“Non si accende una lampada per metterla sotto il moggio”. L’amore è stata la mia luce
Testimonianza di F. letta all’incontro del Percorso Giovani NP “Essere sale della terra: i giovani cristiani LGBT si raccontano” del 18 marzo 2015
Per tutta l’adolescenza mi sono sentito una lampada spenta, incapace di illuminare. Sapevo di avere una lampadina, il filo, la presa. Ma non scorreva corrente e io non mi accendevo. Non riuscivo a capire perché. Spesso mi ritrovavo a scrivere sui miei diari che qualcosa non quadrava nella mia persona; avvertivo un vuoto e non ero grado di colmarlo. Non volevo interrogarmi più nel profondo, non volevo capire. Intanto desideravo e mi impegnavo nell’amore. Ho anche creduto di essere innamorato di qualche ragazza, ma a piacermi era l’idea di una relazione, non il viverla nel concreto. Amavo un’idea, non una persona; creavo aspettative e si sa, quando ci si illude la realtà non può che deludere. Le esperienze fisiche, i baci con queste ragazze erano così insipidi, banali, a tratti vuoti. Niente a che vedere con l’amore, quel sentimento intenso di cui tanto leggevo nei libri, quell’esperienza totalizzante che immaginavo e desideravo.
In quel periodo si può dire che fossi un cattolico modello. L’idea di infrangere il sesto comandamento – “non commettere atti impuri” – non mi sfiorava nemmeno e, anzi, ricordo lo stupore nell’osservare quanto fosse difficile per i miei amici astenersi dalla fisicità… a me riusciva così facile non volere più di un abbraccio o un tenero bacio da una ragazza! Eppure non riuscivo proprio a fare 2 + 2…!
Mi ero ormai rassegnato all’idea di non poter provare emozioni forti, di essere un pezzo di ghiaccio, una lucerna rotta, incapace di fare luce. E proprio quando mi ero dato per vinto ho incontrato un ragazzo. Dal primo momento in cui l’ho visto non ho potuto non notare quanto tutto fosse diverso. Era diverso il modo in cui lo osservavo, la prepotenza con cui si imponeva nei miei pensieri, il desiderio, la necessità che avevo di rivederlo. E quando lo rivedevo era così strano, e allo stesso tempo naturale, che cercassi il più futile motivo per sfiorargli la mano, per abbracciarlo, per sentirlo vicino. Volevo essergli vicino, tanto vicino da azzerare i confini, da fonderci e divenire un’unica entità. Quel ragazzo mi ha dato la scossa, ha permesso alla corrente di fluire. E finalmente mi sono acceso. E quando passavamo del tempo insieme brillavamo. E quel vuoto che mi aveva ossessionato per tanti anni era pieno di lui. L’uno per l’altro abbiamo lasciato che l’omosessualità, fino ad allora relegata ad un buio antro della psiche, affiorasse alla coscienza.
Ci siamo sentiti vivi, luce l’uno dell’altro, ed è stato terribile. Perché finalmente avevo capito come fare luce, ma sentivo che quel modo di brillare non poteva che essere sbagliato. Se fino ad allora non avevo mai razionalizzato di essere omosessuale e non ero mai stato in grado di fare luce, avevo una certezza, che ci fosse una luce che non avrebbe mai smesso di illuminarmi, la fede in Dio Padre. Ed è stato un dramma, perché se fino ad allora rimanere nel perimetro delle regole del cattolicesimo non era stato affatto difficile, dal momento in cui quel ragazzo è entrato nella mia vita tutto è cambiato.
Leggevo nel catechismo della chiesa cattolica “gli atti omosessuali sono intrinsecamente disordinati contrari alla legge naturale”, mi sentivo un errore, un difetto di produzione. Mi chiedevo come fosse possibile che un qualcosa che era in grado di rendermi pienamente felice, appagato, realizzato, fosse altrettanto sbagliato. A lungo mi sono interrogato se seguire il consiglio di alcuni sacerdoti e della mia migliore amica cattolica; avrei dovuto, secondo loro, riconoscere e accettare la mia condizione ma non esprimerla a pieno, non viverla, astenermi in altre parole. Ero conscio che una scelta simile mi avrebbe fatto soffrire all’inizio, ma forse con gli anni avrei raggiunto quella tranquillità che solo il dominio di sé può dare, la serenità della rassegnazione.
Dio era diventato un tiranno ai miei occhi, un essere che impone regole immotivate, che sottopone i suoi figli a sofferenze prive di senso. Paragonavo la mia omosessualità ad una patologia, ad un male che mi era capitato, ad una croce che non potevo far altro che sopportare. Intanto ho vissuto le mie prime esperienze fisiche e ho scelto di non viverle con quel ragazzo che mi aveva fatto brillare, ma con meri sconosciuti. E c’era una ragione ben precisa in questo: dei rapporti occasionali in discoteca ero in grado di pentirmi, perché riconoscevo come sbagliato per me, vuoto, inutile e doloroso degradare il mio corpo e quello dell’altro ad oggetto. Non riuscivo invece a trovare nulla di sbagliato nell’amore che provavo per quel ragazzo, nella tenerezza del fissarsi negli occhi e sorridere con l’anima. Eppure, per la fiducia che avevo nel dogma ecclesiastico, pensavo di dovermene pentire. E allo stesso tempo non ci riuscivo: ero diviso tra l’amore ed il senso di colpa per non essere riuscito a pentirmi di quell’amore sbagliato.
Quando abbiamo provato a stare insieme non sono stato bene: il senso di colpa ha avuto la meglio e ho deliberatamente voluto chiudere ogni possibilità di costruire un futuro insieme. Ed ora continuo a vivere la superficialità, a soffrire nel vedere come lui sia riuscito ad andare avanti senza di me mentre io sia sempre qui, fermo nelle mie paure. Piano piano però qualche passo avanti l’ho fatto.
Sto entrando nell’ottica che Dio mi ama proprio per quello che sono e che non c’è niente di sbagliato nel fatto che sia stato un ragazzo ad avermi illuminato. Grazie ai miei amici del gruppo sto riuscendo a fare quel doveroso salto da una religiosità immatura e imposta ad una fede scelta e sentita.
Sto imparando a capire che essere cattolico non significa vivere in un campo minato di regole, nel terrore di saltare in aria al minimo passo falso. Come mi ricorda sempre Edoardo, che non poche volte ha dovuto sopportare i miei insensati flussi di coscienza, il nostro Dio amore ed il comandamento più importante “Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente” e “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Grazie al supporto dei miei amici sto imparando a volermi bene per quello che sono. Magari non ci sono ancora riuscito, ma per lo meno dalla rassegnazione sono passato non solo alla speranza, ma alla certezza che prima o poi ci riuscirò.