“Non ero matto!”. Sono un ragazzo imprigionato nel corpo sbagliato
Testo scritto da Giorgia, diciannovenne FTM*, raccolto da Roberta Rosin** autrice con Chiara Dalle Luche*** di “Sconvolti. Viaggio nella realtà transgender” (Alpes Italia, 2017, 110 pagine)
Un ragazzo transessuale di 19 anni, che accompagno in un percorso di psicoterapia si RACCONTA dandoci la possibilità di riflettere attraverso alcuni episodi della sua giovane vita.
La società, tramite i genitori, impone le sue regole anche ai bambini più piccoli: le femmine si vestono di rosa, giocano con le bambole e sono il “gentil sesso”; i maschi invece vestono di blu, giocano con le macchinine e, in caso di pericolo, devono proteggere le femmine. Anche se ora le cose stanno lentamente cambiando, il concetto “l’uomo protegge la donna” è stato ribadito con particolare costanza persino nei cartoni.
Un giorno di terza elementare, durante la ricreazione, un bambino attaccabrighe rubò la merenda ad una mia amica, e poi scappò via. Allora io, che avevo assistito alla scena, memore della lezione che avevo appreso dai cartoni, lo rincorsi, e a furia di graffi, spintoni e piccoli morsi gli ripresi la merenda. Tutto fiero, la riportai alla mia amica. Il mio ego di giovane uomo era molto contento di aver vinto quella piccola battaglia: non mi lasciavo mica mettere i piedi in testa dagli altri maschi, io!
La mia compagna però era un po’ stranita, perché non si aspettava che mi comportassi così. Non aveva tutti i torti: io mi chiamavo Giorgia, ed ero una bambina. O almeno così mi dicevano tutti gli adulti che conoscevo. “Diventerai proprio una bella signorina!”, mi dicevano.
Io non ho mai creduto a queste assurde storie che mi raccontavano. Ho sempre dato per scontato che sì, il mio corpo era quello di una femmina, venivo chiamato con pronomi femminili, ma tutti, prima o poi, si sarebbero accorti che in realtà ero un maschio. Non poteva essere altrimenti.
Alle medie, quando ancora non avevo idea di cosa fosse l’anatomia, mi guardavo in mezzo alle gambe e vedevo le piccole labbra, ma non sapevo che si chiamassero così, quindi con grande gioia dicevo a mia mamma “guarda mamma, mi sta crescendo il pipino!”.
Lei negava sempre, sorridendo. Allora trovai un compromesso: dovevo essere un ermafrodito. L’ipotesi mi piacque molto. Per qualche tempo a scuola dissi a tutti di essere un ermafrodito. I miei compagni ridevano, e non mi prendevano sul serio.
In prima superiore capii: ero una femmina. Non avrei mai avuto una pubertà naturale maschile. Non fu per niente facile rassegnarmi all’idea. Proprio quando stavo per mollare, trovai un articolo su internet che parlava di transessualità. “Ah, ecco. Allora non ero matto”.
* Roberta Rosin ringrazia il suo paziente per averla autorizzata a pubblicare questo suo scritto.
* Roberta Rosin. Psicoterapeuta Funzionale, socia ONIG (Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere), è docente-supervisore della Scuola di specializzazione in Psicoterapia Funzionale. roberta@robertarosin.com
** Chiara Dalle Luche. Psicologa, Psicoterapeuta Funzionale, socia ONIG, vicepresidente Associazione Consultorio Transgenere di Torre del Lago (LU) chiara.dalleluche@consultoriotransgenere.it