«Non ti lascerò andare, se prima non mi avrai benedetto». Essere e dare una benedizione
Testo di Siegfried Modenbach tratto dal suo saggio “Wer mit Segen sät, wird mit Segen ernten. Segensfeiern für Liebende” (“Chi semina nella benedizione, raccoglierà nella benedizione. Celebrazioni di benedizione per persone che si amano”), editore Paderborn Bonifatius, 2020, pp. 19-23, liberamente tradotto da Antonio De Caro.
I gesti e le parole della benedizione attraversano costantemente l’Antico e il Nuovo Testamento. Essi hanno lo scopo di porre i diversi momenti dell’esistenza umana in relazione con Dio. «Per persone, che si trovano in situazioni difficili, che hanno di fronte a sé un futuro incerto o vivono insicure, una benedizione può significare: anche ciò che avverrà e sta sotto la benedizione, la cura e l’amore di Dio» (p. 19). Il segno dell’imposizione delle mani significa: tu sei toccato, protetto e accompagnato da Dio; lui ti è vicino. Ciò produce abbandono fiducioso, benessere e consolazione.
Non si tratta di magia, per il fatto che la venuta del Figlio come uomo tra gli uomini ha trasformato la comunicazione con Dio in relazione personale con Lui.
In Genesi 32,23-33 Giacobbe deve guadare un fiume, che rappresenta la separazione e la divisione nelle relazioni interpersonali. Il torrente Yabbok, infatti, separa e divide le montagne, due paesi, la famiglia, due fratelli. Da venti anni la separazione non può essere superata e le ferite non possono essere sanate.
Ma Giacobbe ha preso la decisione di guadare il fiume per ritornare e riconciliarsi con suo fratello Esaù, anche se ha paura della sua reazione ostile.
Nella notte, Giacobbe è solo, al centro di una vita ancora divisa e senza riconciliazione. Ma improvvisamente non è più solo: dal nulla, dal buio della notte compare un uomo che inizia a lottare con lui. Giacobbe accetta la sfida, che richiede tutte le sue forze. Quanto sarà forte la sua volontà? Potrà resistere? Potrà trovare la giusta concentrazione per avere la meglio al momento opportuno? Deve accettare di restare lì, in una vicinanza all’avversario che diventa sempre più intensa e intima.
Deve essere stata una lotta lunga e sfiancante, ma ormai arriva il mattino. Lo sconosciuto vorrebbe allontanarsi da Giacobbe. I due si guardano negli occhi. Ma Giacobbe rifiuta di lasciarlo andare, se prima l’uomo -il messaggero di Dio- non lo avrà benedetto. Giacobbe vuole essere benedetto con tutto ciò che lo rende quello che è, con tutta la storia della sua vita, con tutto quello che gli appartiene e lo identifica. È così che vuole essere benedetto da Dio. È per lui una questione molto seria, e Dio non può voltare le spalle.
Quanta forza, quanta energia in questa storia. Quanto desiderio di bene, quanto bisogno di guarigione ci sono in questo scontro sullo Yabbok, il fiume della separazione e dell’inquietudine. È possibile vivere questa vicinanza intensa solo se tutti e due partecipano all’incontro. Giacobbe non è un esempio di virtù, ma proprio per questo indica una direzione e ispira il coraggio di pretendere la vicinanza di Dio e di combattere per ottenerne la benedizione. È una cosa possibile, è una cosa giusta? Solo Dio può decidere se e a chi concedere la sua benedizione. Una creatura umana può forse lottare con Dio per sconfiggerlo e per strappargli la benedizione? Ma Giacobbe lo fa: «non ti lascerò andare, se prima non mi avrai benedetto».
Non pochi esseri umani desiderano lo stesso. Anche loro lottano, nel più vero senso della parola, per ottenere la benedizione. Negli occhi di molti gerarchi religiosi sono nel peccato, esclusi dalla Grazia di Dio e della sua Chiesa, e vivono una vita incompatibile con la morale della Chiesa. In nessun caso possono essere approvati. Eppure osano invocare una benedizione perché aspirano alla pienezza della vita.
Come Giacobbe sono spesso soli e isolati, nella notte, al fiume, in mezzo alle fratture e alle insensatezze della loro vita, in mezzo all’emarginazione, alla separazione e alla divisione. Ma cercano il bene e la guarigione, sperano nella benedizione di Dio e in una vita serena. E lottano perché le loro ferite siano risanate, con tanta più forza, quanto più per anni sono stati preda di delusione e torti. Il loro desiderio di benedizione è forte almeno tanto quanto si sentono vittime di una maledizione.
«Non ti lascerò andare, se prima non mi avrai benedetto». Siamo capaci, abbiamo il permesso di lottare per la benedizione? Sì, e dobbiamo farlo. Lo facciamo in realtà per tutta la vita. Che cos’altro è la vita, altrimenti, se non desiderare e cercare di ottenere il bene e la salvezza? E così ci sono molte persone che -come Giacobbe- lottano “con l’uomo”: con Dio, che può e vuole donare vita e benedizione. E lottano con la Chiesa che nega e sottrae loro la benedizione, o può scegliere di diventare benedizione per loro.
La sorpresa è proprio questa: Giacobbe non solo sa che può lottare per essere benedetto, ma ci riesce pure. Anche se la lotta per la benedizione lascia su di lui una traccia, una menomazione fisica che lo costringe a zoppicare. Non per questo si fermerà. Un uomo menomato e benedetto, con un nuovo nome, colui che combatte con Dio. Il mattino sorge dopo venti anni di esilio e separazione. Il desiderio di riconciliazione è la sua forza. «Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero» (Gn 33,4).
Sì, esistono persone che lottano per la benedizione, anche se sono colpite e ferite. Vengono benedette e donano, a loro volta, benedizione.
* Siegfried Modenbach è un sacerdote tedesco nato nel 1962. Pedagogo e teologo è stato responsabile del Forum Cattolico di Dortmund dal 2007 al 2019, dal 2019 è responsabile del centro spirituale sul Kohlhagen (Südsauerland).