Non sono gay, sono una checca. Dove è il problema?
Testimonianza di Julián Salamanca pubblicata sul sito Sentiido (Colombia) il 18 gennaio 2016, liberamente tradotto da Federica Ottaviano, parte seconda
Coming out alla nascita. Julián ha avuto la fortuna di trovarsi in una famiglia che non lo ha mai ostacolato, e che non gli ha mai impedito di vestirsi come voleva: “Tutto ciò aiuta, anche se il processo interiore è pieno di alti e bassi. La cosa bella è non ho mai dovuto fare coming out: mia mamma ha sempre saputo che mi piacciono gli uomini”.
Molto spesso le madri si preoccupano perché non sanno che succede ai loro figli quando li notano diversi rispetto agli altri bambini della loro età. Alcune volte, per esempio, la mamma di Julián gli ha chiesto perché si traveste: “È ovvio cosa può pensare: beh, va bene gay, ma pure travestito no”.
Anche se Julián ha sempre creduto di non dover dare spiegazioni a nessuno sulla sua identità, né sulla sua espressione di genere, un giorno ha deciso di parlarne con la sua famiglia, ed è stato tutto più facile: “L’ho fatto perché sentivo che il messaggio era questo: ‘Ti rispettiamo per ciò che sei, ma non parliamone’, e a volte questo atteggiamento mortifica ancora di più”.
Ha chiarito quindi i loro dubbi e ha detto: “In questo momento non voglio essere quello che tradizionalmente vuol dire essere donna. Se prima o poi sentirò la necessità di intraprendere un percorso di transizione, ve lo dirò, ma non credo che mettermi due protesi al seno mi renda donna”.
Una delle attività preferite da Julián è lo shopping. Adora i vestiti, e più appariscenti sono, meglio è. Di solito si dirige al reparto donna, sceglie un paio di pantaloni e va a chiedere al commesso se c’è la taglia 48. La risposta è immediata: “Quei pantaloni sono da donna”, e così Julián risponde: “Io ho chiesto solo se c’è la 48”.
Quando glieli portano, va a provarli nel camerino e poi esce per mostrare al commesso come gli stanno, e chiede pure la sua opinione al riguardo. Adora vedere la loro faccia sconvolta, che pare dire “Ma davvero questo ragazzo vuole comprare dei pantaloni da donna?”, perché crede che questa sensazione di fastidio sia un modo per educare ad altre realtà e altri modi di vivere: “Mi piace pensare che sia una sorta di pedagogia sfoggiare il mio look a una persona della vecchia generazione. Mi piace il disagio che certa gente avverte in mia presenza, perché anche se provano fastidio, almeno arrivano a casa pensando: ‘Oggi ho visto un uomo sui tacchi’, apprendendo l’esistenza di altre realtà e altri modi di vivere”.
Gli sembra che il messaggio diventi più efficace in questo modo, rispetto a quando partecipa ad una manifestazione LBGT: “Secondo me è più coraggioso uscire un giorno qualsiasi vestito come più mi piace, rispetto a partecipare ad una sfilata gridando ‘Rispettate i miei diritti’. Nella pratica, il messaggio è più diretto”.
Educazione: la chiave
Julián è convinto che l’educazione sia il modo più efficace per lottare contro la discriminazione, e lo dice per esperienza: ha studiato in una scuola frequentata da ragazzi e ragazze, e ricorda che i bambini gli fischiavano dietro e lo chiamavano “frocio”.
“Passavo tutto il tempo con le bambine, giocavo pure a calcio con loro. Ora, quando capita di incontrare dei compagni di scuola e mi vedono, mi dicono ‘Ce lo aspettavamo.'” Si ricorda, ad esempio, di una lezione di educazione fisica a cui dovevano partecipare solamente i ragazzi, ed era terrorizzato all’idea di dover correre davanti a tutti, perché gli avrebbero detto che correva come una femminuccia.
Invece, arrivato all’ultimo anno di scuola, Julián era diventato la star dell’istituto: “Molta gente mi cercava perché gli piaceva l’idea di avere per amico l’omosessuale della scuola”. Nonostante questo, gli attacchi sono continuati, e molte volte si arrabbiava con se stesso perché gli piacevano gli uomini: “Mi ricordo della paura che ho provato quando abbiamo dovuto svolgere l’esame dell’esercito: camminavo, e ad ogni passo mi fischiavano dietro. Mi dicevo ‘Devo essere forte e resistere’, ma è stato un incubo”.
Anche se ora gli piacciono le occhiate che attira quando cammina per strada, ancora subisce delle violenze. Molte volte va vestito con tacchi e rossetto all’università, e percepisce le occhiatacce di disgusto, seguiti da “Ma chi è questo?”.
“Quando cammino con mia mamma accanto avverto sguardi aggressivi su di me; a lei fanno male, perché crede che da un momento all’altro mi possano aggredire, ma per me è tutto il contrario: mi rendono più forte, e mi piace essere guardato.”
Infatti, Julián risponde con un bacio, un sorriso o dicendo “Non sono frocio, sono frocissimo”; “Non so dove ho trovato la forza per essere quello che sono in una società come questa, ma ho cercato di ribaltare il significato degli insulti, identificandomi in essi”.
Tempo fa lesse un articolo dove una persona contestava il fatto che le persone LGBT si chiamassero tra loro “checche” e pretendessero pari diritti: “E perché no? Ognuno dovrebbe poter chiamarsi come vuole, e godere comunque degli stessi diritti”.
Non è uno show, è una questione di identità
A Julián dà fastidio che in molti posti le persone trans siano visti come dei fenomeni da baraccone. Le donne trans vengono giudicate solamente in base ai loro genitali: se hanno il pene o meno: “Vivremmo più felici se capissimo, una volta per tutte, che non sono i genitali a fare di un uomo un uomo e di una donna una donna, che uomo non è sinonimo di virilità, e donna non è sinonimo di femminilità”.
In qualità di studente universitario, Julián è a capo della comunicazione e dello spazio riservato alle donne trans nella ONG Parces, creata tre anni fa. Attraverso indagini e varie attività, Parces promuove il diritto della costruzione dell’identità come ognuno la desidera, in qualsiasi parte della città e non solamente nelle zone friendly.
Il suo lavoro in questa ONG lo ha spinto a costruire se stesso in totale libertà: “Io posso andare con un vestitino e la barba per il quartiere di Santa Fe, dove si trova la sede dell’organizzazione, e tutti mi rispettano, nessuno osa dirmi niente. Ma appena esco da quel quartiere, dove tutti camminano impauriti perché c’è prostituzione e spaccio di droga, mi ritrovo in mezzo agli insulti al grido di ’Gli si vedono le palle!’”.
A Julián non piace essere chiamato attivista, perché ritiene che, almeno a Bogotà, vengano chiamati così coloro che si vantano di avere un ruolo da protagonista all’interno del movimento LGBT: “C’è molta competizione per chi ha più risalto. In Parces c’è unione, e l’unione fa la forza. Qui non è importante chi ha fatto cosa, ma i risultati che raggiungiamo”.
Testo originale: “No soy marica, soy mariconcísimo”