Omogenitori: Silvia Manzani di “Figli di uno stesso sesso”
Articolo del 17 maggio 2013 Sara Kay pubblicato su bambinizerotre.it
Silvia Manzani nasce a Ravenna nel 1981 e dopo essersi laureata in Scienze internazionali e in Educatore d’infanzia ha lavorato come giornalista per testate come “La Voce di Romagna” e “Il Sole 24 ore”.
Silvia da piccola mentre una sera come tante guarda il telegiornale, sente parlare di genitori omosessuali e sentir dire che “un bambino ha bisogno di una mamma e di un papà” la colpisce nel profondo.
Anni dopo, era il 2010, viene a sapere che la facoltà di Scienze della formazione di Bologna ha organizzato un seminario “Bambini e bambine con genitori omosessuali”. Da quel giorno inizia a documentarsi e i suoi studi l’hanno portata a scrivere “Figli di uno stesso sesso – Abbattere le barriere educative nei confronti delle famiglie omogenitoriali”.
foto-copertina-figli-di-uno-stesso-sessoUn libro davvero interessante poiché analizza la questione da molti punti di vista: comincia dando qualche numero e statistica su queste famiglie per poi affrontare lo sviluppo dei bambini cresciuti con genitori gay passando dal contesto legislativo nei Paesi Europei. A lei la parola.
Silvia, tu oltre che giornalista sei educatrice per l’infanzia. I bambini come vedono la famiglia omogenitoriale?
I bambini vedono quello che insegniamo loro a vedere. Se li tenessimo per assurdo chiusi dentro una cappa di vetro, ne uscirebbero pieni di pregiudizi, abituati come sarebbero a vedere non oltre il proprio naso. Ma crescono nel mondo, vanno a scuola, hanno degli amici, fanno sport.
Più varie sono le situazioni a cui li mettiamo di fronte, più cresceranno liberi. Così anche per la famiglia omogenitoriale: diventerà per loro “normale” nel momento in cui gliela faremo conoscere e racconteremo loro che esiste insieme alle altre. E pari alle altre. Bisogna cominciare da subito.
È vero che oggi preparano le future maestre per saper far fronte anche a quest’aspetto?
A livello universitario sì, parlo per la mia esperienza all’Università di Bologna, che ha un dipartimento di scienze dell’educazione all’avanguardia. Il problema è che la quasi totalità delle maestre che in questo momento insegna alla scuola dell’infanzia ha solo il diploma. E alle scuole superiori nessuno ha insegnato loro la pedagogia delle famiglie aggiornata al 2013. E così realtà che per l’immaginario collettivo sono nuove, come appunto le famiglie omogenitoriali, vengono negate.
Nel tuo libro citi il sociologo Anthony Giddens secondo il quale la coppia omosessuale è un modello di “relazione pura”. Perché?
Pura nel senso di “priva di convenzioni sociali” e basata quindi solo su un sentimento privato. Prendiamo una coppia omosessuale in Italia. In assenza di riconoscimento sociale e legale, quelle due persone stanno insieme solo per una legittimazione interna, un legame del tutto svincolato, pattuito e ritrattato quotidianamente a livello interpersonale. Ogni giorno, con tutta probabilità, quelle due persone si ri-scelgono, oltre ogni paletto formale.
Parli anche di eteronormatività, di cosa si tratta?
La leggi, le norme, la burocrazia si basano tutte – almeno in Italia – su un modello eterosessuale che viene dato per scontato, come fosse l’unico esistente. Così nei moduli per iscrivere il proprio bambino al nido vi sarà chiesto nella maggior parte dei casi di indicare il “nome della madre” e il “nome del padre”. E se uno dei due non c’è? Invertire la tendenza è riconoscere la pluralità delle famiglie, non solo quelle omogenitoriali.
Nel tuo saggio riporti anche l’esperienza concreta di un’insegnante. Ce ne puoi parlare?
A Casalecchio di Reno, vicino Bologna, due educatrici particolarmente illuminate hanno fatto scuola. Senza mai aver letto manuali sull’argomento prima, davanti ad una bambina figlia di due mamme si sono rimboccate le maniche, dando vita di fatto ad un metodo che potrebbe essere replicato ovunque. Le feste della mamma e del papà, per esempio, sono state sostituite dalla festa delle famiglie. Alcuni dei libri e delle canzoni che dipingevano la famiglia secondo il modello tradizionale sono stati modificati, proprio per dare ai bambini una visione più ampia – e attinente alla realtà – di quello che può significare la parola famiglia.
Se a scuola si lavora bene, può essere smantellato anche il pregiudizio più solido. Cosa si può fare per aiutare i bambini a superare eventuali pregiudizi trasmessi dalla famiglia?
Ai bambini serve poco la teoria. Vale molto di più la pratica. Mostriamo loro libri adatti alla loro età, dove ci sono bambini con due mamme, con due papà, con una mamma e un papà, bambini adottati, che vivono con la nonna, che hanno solo un genitore. Io credo molto nello strumento libro, fin da quando i bambini ancora non parlano. Un disegno, un racconto o una foto restano molto più impressi di una frase ad effetto buttata lì.
Una sera, in gelateria, mia figlia di quattro anni mi ha fatto notare come la bimba seduta a pochi passi da lei fosse andata a prendersi il cono con i suoi due papà. L’ha detto ad alta voce, con la leggerezza di quell’età. Il papà poi si è voltato e le ha detto che l’altro ragazzo in realtà era lo zio. Ma ci ha fatto sorridere la normalità della sua osservazione.
Nonostante i numerosi studi e le infinite ricerche sui figli cresciuti in famiglie omogenitoriali smentiscano che questi possano incappare in problemi nella definizione della propria identità di genere o in una crescita cognitiva deficitaria, il pregiudizio in Italia è duro a morire. Perché secondo te?
Perché chi vive di pregiudizi non legge, non si informa, non ha interesse ad andare oltre il muro dietro il quale si è trincerato. Le persone più libere di mente che conosco sono piene di libri e se non hanno i libri stanno ad ascoltare gli altri, fanno autocritica, non hanno paura di cambiare le proprie posizioni.
In Italia, poi, anche se nel libro ho evitato ogni attacco alla Chiesa, l’alone del bigottismo aleggia imperante. E impedisce ogni avanzamento.