Omogenitorialità: il matrimonio fa bene ai figli
Articolo del 25 marzo 2013 di Matteo Winkler pubblicato su il Fatto Quotidiano
E’ stato pubblicato da poco uno studio dell’American Academic of Pediatrics (AAP) dal quale risulta che il riconoscimento del diritto al matrimonio a favore delle coppie dello stesso sesso comporta un beneficio, in termini di benessere e salute mentale, per i loro figli.
La ricerca si pone all’interno di una ormai ampia letteratura scientifica, che accomuna psicologi, psichiatri, sociologi e ora pediatri, in virtù della quale non soltanto viene dato per pacifico e assodato che crescere in una famiglia incentrata su una persona o una coppia omosessuale, e dunque l’orientamento sessuale dei o del genitore, non dà luogo a differenze negative sul bambino in confronto con la famiglia nucleare tradizionale, formata da due genitori di sesso diverso, ma anche che il consolidamento dell’unione tra i due genitori attraverso l’istituto del matrimonio comporta effetti positivi sui bambini.
La ragione di questa conclusione, peraltro, è del tutto ovvia. Se il matrimonio svolge la funzione di “strutturare” l’unione dandole un riconoscimento formale e vincolando i coniugi a un maggiore impegno l’uno nei confronti dell’altro, ciò non può non essere vero anche per le coppie same-sex.
Più in generale, la letteratura in materia di omogenitorialità rivela che i figli delle famiglie omogenitoriali “hanno necessità di sviluppo ed emozionali simili e crescono in modo simile a prescindere che essi crescano con genitori dello stesso o di diverso sesso“. Quindi, se il bambino ha due genitori, il suo benessere richiede necessariamente che “le istituzioni giuridiche e sociali permettano loro di sposarsi e li supportino in tal senso, indipendentemente dall’orientamento sessuale“.
Se, invece, il bambino risulta privo di genitori, secondo l’Aap, “sono opzioni accettabili l’adozione e l’affidamento familiare, a prescindere dall’orientamento sessuale dei genitori“. Il riferimento è, ovviamente, anche al tanto vituperato (almeno da noi) istituto dell’adozione dei single.
Queste conclusioni, che oltre ad essere supportate dal buon senso appaiono oggi sostenute, in modo sempre più forte, da autorevoli associazioni di studiosi ed esperti, ci dicono che le famiglie omogenitoriali sono una realtà che merita un suo posto sul piano sociale e giuridico, e del dibattito politico. Merita un pieno riconoscimento incentrato sia sulla coppia, sia sui loro figli. E’ dunque tempo di prendere atto che quelle che, vuoi per semplificazione giornalistica, vuoi per motivazione ideologica, sono chiamate le “adozioni gay”, non sono affatto dannose per i bambini, e anzi meritano considerazione da parte del diritto proprio in virtù del loro ruolo nella crescita dei figli.
Le prossime generazioni non avranno più un padre e una madre sposati, magari in chiesa. Avranno un padre e una madre conviventi, due padri, due madri o un solo genitore, eterosessuale o omosessuale. Vogliamo chiudere gli occhi di fronte a queste realtà o prenderne atto e iniziare a parlarne anche qui da noi in Italia?
Vogliamo fingere che le famiglie omogenitoriali non esistano, oppure essere consapevoli che non è con le battute o con gli slogan che si fa (buona) politica nell’interesse delle generazioni future? Soprattutto, vogliamo continuare a privilegiare il dato biologico rispetto a quello affettivo?
A questo proposito, ieri a Parigi migliaia di persone hanno manifestato contro il progetto di legge sui matrimoni e le adozioni da parte di coppie gay e lesbiche. Una delle argomentazioni usate è quella del benessere del bambino. Ma il punto vero, che peraltro nessuno nella manifestazione ha affrontato, è come il legame biologico tra genitori e figli possa rappresentare, da solo, l’indice del benessere di una famiglia. Come scrive Stefano Rodotà, “il dato biologico non deve prevalere sull’impegno che i genitori hanno messo nella costruzione della famiglia. Insistere sul legame di sangue rischia di svilire l’ importanza degli affetti“.
Colpisce che associazioni che si professano cattoliche o pseudo-tali preferiscano dare rilevanza a un elemento spesso casuale piuttosto che a quello di un affetto e di un amore che si rivelano, sin dal loro inizio, genuinamente tali.