Non mi incateno a cancelli, non urlo slogan. Io scrivo
Testimonianza di Silvia Lanzi, volontaria del progetto Gionata
È da un po’ di tempo che ci penso. Sono un’attivista o no? Non lo so. Forse sì, forse no. Forse non è nemmeno il caso di farmi una domanda così oziosa. Il fatto è che “attivista” mi fa pensare a uno un po’ fuori di testa che grida slogan, si incatena a qualche cancello, marcia e si fa arrestare. Niente di più diverso da quello che sono io. E cosa sono io? Una persona molto… “borghese”. Niente a che fare con quei fricchettoni alternativi. Mi piace fare una vita tranquilla. Il massimo dello sballo sono un paio di bicchieri di vino quando sono fuori con i miei amici – e solo se non devo guidare io.
Il mio sogno è quello di tre quarti della gente: un lavoro non troppo noioso, uno stipendio non troppo striminzito, un appartamento in una periferia non troppo degradata. Colpi di testa? No grazie. Eppure, parlando con il mio amico Innocenzo una mattina e chiedendogli questa cosa lui mi ha risposto: perché no?
Lo conosco da due anni, ma l’ho visto per la prima volta un paio di mesi fa a Parma. L’incontro con lui è stato uno di quelli che ti cambiano la vita… È iniziato tutto due anni fa (il 29 agosto 2009). Era un sabato mattina, ed ero in biblioteca – il mio posto preferito in cui passare ore, quando non addirittura mezze giornate (un altro segno della mia noiosissima normalità borghese).
La mia amica Silvia aveva un sacco di piccoli utenti da accontentare – che gioia quando vedo bambini che leggono; così mi sono seduta al computer, ho aperto Google e ho cliccato due parole VIRGINIA e WOOLF (che, tra parentesi, è la mia scrittrice preferita – il mio mito letterario). Mi si è aperta una pagina con un sacco di rimandi. Ne ho scelto uno – un articolo tratto da Gionata.org – un portale che allora non conoscevo, ma che sarebbe diventato una presenza costante e vitale. Ma non anticipiamo.
L’articolo in se stesso era un piccolo gioiello – è un piccolo gioiello, visto che è ancora in rete. Scritto benissimo, arguto. Una vera chicca per un’appassionata come me. Ho iniziato una specie di corrispondenza a suon di post con l’autrice. Mi intrigava e volevo conoscerla meglio, e chissà… Non so se sono riuscita a far colpo sull’autrice – di cui per questioni di privacy non faccio il nome, ma i cui articoli, e non solo quello su Virginia Woolf che mi ha stregato, si possono facilmente trovare su internet, insieme alla sua identità di.
So solo che in questi due anni è diventata una delle persone che stimo di più nonché una fonte costante d’ispirazione – ma questa è un’altra storia.
Quanto a Gionata, mi sembra strano, o meglio mi è sembrato strano a posteriori che io, lesbica, credente, un sabato mattina, oziosamente, sia capitata su un sito che si occupa di fede e omosessualità. Quanti articoli ci sono sul web che parlano di Virginia Woolf? Tanti, tantissimi. Perché ho scelto proprio quello? Non so. È successo e basta.
Avevo trovato questo sito, pieno zeppo di materiale interessante. Mi misi a studiarlo meglio. Era pieno di spunti: articoli, recensioni di libri, testimonianze. Tutto per dire che omosessualità e fede non sono realtà inconciliabili e che la Chiesa continuava ad interrogarsi su questo argomento al di là dei proclami granitici del Magistero. Per me, nata alla fede in un gruppo come “La fonte” era insieme una conferma e uno stimolo ad andare avanti.
Stavo attraversando un momento se non difficile, almeno delicato e particolare. Le ore passate al computer, spulciando qua e la tra i vari articoli mi facevano sentire che non ero sola. Era un portale internet, erano file multimediali, d’accordo.
Ma dietro a quelle pagine stavano persone, uomini e donne che, se anche non conoscevo, esistevano. E stavano condividendo le loro esperienze e il loro vissuto. Con me. Poi, a poco a poco, mi è venuta un’idea folle. In uno dei giri su Gionata ho cliccato sul bottone “Cercasi Traduttori di… buona novella”, e ho pensato: perché no? Sì, perché no?
Dopo l’iniziale fiammata, durata più o meno un paio di secondi, il mio entusiasmo si smorzò subito. Ecco perché no: magari il mio inglese non era abbastanza fluente. E poi, quando avrei potuto collaborare? Avevo già un sacco di cose da fare: non mi ci vedevo tornare a casa la sera dopo una giornata in ufficio e mettermi di nuovo al computer.
Pensavo di avere già un sacco di cose da fare, libri da leggere, una vita da vivere. Ecco. Cercavano volontari. Potevano essere anche altri volontari. Sono sempre stata un tantino irresoluta nella vita. È il mio carattere. Forse per paura, o per mancanza di autostima, o per colpa dei miei genitori. O semplicemente per colpa mia.
Accidiosa, restia. Penso, faccio un sacco di castelli in aria e, quando è il momento di sbattermi un pochino, poco poco, per realizzarli ecco che mi tiro indietro. “Tanto, cosa cambia?” oppure “Sarà una delusione, come sempre”.
Perché impelagarmi in questa cosa? Ero quasi decisa a mollare l’idea quando mi sono trovata a scrivere una mail e a premere “invio” quasi inconsapevolmente. La mail diceva: “Eccomi! Sono Silvia, 35 anni. il mio inglese non è poi così malaccio. Se volete, potete contare su di me. Ditemi voi quali testimonianze tradurre”.
Non ero ancora del tutto convinta di ciò che avevo fatto. Anche se la mail era inviata, pensavo che se non avessi avuto tempo o voglia, avrei potuto dire semplicemente di no, che non ce la facevo, ma che mi rendevo disponibile per la volta successiva, in fondo ero una volontaria. Questo mio propormi “con riserva” mi tranquillizzava. Era una sorta di rete di sicurezza mentale che metteva tra me e quello che c’era dall’altra parte una giusta distanza.
Ho iniziato timidamente. Traduzioni anzitutto. E mi sono accorta che il mio inglese non era così arrugginito come pensavo e che avevo tutto il tempo del mondo. Anche perché nessuno mi metteva fretta e non avevo scadenze da rispettare. Le mail si susseguivano con un ritmo discreto: all’inizio le inviavo agli “amici del progetto” – e poi a Innocenzo (un nome strano che sapeva di papi e di Medioevo).
Tornavo a scrivere. O meglio tornavo ad essere pubblicata. Sì perché quella con Gionata.org non era la mia prima esperienza di taglio giornalistico. Mi sembrava che fosse passata una vita dalla prima volta. Ma era bello e soprattutto ricordavo come si faceva. Così tornavo a fare qualcosa che mi piaceva – o meglio qualcosa che gli si avvicinava molto, dato che era la mia prima esperienza come traduttrice.
Non so perché, dopo qualche tempo mi venne la malaugurata idea di dire a Innocenzo che avevo già esperienze giornalistiche e che per di più avevo già scritto un libro. Non so perché. O forse lo so. Il fatto è che volevo darmi un po’ di arie. Volevo fare colpo. Fa colpo dire en passant “Sai, ho scritto un libro” – anche se poi non l’ha letto nessuno – oppure “Scrivo per un giornale” anche se il giornale in questione è poco più di un giornalino parrocchiale.
Sia come sia, avevo davvero fatto colpo.
Accanto alle traduzioni, Innocenzo mi rendeva sempre più partecipe: le prime recensioni, i primi articoli, le interviste. Ogni volta esordiva con un “Scusa se ti disturbo (ancora)…”, oppure “Te la sentiresti di intervistare/recensire tizio/questo libro?” come se io facessi un favore a lui. Semmai era il contrario.
Mi sentivo lusingata che il mio lavoro venisse apprezzato così. Mi piacevano le sue consegne, inventare domande, scrivere cappelli e, ogni volta che il mio nome usciva sul portale ero felice. Facevo quello che amavo. E mi accorgevo, man mano che passava il tempo, che non ero io a fare un favore ad Innocenzo. Semmai era il contrario.
Prima di tutto, era a lui che toccava il lavoro sporco – sentire gli autori e chiederne la collaborazione, reperire numeri di telefono e indirizzi mail: insomma tessere quella rete nascosta di contatti senza la quale molti dei miei pezzi semplicemente non ci sarebbero stati.
A me veniva lasciata solo la parte piacevole: scrivere. So solo io come mi sentivo (e mi sento) quando scrivo. Il fatto che delle curiosità mie, eminentemente personali potessero trasformarsi in qualcosa di pubblico e di leggibile da tutti, mi mette i brividi.
Perché nelle interviste non chiedevo chissà quali cose stratosferiche ma ciò che mi sarebbe piaciuto sapere. E poi, invariabilmente, nello spazio di qualche giorno, quelle domande-e-risposte erano in rete. Venire a contatto con realtà e persone così diverse, che normalmente non avrei conosciuto, con le loro idee, è stato oltremodo stimolante, perché quelle idee, quelle persone, mi hanno interrogata, mi hanno svegliata, mi hanno dato il gusto della ricerca e hanno allargato i miei orizzonti.
Tutto questo lavoro mi ha dato parecchio, anche solo rispetto all’ambito prettamente culturale: angolazioni nuove, approcci che non avevo neanche immaginato, o semplicemente cose che prima non sapevo, mi si dispiegavano davanti. Un arricchimento personale, senza dubbio.
Così per quasi due anni: due anni nei quali ho imparato a voler bene a Innocenzo, a quel “compagno di cammino” (come si firma spesso). Ho imparato ad apprezzare la sa umiltà, la sua tenacia e la sua inventava – è merito suo se esiste il portale, è lui il deus ex machina.
Poi, mi sono svegliata una mattina – non è una metafora, è successo proprio così – e mi sono chiesta: “Perché lo faccio?” Per aiutare la causa, certo. Perché sono lesbica, credente e praticante e vorrei che cambiasse qualcosa nella mia Chiesa. Questo il leit motiv di fondo. Ma quella mattina ho aperto gli occhi. Mi sono resa davvero conto, ho sentito con il cuore, del motivo di tutte quelle mail. È strano ma, a volte, mi sono fatta un po’ prendere la mano. Scrivi di qua, senti di là, datti tempo per formulare le domande, assembla gli articoli.
Forse mi stava sfuggendo qualcosa. L’aspetto prettamente culturale, in sé assolutamente encomiabile e degno di plauso, stava mettendo in ombra le mie motivazioni più forti, ciò che mi aveva spinto a dire sì all’invito di Innocenzo.
Quella mattina ho scritto a Innocenzo una mail che è il nucleo attorno al quale si sono sviluppate queste riflessioni. Eccola: “Caro Innocenzo, in questi ultimi tempi mi sono spesso domandata a cosa serva il mio contributo a Gionata, a cosa serva tutto questo smazzarsi mio, tuo e di tanti altri. Ha un qualche valore? Sembra una goccia nel mare, e il mare è tanto vasto!
Potrei essere egoista e dirti, come tante volte ho fatto, che è prima di tutto un arricchimento personale. Certamente lo è. Venire a contatto con realtà e persone così diverse, che normalmente non avrei conosciuto, con le loro idee, è stato oltremodo stimolante, perché quelle idee, quelle persone, mi hanno interrogata, mi hanno svegliata, mi hanno dato il gusto della ricerca e della consapevolezza di essere in cammino”.
E mi hanno insegnato un sacco di cose, anche solo rispetto all’ambito prettamente culturale. Sono stata un po’ restia ad aderire al progetto. Pensavo di avere già un sacco di cose da fare, libri da leggere, una vita da vivere: forse perché mi vedevo già oberata di richieste di traduzioni, visto il mio inglese assolutamente impeccabile. E poi, oltre a me, ho pensato che ci fossero tante altre persone… perché impelagarmi in questa cosa?
All’inizio mi sono proposta “con riserva”. Pensavo che se non avessi avuto tempo o voglia, avrei potuto dirti semplicemente di no, che non ce la facevo, ma che mi rendevo disponibile per la volta successiva, in fondo ero una volontaria. Poi mi hai reso sempre più partecipe: le prime recensioni, i primi articoli, le interviste. Mi sono sentita lusingata che il mio lavoro venisse apprezzato così. Mi piacevano le tue consegne, inventare domande, scrivere cappelli e, ogni volta che il mio nome usciva sul portale ero felice. Facevo quello che amavo.
Poi ho capito un’altra cosa. La più importante. Perché faccio questo? Per aiutare gli altri che stanno passando un momento delicato della loro vita? Per dare loro speranza? Anche. Ma soprattutto perché credo. E perché come cristiana non ne posso fare a meno.
Perché sono umana, e per me essere compiutamente umani significa essere in ricerca, in cammino. perché devo portare la mia testimonianza perché non si accende la lampada per metterla sotto il moggio. Mi è stata donata la Luce, ed io, a mia volta e umilmente, devo fare in modo che si irradii intorno a me. E’ qualcosa che mi urge dentro. Devo dire di questo Incontro che mi ha cambiato la vita, della gioia di sentire/essere amati e di amare.
E poi mi sono chiesta: “E se non cambiasse nulla? Se i miei – i nostri sforzi – fossero inutili? Me lo sono chiesta. Sarebbe la stessa cosa, perché questa è la mia vocazione: la testimonianza. Ecco. In cinque minuti ho ricapitolato due anni di impegno. Solo due? Dodici almeno. Da quando, innamorandomi di una donna per la prima volta, ho lasciato che Dio, che aveva indugiato sulla soglia un sacco di tempo, entrasse a pieno titolo nella mia vita. Perché?
La risposta mi si è imposta da sola, e sta in una parola.Testimonianza. Un giorno, per uno dei miei articoli, ho intervistato Andrea Rubera, uno dei componenti del gruppo romano di Nuova proposta. Nel nostro scambio di mail ce n’è una che mi ha colpito al cuore: “Quello che io e Dario [è il suo compagno] cerchiamo di fare è di provare a restituire quello che abbiamo avuto, a condividerlo, sperando che il futuro sia più semplice per molti altri adolescenti glbt”
Più semplice di così! Ha un qualche valore? Sembra una goccia nel mare, e il mare è tanto vasto! Faccio davvero la differenza o combatto contro i mulini a vento? Scrivendo nella mia camera con lo stereo nelle orecchie, o traducendo pezzi, io cambio il mondo? Non lo so e, alla fine, non mi importa. Non importa nemmeno se i miei sforzi non avranno un porteranno ad un risultato immediato. Mi basta sapere che ho fatto quel che dovevo. Che sentivo di dover fare. “Scopri l’amore, e fallo conoscere al mondo”. Parole sante, parole di uno – Gandhi – che non era nemmeno cristiano. È per questo, per questo amore, che io sono io; è per questo che scrivo per Gionata. E la storia dell’attivismo? Lottare per qualcosa che mi sta a cuore, che è parte del mio cuore, è attivismo.
La testimonianza discreta e convinta di tutto questo mi rende un’attivista anche se non mi incateno a cancelli, non scendo in piazza, non urlo slogan. Io scrivo.