide altro. Ed è quest’altro, non il pane, che fonda l’unione matrimoniale.
“Ma manca l’obbligo di fedeltà!”
Questa è un’obiezione che arriva, più che dai genitori, dalle stesse persone omosessuali, o meglio, da alcune. Di solito si aggiunge che è troppo comodo reclamare diritti se non si assumono doveri, e in particolare il dovere di essere fedeli.
Chiariamoci: l’istituto delle Unioni Civili prevede gli stessi doveri del matrimonio. Quanto ai diritti, non ne dà qualcuno in più ma molti in meno. C’è solo un dovere che, apparentemente, è presente negli articoli del Codice Civile riguardanti il matrimonio e non nella legge Cirinnà: quello sulla fedeltà.
Ma la fedeltà è un dovere o un diritto? E’ davvero più comodo sposarsi sapendo che, se il proprio coniuge ci mette le corna, non abbiamo strumenti per farlo accomodare da dove è venuto?
Il problema è che, nella giurisprudenza, nemmeno i coniugi sposati secondo il rito del matrimonio, hanno più questo diritto. Diverse sentenze, anche della Corte Costituzionale, hanno fatto notare che l’obbligo di fedeltà non può essere impugnato come giusta causa di divorzio, poiché ciò lederebbe altri diritti della persona, come quello alla riservatezza. Dunque, quell’obbligo, se non verrà mai cancellato esplicitamente, resterà nel diritto come un ricordo: uno di quei “dinosauri giuridici” come l’enfiteusi, che regolano cose che non esistono più.
Dunque, non c’è niente di ideologico nella cancellazione dell’obbligo di fedeltà (che peraltro è stata promossa da Amato, un parlamentare esplicitamente cattolico). Semplicemente, si è fatto in modo che nessuno potesse dubitare della costituzionalità della legge.
“Sì ma i gay sono fedeli?”
Potrei ribattere: e gli etero lo sono? Serio: siamo sicuri che il problema (morale, non giuridico) della fedeltà riguardi solo la popolazione omosessuale? E in ogni caso: le scelte intime di alcuni individui in campo morale devono ostacolare i diritti di tutti? Per veder riconosciuto un diritto, bisogna fare i bravi? Un diritto è una specie di voto di condotta? Un pacchetto di patatine?
Ma in ogni caso, parlano i numeri: le unioni civili celebrate dal 2017 sono ormai alcune migliaia. Il “tasso di matrimonialità” tra coppie eterosessuali o omosessuali è ormai identico. Al contrario, tra tutte le coppie che hanno costituito un’unione civile, se ne sono sciolte solo tre. E questo, in un Paese dove si celebrano 85.000 divorzi all’anno contro 185.000 matrimoni. Tanto basta per dire che, spesso, le nostre percezioni sono influenzate più da antichi fantasmi che dall’osservazione della realtà.
“Ma l’unione tra due gay può essere un sacramento?”
Una variante di “non chiamatelo matrimonio” è: “però non può essere considerato un sacramento”. Eh già perché non si sono precedenti biblici di matrimoni tra persone dello stesso sesso.
Premesso che nella Bibbia non si parla nemmeno di fisica nucleare ma questo non significa che gli atomi non esistano, la mia personale risposta è: e allora? Penso che la Chiesa, assemblea dei figli di Dio, si realizzi innanzitutto nella comunione tra essi, non solo nei sacramenti e nella loro dispensazione.
E anche se fosse, occorre ricordare che, fino al concilio di Trento (millecinquecento anni dopo la nascita del Cristianesimo), il matrimonio non era considerato un sacramento. Era trattato come un semplice patto tra persone, sul quale si chiedeva la benedizione di Dio. La Chiesa ortodossa e le Chiese riformate, non riconoscendo i dettami tridentini perché si sono separate prima, continuano a non considerare il matrimonio come un sacramento. Dobbiamo credere che lo Spirito Santo non sia presente in tutte le coppie sposate prima della Controriforma? O che i luterani, i calvinisti, i valdesi non sono validamente sposati? Anche per loro vale il motto “non chiamatelo matrimonio”?
“Il nostro non è un Paese omofobo”
Un’altra declinazione di “non chiamatelo matrimonio” è: “non parliamo sempre di omofobia”. Consiste nel non riconoscere che un torto fatto a una persona omosessuale (o transessuale) a causa del suo orientamento sessuale (o della sua identità di genere) sia mosso da omofobia. Oppure che se l’è cercata, che è ancora peggio. Mi è capitato di sentire pari pari le seguenti parole: “Non penso che esista un genitore che cacci di casa suo figlio quando fa coming out”.
Ancora una volta, i numeri dicono cose diverse. Attraverso il paziente lavoro che stiamo conducendo con la ricerca “cronache di ordinaria omofobia“, siamo venuti a conoscenza di 174 vittime di omofobia nel 2020 (nonostante la pandemia), 228 nell’anno precedente e 216 in quello ancora prima. Di queste, una ventina sono proprio ragazzi cacciati di casa o indotti a fuggire. E sono solo quelli che hanno denunciato i fatti. Se facciamo un giro nelle diverse case di accoglienza per persone LGBT senza dimora, scopriamo che sono costantemente abitate ciascuna da una dozzina di persone (come a Roma) o addirittura una ventina (a Torino). Numeri piccoli? In assoluto sì ma quanti sono i ragazzi cacciati di casa per altri motivi?
Il rilevamento di questi numeri impegna il sottoscritto, da 10 anni, in un’indagine quotidiana e in una periodica, complicata lettura dei dati a cui segue la loro discussione. Fino a oggi, le vittime registrate sono 1192: una ogni due giorni. L’affermazione “il nostro non è un Paese omofobo” è dunque offensiva non solo per le vittime ma anche per chi, come me, cerca in qualche modo di occuparsene.
Pars contruens
Finora ho cercato di decostruire alcune obiezioni: “non chiamatelo matrimonio”, “manca l’obbligo di fedeltà”, “non è un sacramento”, “l’omofobia è un’invenzione”. Ho tralasciato volutamente la faccenda de “l’utero in affitto” perchè è una cosa troppo seria per meritare questo bruttissimo titolo. Ora mi corre l’obbligo di fornire qualche spunto di riflessione in positivo. E comincio con un aneddoto che racconto spesso.
Quando ho iniziato ad avvicinarmi alla politica e al sociale, il mio compito era dare i volantini. Altri li scrivevano, io li distribuivo. E per distribuirli, dovevo leggerli. E leggendoli, cominciavo a farmi un’idea. Dopo qualche anno, mi fu chiesto di scrivere a mia volta un volantino, e poi un progetto, e poi uno più grande. La differenza tra il Massimo distributore di volantini e quello che scriveva i progetti nacque in quell’attività di lettura, di formazione, di studio. Oggi esiste una letteratura LGBT sterminata. Prima di trasformare i nostri legittimi dubbi in asserzioni che possono offendere, leggiamo qualche buon libro.
E l’altro consiglio: frequentare! E’ del tutto inutile speculare teoricamente sulla legittimità del matrimonio omosessuale, sui comportamenti delle persone omosessuali, sull’origine dell’omosessualità, se non ci si confronta con le persone omosessuali e con le loro vite. Le persone omosessuali sono tante e tutte diverse. Non sono solo quelle che vediamo rappresentate al Grande Fratello o a Sanremo o nelle chat. Proviamo a confronarci con tutti, ad ascoltare tutti, a domandare, prima di dare lezioni. Proviamo a liberarci di noi stessi!