“Non temere” (Matteo, 1, 18-24)
Riflessioni di Massimo de Il ramo del Mandorlo, gruppo di cristiani LGBT+ di Roma
Se per secoli il padre ha rappresentato un modello di credibilità sociale in cui il figlio potesse rispecchiarsi, con Giuseppe siamo messi di fronte all’invenzione della paternità che si struttura a partire dal figlio.
Giunti alla quarta domenica di Avvento, la liturgia annuncia l’incarnazione, stavolta attraverso le vicissitudini di Giuseppe che, promesso sposo di Maria, si trova a reinventare il ruolo di padre terreno di Gesù, per permetterne la nascita legale.
Gesù entra nella storia attraverso un uomo e una donna, ma lo fa estendendo le categorie di genitorialità che, senza alcuna implicazione ideologica, metterà di fatto tanto Maria quanto Giuseppe di fronte al fatto di dover reinventare la propria maternità e paternità.
Come Adamo nella Genesi, anche Giuseppe è avvolto dal sonno. Da Adamo, ISH, nascerà Eva, ISHÀ, da Giuseppe nascerà una nuova forma di paternità, reinventata a partire dal figlio. L’ebraico non conosce il termine “genitori”, padre e madre non sono federati da un progetto che li metta in comunione, come nel caso della famiglia di Nazareth, ma solo da funzioni legali (padre) e procreative (madre).
L’idea pertanto di un setting familiare in cui conti la ripartizione dei ruoli è un’acquisizione sociale molto recente, a cui si è associata una nozione di benessere e di stabilità, oggi totalmente crollata, o comunque ridefinita dalle undici formule di famiglie ricomposte, di cui quella tradizionale è solo un modello che l’Occidente ha congedato ormai da almeno trent’anni.
Perché? Perché dai genitori si deve partire prima o poi, e questo spazio di libertà sono il padre e la madre a doverlo permettere. Giuseppe questo lo scopre piano piano.
Dicevamo: destatosi dal sonno Giuseppe si risveglia, guardando la sua paternità alla luce del figlio che nascerà, iniziando a conoscere il figlio, vedendolo insegnare a dodici anni nella sinagoga, vedendolo rovesciare i tavoli dei cambiavalute.
Poche informazioni si sanno di lui. Troneggia il fatto che Giuseppe sia “giusto”, ed è evidente che molto presto esce di scena, senza far rumore.
Il Vangelo, allora, sembra stilizzare un percorso in cui, altro che buoni sentimenti da Vangelo al miele, qui c’è il sale che brucia sulle decisioni di un uomo turbato per la sua vita potenzialmente saltata in aria. Promesso sposo, futuro marito di una donna già incinta, e non di lui. Un padre che, invece di offrirsi quale modello di credibilità sociale in cui il figlio possa identificarsi, ed andarne fiero, i Vangeli riducono quasi al silenzio per mettere in luce la vera forma di paternità, che accompagna e poi lascia andare.
Il terremoto che ogni paternità vive. Quella di accorgersi che è il figlio a plasmare il padre, e non il contrario.
Come sostiene papa Benedetto XVI “La dottrina della divinità di Gesù non verrebbe minimamente messa in discussione anche se Egli fosse nato da un matrimonio ordinario.
Questa apertura ci consente allora di contemplare Giuseppe, non in quanto funzionale ad assicurare la divinità di Gesù, bensì di quanto lui, con il suo operato di padre, abbia accompagnato suo figlio affinché diventasse la missione che il suo nome Joshua significa. Da Gesù “Dio salva” a “Il Salvatore”.
Giuseppe, allora, è chiamato in causa sia per inserire Gesù nel ceppo dinastico di Davide, sia per insegnarci ad esercitare saggiamente le nostre forme di paternità.
Buona domenica