Non è ancora scacco matto
Riflessioni del pastore Alessandro Falasca* pubblicate sul gruppo Facebook Universo in cammino – Una via spirituale UU il 30 dicembre 2018
Un un paio di anni fa, per il sermone di Capodanno, tentai un esperimento: trovare ispirazione per la riflessione da proporvi interrogando gli I Ching sulla prospettiva del nuovo anno. Ne venne fuori un sermone articolato, ma che, a rileggerlo, mi sembra ancora interessante (per chi volesse ritrovarlo, si intitolava La perseveranza del vento). Ho pensato che potesse essere stimolante ripetere l’esperimento, e così ho interrogato gli I Ching sulla semplice domanda “Con quale spirito dovrei affrontare l’anno nuovo?”. Con mia sorpresa, il responso mi ha posto di fronte un’immagine piuttosto sconcertante: quella dell’Abisso. L’Abisso è uno dei sessantaquattro esagrammi dell’I Ching, composto dalla ripetizione del trigramma Khun (l’Acqua), a sua volta composto da una linea continua Yang tra due linee spezzate Yin. Esso rammenta una gola profonda in cui scorra un ruscello d’acqua, una situazione di pericolo, una prospettiva di rischio, ma al cui fondo soggiacciono ancora risorse, come le nostre energie interiori. Una simbologia, dunque, non priva di elementi positivi, ma che in prima battuta prospetta un futuro tutt’altro che sereno, irto di difficoltà e pericoli. Potrà anche scorrervi un fiume sotto, ma una voragine fa in primo luogo paura. “Avanti e indietro, abisso sopra abisso. Si è già caduti in una fossa dentro una voragine”; “Legato con corde e funi, confinato in una foresta di spine, per tre anni non trovato”, recitano alcune delle sentenze accessorie alle singole righe.
Insomma, se dovessimo intendere gli I Ching come strumento di divinazione, avremmo di che preoccuparci per il nuovo anno. Per fortuna noi li intendiamo semplicemente come una pratica che ci pone di fronte ad elementi di riflessione non condizionati dalla traiettoria del nostro percorso, e pertanto intrisi di stimolante alterità. Non abbiamo di che temere, ma certo di che riflettere. Così, dopo l’iniziale sorpresa, ho cominciato a scandagliare le associazioni di idee che l’immagine dell’abisso mi poneva di fronte. Due flash di esperienze recenti mi sono balenati alla mente: la prima è una bella canzone di Brunori Sas, La verità, che descrive la tipica situazione di tante persone di mezza età, insoddisfatte e prigioniere di una vita inautentica, ma incapaci di cambiare, perché condizionate da timori ed abitudini; l’altra è la scena di un film (invero piuttosto scadente, dal titolo The Lazarus effect) in cui una scienziata, resuscitata durante un esperimento, scopre che, nonostante una vita irreprensibile, è destinata comunque all’inferno in virtù di un irrimediabile colpa di quando era bambina (non una cosuccia a dirla tutta: l’aver dato fuoco alla sua casa con i genitori dentro). In qualche modo mi è venuto spontaneo associare l’abisso all’inferno, e queste due immagini, richiamate alla mente dall’associazione di idee, si ricollegano ad alcune delle riflessioni che la teologia ha compiuto sull’inferno.
Parte della teologia cristiana ha ricollegato l’inferno ad una condizione esistenziale di separazione da Dio o dal senso autentico della vita. Altra parte della teologia ha visto, invece, nell’inferno l’immagine dell’irreversibilità dei nostri errori più gravi, dell’irrimediabilità delle ferite causate dai nostri peccati. Non abbiamo, però, bisogno di farci scarrozzare da Caronte oltre le porte dell’Ade per sperimentare, almeno in parte, queste condizioni. Come il personaggio della canzone di Brunori Sas, noi tutti abbiamo vissuto momenti in cui ci sentiamo separati da ciò che percepiamo alla radice del nostro essere ed a volte, anzi, intere fasi della nostra vita sembrano caratterizzate da questa sensazione. E noi tutti paghiamo la restrizione, a volte insopportabile, delle nostre possibilità e prospettive, che è il frutto dei nostri errori, di scelte sbagliate e cammini contorti. Noi tutti viviamo lo scacco di fronte all’abisso.
Ma lo scacco di fronte a cui ci pone l’inferno è uno scacco matto: irrimediabilità ed irreversibilità sono i caratteri dell’inferno. Come ben sapete, l’universalismo nasce come contestazione di questa irreversibilità in nome dell’infinita misericordia di Dio. Hosea Ballou, ad esempio, riprendeva il concetto di separazione da Dio come fondamento della pienezza dell’animo, ma osservava che tale separazione sia la punizione immediatamente connessa al nostro errore e che, dunque, scontiamo già qui ed ora come condizione di questa esistenza, rispetto alla quale l’aldilà rappresenterebbe un’immediata riconciliazione con Dio. Ciò che ci interessa di questa riflessione di un universalismo di altri tempi è come l’attenzione si sposti sullo scacco che viviamo qui ed ora, in questa esistenza, sulle fratture della nostra esistenza attuale, piuttosto che di un’eventuale esistenza futura. Lì dove poi si giunge, attraverso il contributo del trascendentalismo, a riconoscere l’azione dello Spirito come operante nella vita tutta, ecco che allora l’universalismo giunge a riconoscere la presenza di risorse interiori e di energie operanti nella vita tutta che ci portano a dire che, sì, siamo sempre di fronte ad uno scacco, ma in qualche modo non è ancora scacco matto.
Ecco, se l’inferno è una condizione di eterna afflizione e disperazione, l’abisso, come ci raccontano gli I Ching, contiene al fondo energie che possiamo, e anzi, dobbiamo raccogliere e su cui possiamo costruire la nostra risalita dalla voragine. Gli I Ching indicano chiaramente gli atteggiamenti di fronte al pericolo: coraggio, cautela, coerenza alla Via ed al proprio lavoro interiore. La sentenza collegata all’esagramma recita, ad esempio, “Essere sinceri e legati saldamente al cuore porta l’uomo saggio a raggiungere le proprie mete. Le azioni coraggiose portano ricompense”. Aggiungono gli I Ching “Dove vi è pericolo, cerca solo piccoli successi”, “Una brocca di vino, una ciotola di riso come aggiunta. Sceglili fatti in terracotta ed offrili semplicemente attraverso una finestra”, aggiungono alcune sentenze accessorie, a rimarcare il valore della cautela. Di fronte allo scacco della nostra esistenza dobbiamo avere il coraggio di muoverci e di cambiare, ma anche l’umiltà di farlo con cautela, ossia con l’attenzione dovuta alle conseguenze delle nostre azioni. Ma, soprattutto, dobbiamo restare connessi alla vita autentica che ci scorre dentro e, attraverso di essa, alle vite che ci scorrono accanto ed a cui siamo legati nella rete interdipendente dell’essere. Solo riconoscendo e tenendo vive tali connessioni possiamo ritrovare quelle risorse, come amore, creatività e speranza, che impediscono al nostro abisso di tramutarsi in un inferno.
Ma c’è un altro aspetto che distingue l’abisso dall’inferno, che dobbiamo considerare. L’inferno è qualcosa che vogliamo e dobbiamo evitare, l’abisso è in fondo, invece, qualcosa che dobbiamo attraversare e da cui non possiamo tirarci indietro. Questo aspetto ce lo illustra magistralmente il racconto biblico di Giona (che mi ha segnalato Roberto, che ringrazio). Chiamato da Dio a testimoniare la sua fede presso gli abitanti di Ninive, inizialmente Giona tenta di sfuggire a tale chiamata, imbarcandosi per tutt’altro luogo; in mare, però, la nave è tormentata dalla tempesta inviata dal Signore, sicché Giona si trova costretto ad ammettere il suo errore e a farsi gettare in mare dai marinai per porre fine alla tempesta; in mare viene inghiottito da un enorme pesce, nel cui ventre rimane per tre giorni e tre notti, finché si riconcilia finalmente con Dio con una bellissima preghiera, e viene vomitato dal pesce e si salva; di lì in poi comincia la sua predicazione. La vita (o Dio, fate voi) ci chiama ad essere autentici, a servire ciò che di imprescindibile è scritto nel profondo del nostro cuore, ma questo è tutt’altro che facile.
È molto più comodo (ce lo ricordava anche Brunori in versi) vivere la nostra esistenza inautentica, ma sicura, fatta di abitudini consolidate, di piccole bugie che ci diciamo ogni giorno e che non fanno male a nessuno, al punto che finiamo per crederci. Per questo, guardare dentro noi stessi è guardare dentro un abisso: perché ci vediamo in tutti i nostri limiti di creature finite e ci scopriamo pavide quaglie dal breve volo, lì dove ci credevamo aquile leggere. Ma è un abisso da cui non si può sfuggire, un mare freddo e profondo in cui dobbiamo gettarci, un ventre di balena in cui dobbiamo dimorare per risorgere e rinascere alla persona che siamo davvero ed al destino che la vita ci ha chiamato a servire. Come il re non può restare sotto scacco, noi non possiamo ignorare l’abisso che abbiamo dentro e rifiutarci di fare le nostre mosse per affrontarlo, attraversarlo e, infine, uscirne fuori.
Nella Via verso l’Uno.
* Alessandro Falasca, laureato in Economia, ma da sempre interessato a filosofia e spiritualità, è UU dal 2008 ed ha partecipato attivamente alla formazione della Comunione Unitariana Italiana. Particolarmente legato al trascendentalismo unitariano e all’universalismo emergente, la sua ricerca spirituale è ispirata al Taoismo e al Cristianesimo, ritrovando nella “teologia del processo” la base ideale per una loro sintesi. Negli ultimi tempi si è avvicinato all’I Kuan Tao, tradizione sincretica cinese.