Oltre il nascondimento. Storie di religiose lesbiche e queer “nella giustizia e nella tenerezza”
Dialogo di Katya Parente con Laura Scarmoncin e Cristina Simonelli
Nostre ospiti di oggi sono due voci note ai lettori di Gionata. Parlo di Laura Scarmoncin e Cristina Simonelli, qui oggi in veste di curatrici e traduttrici del libro “Nella giustizia e nella tenerezza” (Effatà editrice, 2022, 272 pagine) di cui abbiamo già scritto in diverse occasioni. Si tratta di un’opera piuttosto recente (è uscita quest’anno per i tipi dell’editore Effatà) e relativamente nuova per il panorama italiano.
Perché proporre un libro come “Nella giustizia e nella tenerezza” al pubblico italiano?
LAURA: Questo è un libro che ha molte valenze, come dice bene Cristina Simonelli nell’introduzione all’edizione italiana. Per me la più importante è l’invito a incrinare la “cultura del silenzio” rispetto all’omo/sessualità, che ancora permea molti nostri ambiti ecclesiali, sollecitando un dibattito esplicito ormai urgente e ineludibile. In italiano sono già stati pubblicati molti libri importanti in questa direzione, soprattutto negli ultimi due-tre anni (penso a Fumagalli, Moia, Marzano, Scaramuzzi, Petrà, Grillo eccetera), ma questo testo ha una sua cruciale specificità: sono storie personali, intime, dove il dato esperienziale soppianta quello teorico (che, certo, è pure necessario), e fa immergere nel tessuto dei vissuti, dando spazio a una presa di parola in prima persona, una parola che sotto i pontificati precedenti a quello di Francesco la Chiesa ha sempre voluto zittire, anche con metodi vessatori e persecutori.
In tal senso è un libro non solo audace, ma anche veritiero e autentico, e proprio per questo, credo, capace di aprire molteplici spiragli: far sentire meno sola/solo e incoraggiare chi ancora vive nel nascondimento e nella paura all’interno della Chiesa, e invitare a una riflessione non solo “intellettualistica” e distaccata, ma umana, incarnata, “sporca di realtà”, come direbbe Adriana Zarri, rispetto a simili esperienze.
Penso che quando la verità della vita erompe in questo modo, con una parola che affiora dalla profondità e dall’autenticità del vissuto, ciò spalanchi orizzonti di comprensione e dialogo davvero fecondi. È quello che fa questo libro.
CRISTINA: L’idea della traduzione, per quanto mi riguarda, è nata da un intreccio di situazioni e di esperienze: prima di tutto da un incontro online promosso da Donne per la Chiesa nel 2020, che presentava “Love tenderly“ (il titolo originale del libro, n.d.a.), con la presenza delle curatrici. La profondità, l’affabilità e la determinazione che hanno mostrato “a schermo” mi ha veramente affascinato.
La lettura del libro ha confermato la prima impressione: non sono esperta come Laura Scarmoncin, mi colloco in un mondo di studi teologici e di pratiche religiose, e questo libro rispondeva all’una e all’altra cosa, portando in parola l’esperienza di donne lesbiche, una riflessione sulla fede, un largo spettro di questioni relative alla vita consacrata (cioè, delle suore e delle monache) – dal significato dei voti, all’affettività, all’impegno nella giustizia.
La sua forma narrativa e autobiografica non banalizza la riflessione, anzi la esalta. Per questi motivi l’ho utilizzato, a partire dalla versione inglese, in diverse occasioni: in un mio intervento nel Corso sulla Pastorale con le persone omosessuali (secondo modulo 2021), organizzato a Bologna da Pino Piva, ma anche in altri interventi di tipo teologico o pastorale generale.
Da qui è nata la proposta, accolta da Effatà, della Collana Sui generis, che è curata dal Coordinamento delle Teologhe Italiane, di cui sono parte dal 2003, anno della sua fondazione. Negli ultimi dieci anni una serie di circostanze fortunate ha reso sempre più stabile e fedele la mia alleanza LGBT, e in varie occasioni ho notato che, come in altri ambiti sia politici che ecclesiastici, c’è una presenza a maggioranza maschile.
Questo libro – come Cento punti di lesbicità di Anna Segre, o le molte pubblicazioni di Daniela Danna e le traduzioni di Jeanette Winterson, che è un’autrice che adoro – ristabilisce una diversa proporzione, nella giustizia e nella tenerezza. Inoltre si affacciava il Sinodo della Chiesa Cattolica: questo libro entra anche in questo momento ecclesiale importante, che si dichiara aperto a tutte le voci.
Perché non farne un’edizione italiana?
LAURA: In realtà esiste un progetto editoriale italiano simile, il libro “Amori consacrati. Testimonianze di suore, frati e preti omosessuali in Italia”, curato da don Franco Barbero e pubblicato nel 2019 da Gabrielli. È un segno importante, e sono certa che l’aggiungersi dell’edizione italiana di “Nella giustizia e nella tenerezza” aprirà anche da noi spazi di ulteriore presa di parola in tal senso.
Ma non dobbiamo dimenticare che fare coming out – nel mondo “mondano”, e ancor di più nella Chiesa – può avere tuttora un prezzo molto alto, ed è comprensibile che le persone LGBTQ+ non sempre siano disposte a pagarlo. Molte suore, nel libro, raccontano della paura di venir estromesse dalle loro comunità religiose a causa del disvelamento del proprio lesbismo, e questa è una testimonianza importante, che non dobbiamo liquidare come mera vigliaccheria, ipocrita volontà di nascondimento o scelta disonesta di una “doppia vita”.
Come dicevo, e come dimostra il libro, non si tratta di questioni astratte, teoriche, ma di vita vera e concreta, e la Chiesa non è ancora uno spazio sicuro perché si possa vivere in piena luce la propria omosessualità senza subire ripercussioni anche gravi. Però sono fiduciosa: il dibattito è aperto, in tutto il mondo le persone LGBTQ+ cominciano a prendere parola anche nei contesti ecclesiali, e le voci alleate (di cui abbiamo un infinito bisogno) sono sempre più supportive e sonore. È un’onda che si espande, e libri come questi – a cui spero seguiranno molti altri – la fanno montare.
CRISTINA: Aggiungo che, come si può leggere fin dalle pagine iniziali di suor Jeannine Gramick e suor Grace Surdovel, un libro così ha richiesto anni di lavoro, di scambi, di contatti. Non si improvvisa, nasce nelle pratiche, nelle reti, nelle alleanze, e ne genera altre, e ci è sembrato che valesse la pena dare visibilità a quelle che emergono da queste amiche d’Oltreoceano, che parlano però di cose che sono anche “di casa nostra”, in un mondo italiano che rischia sempre un po’ di provincialismo.
Per parte mia, ad esempio, raccolgo e ho raccolto con gratitudine la voce di amiche lesbiche nelle più diverse situazioni di vita, e anche di amici gay: regalo a loro la danza che ci viene incontro nella copertina italiana, con grazia e intensità. Ma non sarei mai stata in grado di fare un lavoro di raccolta, uno studio, o di realizzare qualcosa come questa antologia.
Riprendo però il tema delle alleanze, auspicando che siano moltiplicate: non si tratta certo che un nuovo libro “soppianti” il precedente, ma di fare di molte voci un coro, di una presa di parola, fuori dall’armadio e molte volte ancora al suo interno, un discorso pubblico, che non receda, e che dunque ha bisogno di tante persone.
Fra le alleanze, mi piace anche ricordare quella che si vede anche ora: la collaborazione scientifica con Laura Scarmoncin è diventata anche un’impresa comune, come in Riprendiamoci la Parola, e un’amicizia: così si raccontano le storie, come dice un rabbi chassidico rilanciato da un classico teologico del secolo scorso (“Gesù, la storia di un Vivente”, di Schillebeeckx).
Come già detto, inoltre, c’è anche l’impegno morale di esprimersi nel Sinodo della Chiesa Cattolica, così come anche questo anno veglieremo contro l’omotransfobia. Bisogna anche ricordare che questa esperienza è cattolica, ma le Chiese protestanti sono molto impegnate anche in Italia su questo fronte di riflessione, di pratiche, di benedizione, tra cui molte teologhe che sono anche pastore nelle loro Chiese, e non da oggi: penso fra le altre a Letizia Tomassone, Elizabeth Green, Daniela Di Carlo.
Si è parlato, e si parla molto di religiosi gay. Perché non è stato dato altrettanto risalto alla loro controparte femminile?
LAURA: Credo che ciò abbia a che fare con una cultura patriarcale che in Italia ancora non ci scrolliamo di dosso, e di cui la Chiesa Cattolica, inutile negarlo, è profondamente intrisa, e spesso baluardo. In una simile cultura, le donne e le loro esperienze vengono troppo di frequente svalutate, se non mistificate o addirittura silenziate. C’è come un monologo maschile sul mondo e la realtà – i femminismi ce lo insegnano da decenni – che è faticoso scalfire.
Come dice Cristina Simonelli nell’introduzione al libro, anche per questa ragione la parola delle consacrate lesbiche e queer, che il testo raccoglie, rischia di restare inascoltata, non solo per la “cultura del silenzio” sull’omosessualità che ancora innerva la Chiesa, ma anche per un patriarcato che la Chiesa condivide e spesso esaspera, un patriarcato che tacita le donne e i loro punti di vista, le loro realtà, non dando loro uguale peso, valore, autorevolezza.
CRISTINA: Non c’è dubbio: nella Chiesa Cattolica sono ormai pochi quelli che si esprimono con aperto disprezzo delle donne, ma resta un’asimmetria generale, un disagio che diventa a volte ironia sferzante, o anche un posizionamento che le donne non le vede proprio. Ma questo atteggiamento non riguarda solo la Chiesa nel suo modo di porsi, ma anche gli occhi di chi la guarda e la racconta: dunque i media cercano Papi, vescovi e preti. In alternativa, privilegiano figure femminili estetizzanti, affabili, tranquillizzanti.
Perché si ritiene che omosessualità e vocazione religiosa siano incompatibili?
LAURA: Come emerge in modo molto chiaro dal libro, e suor Gramick esprime con parole lucide nella prefazione, il problema è più ampio: nella Chiesa Cattolica vi è l’idea che la sessualità in sé sia incompatibile con la vocazione religiosa. Gramick parla di una “sindrome da disprezzo sessuale” che ammorba la nostra comunità ecclesiale, e in tal senso ci invita a liberarci dal dannoso pregiudizio secondo cui non è possibile integrare la sessualità nella spiritualità e nella castità.
Questo pregiudizio è il portato di una “dottrina della sessualità” cattolica ancora distorta, angusta, formalistica, del tutto inadeguata a cogliere il mistero e la bellezza del desiderio e della pulsione sessuali quali elementi che nutrono gli esseri umani, comprese le persone che scelgono la castità. Sappiamo – per esempio da libri come quello di Marzano, “La casta dei casti” – quanto i programmi formativi alla vita religiosa siano tutt’oggi intrisi di tabù sul sesso, l’affettività e l’intimità, cosa che genera mostri, non da ultimo il crimine degli abusi sessuali da parte del clero (come argomentano anche le inchieste sul fenomeno pubblicate in vari Paesi).
Testi come “Nella giustizia e nella tenerezza” sono in tal senso una boccata d’aria: dimostrano che per vivere la vocazione alla vita consacrata, e in essa, a una castità sana, è necessario cambiare lo sguardo, recuperare un rapporto sereno, gioioso e grato col nostro essere esseri sessuali e sensuali, e contestare una “dottrina de sexu” che non fa giustizia a un’esperienza certo complessa e spesso spaesante, ma anche meravigliosa, positiva.
Non a caso, nel libro molte sorelle la definiscono un dono di Dio e qualcosa di sacro, raccontando però come questa sia una consapevolezza che hanno maturato con fatica e persino dolore, lottando anche contro se stesse, proprio perché le loro congregazioni non erano preparate a sciogliere con agio il nodo sessualità-vita consacrata.
CRISTINA: La vocazione religiosa, monastica, “consacrata” (già questo lessico fa capire come sia articolato il discorso del mondo cattolico, che è più plurale di quanto possa sembrare), è uno spazio di libertà, una scelta contro corrente. Argutamente una delle sorelle – Evie Ravie, “La mia storia queer” – scrive: “Molti non saranno d’accordo, ma di fatto penso che sia possibile affermare che tutte le religiose e i religiosi, in un certo senso, sono “queer”. Con ciò non intendo dire che sono tutti gay o lesbiche, perché non è così.
Ciò che voglio dire è che quando una persona sceglie e vive una vita casta per un lungo periodo di tempo, la sua identità, la sua espressione corporea e il suo orientamento non rientrano più nelle norme dell’eterosessualità. Come sarebbero ben felici di ripeterci tutti i nostri amici e parenti sposati o sessualmente attivi: la castità è strana!
Forse rivendicarla in modo esplicito come “queer” potrebbe, paradossalmente, rendere il nostro stile di vita più comprensibile a una nuova generazione, per la quale avere a disposizione un ampio ventaglio di scelte di genere e sessuali è un’ovvietà”.
Questo libro entra in simile orizzonte, e in questo modo affronta un pregiudizio moltiplicato: chi, nella sua libertà che chiama anche vocazione, sceglie di vivere la propria vita nel “celibato” (devo riprendere questo termine che usano le sorelle, ma che in italiano suona molto maschile. Ma qui è utile, anche se abbiamo spesso tradotto “casto”), non annulla la propria sessualità e la propria affettività, qualunque ne sia l’orientamento e il posizionamento. Da questo punto di vista non c’è differenza fra etero e omosessuali.
Piuttosto, la condizione omosessuale in questo caso è “rivelativa”: fa capire come ci sia un nodo irrisolto, come già dice Laura Scarmoncin, rispetto alla sessualità in generale nella Chiesa Cattolica, ma fa capire anche come ci sia ancora un deprezzamento, che diventa anche aperto disprezzo per l’omosessualità, sempre in termini generali. Non a caso molte sorelle si sono firmate con uno pseudonimo; non a caso posso testimoniare la sofferenza di amici e amiche che si sono dichiarate con me, ma non con tutti.
Che cosa vi ha colpito di più traducendo e curando l’edizione USA in italiano?
LAURA: Tradurre è sempre e anzitutto un porsi in ascolto attento di chi scrive, di ciò che dice e non dice, per restituirne la voce senza distorcerla o manipolarla con i propri preconcetti, anche inconsci. Confesso che per me è stato molto difficile. Tante delle cose che queste ventitré donne raccontano le ho vissute anch’io – il crescere in contesti sessuofobi e omofobi, la scoperta del proprio lesbismo nella dolorosa mancanza di parole e modelli positivi, la paura e l’esperienza dell’esclusione, la vergogna, gli abusi, il trovare la forza per cambiare le cose… –, e mentre mi rispecchiavo nelle loro parole, lottavo per non sovraimporvi le mie, filtrate e falsate dal mio stesso vissuto.
Se c’è stata una profonda empatia esistenziale con queste autrici, che di certo mi ha aiutata a capire a fondo le loro vicende, dall’altra parte, nel tradurle, ho dovuto essere sempre vigile, attenta a non confonderle la loro storia con la mia, rischiando di venir meno al mio compito e tradendo le loro voci.
CRISTINA: Io non sono una traduttrice professionista, solo una lettrice che cerca di uscire dal monolinguismo: quando abbiamo confrontato le rispettive parti – ragioni di tempi, con il desiderio, già ricordato, di uscire durante la raccolta delle voci per il Sinodo, hanno suggerito un mio apporto non tanto alla curatela, già previsto, ma anche alla traduzione – ho visto che in me era molto forte la tentazione di “italianizzare”, in certo senso “normalizzare” il linguaggio, e Laura mi ha insegnato un maggior rispetto linguistico, che è specchio di molto altro. Per il resto, la mia esperienza è diversa: tradurre per me è stato come fare degli esercizi spirituali, entrando, in punta di piedi, in parole, vite, preghiere condivise, spazio sacro e promettente.
Con la “riabilitazione” ufficiosa di suor Jeannine Gramick cosa cambia nella Chiesa Cattolica? Francesco ha forse sconfessato la presa di posizione del suo predecessore?
CRISTINA: Rispondo questa volta per prima, da un “altrove”, in certo senso, lasciando la parola conclusiva e documentata (di ieri una parola in questo senso, ancora di Francesco!) a Laura. Da un altrove, perché il Sinodo, come orizzonte e non solo evento, rivela un aspetto ecclesiale che ritengo essenziale: la Chiesa è molto di più dei Pontefici che vi si susseguono – e lo dico nel rispetto del ruolo e degli uomini che, nel tempo, lo ricoprono.
È un popolo in cammino, che guarda anche oltre se stesso, che è plurale al suo interno, che vive di un Altrove radicale, e che è abitato da tante voci. So che tutti noi che siamo “Chiesa”, senza assumere una posizione da “più pura” o da “più furba”, abbiamo fatto e possiamo fare molto male alle persone: non a caso Giovanni Paolo II, nel 2000, aveva pronunciato, a nome di tutti, una richiesta di perdono. In quella richiesta non c’è, in termini espliciti, la domanda di perdono per l’atteggiamento di disprezzo delle persone omosessuali, ma io penso che lo spirito sia questo, e che possa e debba arrivare anche questa esplicitazione. Ma in molte e in molti questa domanda di perdono l’abbiamo fatta, in molte e molti vegliamo contro l’omofobia.
Le voci che parlano dal “centro” non sono, come potrebbe in qualche caso sembrare, lo specchio di “un uomo solo al comando”, ma recepiscono anche la riflessione, anche il grido di dolore e di gioia di tante e tanti, qualunque ne sia l’orientamento sessuale e il posizionamento. Un popolo sconfinante per statuto, queer per vocazione, perdonato per grazia.
LAURA: Rispetto alla risposta di Cristina, io mi mantengo sul piano del “potere dei pontefici”. Tenuto conto dei numerosi attacchi subiti da suor Gramick e New Ways Ministry a opera delle gerarchie ecclesiastiche durante i papati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, l’accoglienza di Francesco ha un che di rivoluzionario, che di certo capovolge la presa di posizione dei predecessori. Ciò che credo cambi nella Chiesa grazie a gesti come questo è il fatto che la questione dell’omosessualità è ora aperta, visibile, udibile, non più zittita da un Magistero imperioso, autoreferenziale, “inesperto di umanità”, come lo definisce Andrea Grillo, ovvero capace solo di parole di condanna e rifiuto legate a una dottrina rigida e insensibile alla realtà.
Anche in questo senso questo libro è importante: riporta alla concretezza, all’umanità dell’esperienza omosessuale, distraendoci da un Magistero astratto e restituendoci alla verità e alla vivacità della vita.
In ogni caso, come dice il giornalista Iacopo Scaramuzzi, Francesco è un riformista, non un rivoluzionario: non cambia la dottrina (in realtà non ha il potere di farlo con un colpo di spugna, come molte persone credono erroneamente), ma a differenza degli ultimi Papi dà spazio al dibattito, al contraddittorio, e semina, avvia processi, che germoglieranno e si dispiegheranno nel tempo lungo. La riabilitazione di suor Gramick e di New Ways Ministry è, in tal senso, un seme importantissimo.
Un seme che speriamo germogli – e non in tempi biblici – e diventi, come l’evangelico granello di senape, un albero in grado di offrire riparo e ristoro ai credenti, e un esempio di accoglienza e tenerezza per chi credente non è.