“Non posso tornare in Senegal, mi ucciderebbero”. L’odissea di Mamadou
Articolo di Christophe Martet pubblicato sul sito Yagg (Francia) il 2 novembre 2016, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Ho incontrato Mamadou durante una serata organizzata da Ardhis, un’associazione che si occupa di richiedenti asilo e coppie miste. Mamadou stesso è un richiedente asilo e mi spiega che vive per strada da molti mesi. Tra le centinaia di richiedenti asilo che bussano ogni anno alla porta del Centro LGBT ho scelto di raccontarvi la sua storia, quella di un giovane uomo coraggioso, sempre con il sorriso sulle labbra; una storia di omofobia, la storia della sua fuga per la sopravvivenza, poi della sua odissea attraverso l’Africa prima di arrivare a Parigi per chiedere la protezione della Francia.
Mamadou C. è nato nel 1990 a Tambacounda, nel sudest del Senegal, una città di circa 80.000 abitanti dal clima desertico. Parla la lingua wolof e, a causa dei suoi trascorsi errabondi, il suo francese è ancora zoppicante. Durante l’infanzia Mamadou ha vissuto da sua nonna poiché i genitori sono morti prima che compisse 5 anni. Il suo patrigno viveva in un altro quartiere con tre figli, due maschi e una femmina. Da adolescente amava giocare a basket e accompagnava spesso sua nonna al mercato per aiutarla a fare la spesa. A partire dai 12-13 anni Mamadou cominciò ad andare regolarmente con i suoi amici nella boscaglia. Lì i ragazzi si bagnavano nelle pozze formate dalle buche scavate dagli spalatori per avere sabbia da utilizzare nell’edilizia: “È lì che ho cominciato a fare l’amore con alcuni amici del quartiere. Ma a quell’epoca non conoscevamo l’omosessualità. Alcuni ragazzi non volevano e bisognava nascondersi per fare l’amore”. Spesso i suoi amici del quartiere gli chiedevano: “Come mai non hai una ragazza?”. Mamadou ci scherzava su e diceva di non essere pronto per le ragazze: “Le ragazze verranno poi. Soprattutto non bisogna dire che non te la fai con le ragazze, perché andrebbero in giro a dire che sei gay”.
Verso i 18 anni, nel 2008, Mamadou incontrò Djibril*, che descrive come più giovane e piccolo di lui, ma anche più muscoloso e con una pelle molto più scura. A volte si vedevano molto spesso, a volte meno perché il padre di Djibril gli chiedeva di lavorare con lui: “Io ero fedele ma penso che Djibril se la facesse con altri ragazzi”. Per Mamadou non è facile tradurre in francese i sentimenti che provava per Djibril. Credo di capire che, per loro, la cosa più importante fosse sentirsi complici. Spesso portavano con sé dei materassi per dormire all’addiaccio. Mamadou ricorda sorridendo quelle sere in cui le discussioni potevano durare ore ed ore. Sono rimasti assieme per quattro anni, fino al 2012.
Tutto precipitò nella primavera del 2012. Qualche volta Mamadou dormiva da Djibril. Un giorno il fratello di quest’ultimo, che di solito dormiva fuori casa, li sorprese nello stesso letto e si mise a gridare: “Ah, ecco cosa fate ora!”. Prosegue Mamadou: “Uscii dalla finestra con addosso solamente dei pantaloncini. Andato in un altro quartiere a trovare un amico. Gli dissi di essere stato nella boscaglia e che i miei vestiti erano fradici di pioggia; gli chiesi di passarmi un paio di pantaloni e una maglietta. Poi tornai a casa di mia nonna per cercare delle cose mie ma, avvicinandomi alla casa, sentii della gente parlare di me. Me ne andai ma incrociai mio zio che passava in bici. Mi acciuffò per picchiarmi, poi arrivarono anche i miei due fratelli e cominciò la rissa”. Mamadou riuscì a fuggire: “Mi misi a correre, correre, correre, poi a camminare fino a un altro quartiere, dove sapevo che non potevano trovarmi”. In quel quartiere incontrò un gruppo di Baye Fall, dei musulmani che vivono principalmente di carità andando a suonare nelle case. Mamadou spiegò loro che non aveva nulla da mangiare e costoro lo aiutarono per qualche giorno. Poi però decise di abbandonare il Senegal: “Se ritorno nel mio quartiere so già che qualcuno mi ucciderà”.
Mamadou camminò fino a un posto di blocco fuori Tambacounda: “Patteggiai con un camionista, al quale dissi che vivevo a Bamako, in Mali. Mi disse che andava a Kayes”. Kayes si trova a 280 chilometri da Tambacounda, lungo la grande strada nazionale che attraversa il Senegal da ovest a est per poi dirigersi verso Bamako. Mamadou non voleva rimanere in Mali, che nel 2012 era in una situazione di grande instabilità a causa dei combattimenti che infuriavano tra l’esercito regolare e i gruppi ribelli. Nel marzo 2012 ha avuto luogo un colpo di stato e la regione di Azawad, nel nord del Mali, ha dichiarato l’indipendenza gettando il Paese in una crisi senza precedenti.
A Kayes il camionista gli trovò un passaggio per Bamako, dove rimase due settimane: “Cominciai con il cercare un posto dove stare. Dicevo alla gente di essere un imbianchino ma molti avevano paura. Chiedevo da mangiare, ma era dura”. Mamadou temeva molto per la sua sicurezza. Parlava la lingua bambara e sapeva farsi capire. Si recò negli uffici di una compagnia di autobus e partì per Agadez, in Niger. Il viaggio durò diversi giorni ma, una volta arrivato in Niger, Mamadou non smise di vivere nell’insicurezza. Ovviamente non conosceva nessuno. Gli venne proposto di incontrare un senegalese: “Mi dava da mangiare, sono rimasto da lui circa un mese, durante il quale ho lavorato con uno dei suoi figli”. Poi Mamadou dovette andarsene dal Paese, ma non poteva andare in Ciad, giudicato ancora più pericoloso, e neppure in Nigeria, che è un Paese anglofono. Partì dunque per la Libia, nascosto in un camion con altre decine di persone. Ben presto la polvere li ricoprì, la notte faceva molto freddo. Secondo lui, il viaggio durò tre giorni, fino a Qatrun, un paese di 4.500 abitanti in pieno deserto del Sahara, un posto di blocco per gli stranieri che entrano in Libia. Rimasto senza denaro, Mamadou era bloccato nel bel mezzo del deserto. Veniva regolarmente picchiato e porta ancora sul cranio i segni dei colpi: “Non facevano altro che menarci”. I suoi carcerieri volevano che contattasse la famiglia perché inviasse del denaro ma era impossibile per Mamadou. I prigionieri (gambiani, nigeriani, somali) mangiavano mezzogiorno e sera della pasta e del pane e bevevano un po’ di Coca. Molto in fretta Mamadou dimagrì e divenne molto stanco. La cella era grande meno di 20×2, i prigionieri erano ammucchiati gli uni sugli altri. Non c’erano docce. Talvolta uno di loro tentava di fuggire. Mamadou afferma di avere visto i carcerieri sparare sui fuggitivi a distanza molto ravvicinata: “Non avevo mai visto una cosa simile”. Imita il gesto e il suono della detonazione, poi la voce si spezza, il ricordo è ancora vivo e insopportabile.
Mamadou crede di essere rimasto circa un anno a Qatrun, bloccato in quel buco sperduto, senza denaro e senza contatti. Un giorno un uomo arrivò alla prigione e chiese se c’era qualche imbianchino. Mamadou alzò la mano e venne portato nella casa dell’uomo per lavorare. Non veniva pagato ma, dopo due mesi, il suo “padrone” lo mise in contatto con un uomo che lo portò a Tripoli, la capitale della Libia. Qui incontrò un compatriota, che gli propose una traversata gratuita se avesse trovato quattro passeggeri paganti. La destinazione? L’isola italiana di Lampedusa: “Non era cosa buona restare in Libia. Ti prendono tutto, i soldi, il telefono. Non potevo restare lì”. Secondo Mamadou, quasi cento persone si erano ammassate su quell’imbarcazione di fortuna, un gommone gonfiabile di circa 30×2. C’erano molti somali, gambiani, maliani, e assieme a loro tre donne. La traversata durò tre giorni.
Finito a Trapani, in Sicilia, Mamadou venne portato in un campo di via Tunisi. Gli chiedo di mostrarmelo su Google Earth: “Non avevo famiglia, non avevo amici, ero bloccato nel campo. Ero talmente stanco da avere paura di tutto”. Sulla spiaggia di Trapani, non lontano dal campo, un giorno Mamadou incontrò G., un italiano di circa 60 anni. Si vedevano spesso e Mamadou dormiva regolarmente da lui: “Ma non avevo un lavoro e mi sentivo inutile. Sapevo bene che, a un certo punto, G. avrebbe voluto essere solo. Non era una bella situazione per me”. Oltretutto, alcuni ospiti del campo cominciarono a dire che Mamadou era certamente gay. Chiese asilo politico in Italia ma crede che, a causa della stanchezza, non abbia saputo perorare la sua causa: la richiesta venne rigettata e così il ricorso.
Mamadou lasciò Trapani a fine settembre 2015 e arrivò a Parigi, alla Gare de Lyon, all’inizio di ottobre. Si mise a chiedere in giro dove poteva andare a dormire e incontrò un maliano che lo portò in avenue Jean-Jaurès: “Lì ho dormito la prima notte e il mese e mezzo successivo”. Poi incontrò un senegalese che lo segnalò al 115 [numero d’emergenza per chi è senza alloggio, n.d.t.]: “Dormivo in una residenza ma bisogna chiamare il mattino molto presto, alle 5, per la notte seguente. A volte mi svegliavo più tardi, verso le 7, chiamavo ma spesso non riuscivo. Talvolta dormivo fuori. Questo è durato circa quattro mesi”. Solamente il 2 marzo 2016 la sua domanda d’asilo viene registrata alla prefettura di Parigi. A partire da aprile, Mamadou percepisce l’indennità di richiedente asilo: per una persona sola consiste in 6,80 euro al giorno, ai quali si aggiungono 4,20 euro se non viene proposta nessuna soluzione abitativa. Poco più di 330 euro per l’alloggio, il cibo e il vestiario. In primavera Mamadou, per dormire, ha utilizzato un alloggio vicino all’ospedale di Nanterre, dove pagava 100 euro al mese: “Ma poco tempo dopo me ne sono dovuto andare perché alcuni dei residenti cominciavano a parlare di me e dicevano che ero ‘gordjiguene’, che significa ‘gay’ in lingua wolof”.
Mamadou viene ricevuto all’Opfra il 27 luglio di quest’anno. L’Ufficio Francese di Protezione dei Rifugiati e degli Apolidi gli chiede di raccontare la sua storia così come l’aveva redatta alcune settimane prima con l’aiuto di France Terre d’Asile. Raccontando la sua storia a Médecins du monde apprende l’esistenza dell’Ardhis, ma con gli accompagnatori dell’Ardhis non ha avuto molto tempo per preparare la sua relazione. Durante il colloquio con l’Ofpra Mamadou è assistito da un traduttore senegalese, di cui ha paura perché teme che lo denunci. Ma la paura è infondata perché i traduttori sono tenuti al segreto. La sua domanda è rigettata perché il suo racconto non è giudicato credibile, ma Mamadou deposita un ricorso presso la Corte Nazionale del Diritto d’Asilo. Ora siamo a fine ottobre e non sa quando avrà luogo il nuovo colloquio. Questa estate ha dormito a Belleville, mangia presso le Piccole Sorelle dei Poveri a Parmentier o alla Villette: “La strada è pericolosa, non ci dormo bene. Ci sono le macchine, i camion. A Jaurès mi ruberebbero il telefono”.
Mamadou ha un’unica speranza, quella di poter rimanere in Francia: “Non posso tornare in Senegal. Il padre di Djibril è molto religioso e i suoi fratelli mi ucciderebbero. Penso spesso a Djibril ma adesso ho voglia di di dimenticare tutto, di lasciarmi tutto alle spalle. Aspetto che mi diano i documenti per rimanere qui definitivamente. È l’unica cosa a cui penso quando mi sveglio”. Negli ultimi anni in Senegal sono state condotte delle campagne omofobiche a mezzo stampa e ci sono stati degli arresti di omosessuali. Dal giorno della sua fuga Mamadou non ha avuto più notizie di Djibril.
* Il nome è stato cambiato.
Testo originale: Mamadou: «Je ne peux pas retourner au Sénégal, on me tuerait!»