Omosessuali cristiani e Chiesa cattolica: prove di dialogo
Intervento di Christian Albini* tenuto al convegno su “Omosessuali cristiani e Chiesa cattolica: prove di dialogo” organizzato a Roma da Nuova Proposta il 10 gennaio 2009
Mi piace molto il titolo di questo incontro: prove di dialogo. Mi viene in mente la bellissima immagine del libro dell’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Dio non si stanca di bussare, anche quando trova le porte chiuse. Il dialogo è il tentativo di aprire una porta. Dialogo oggi è una parola bistrattata. Purtroppo anche all’interno della Chiesa cattolica. Sa di debolezza. Di cedimento a un avversario. Di rinuncia alle proprie idee e alla propria identità. Chi prova il dialogo si assume un peso e un rischio. Si espone, si rende vulnerabile. Soprattutto quando si toccano questioni che scavano nell’intimo della persona e toccano le corde più profonde.
Le donne e gli uomini omosessuali cristiani, perciò, hanno secondo me un grande compito e un grande merito. Quello di non voler rinunciare a sé, ma allo stesso tempo quello di non voler rinunciare alla propria fede e al dialogo con una Chiesa che spesso non si sente affatto come madre.
Tanto più che si tratta di un dialogo che ora come ora è di fatto a senso unico, dal momento che la Chiesa – almeno a certi livelli – non dà segno di riconoscere dei soggetti omosessuali con i quali interloquire.
Il peso del dialogo è tutto sulle spalle di questi ultimi. Credo sia un peso gravoso. Tuttavia si vuole comunque provare a dialogare. Mi sembra un modo di mettersi sui passi del Dio biblico che non si stanca mai di noi, anche quando gli voltiamo le spalle.
Anche qui ci sono porte chiuse, ma qualcuno vuole insistere a bussare. Sarebbe più facile cedere al rancore, allo scontro.
Oggi proviamo a sognare. Facciamo delle prove di dialogo. Prove, perché nessuno di noi rappresenta la chiesa gerarchica. Quindi, manca uno dei soggetti del dialogo. Ma dal trovarsi, dal riflettere, dallo scambio si possono intuire delle vie per dare inizio a questo dialogo.
Io riconosco la mia inadeguatezza di fronte a orizzonti tanto grandi. Mi limito a offrire il contributo che posso portare basandomi sul testo1 pubblicato da Aggiornamenti Sociali di cui ho potuto vedere, per così dire, il backstage frequentando la redazione e alla mia riflessione personale.
Il Gruppo sulla bioetica di Aggiornamenti era nato con l’obiettivo di portare avanti un percorso comune tra alcuni teologi, filosofi e più in generale studiosi di questioni morali. Prima del testo sulle unioni omosessuali aveva già prodotto, nel 2007, una rilettura del caso Welby nella quale si metteva in dubbio che la sospensione della ventilazione polmonare fosse eutanasia.
L’idea di partenza non era assolutamente quella di dare vita a un gruppo di contestazione ecclesiale che facesse in qualche modo concorrenza al magistero. L’intenzione era piuttosto quella di portare avanti quel “dialogo sulla vita” che era stato avviato nel 2006 da Ignazio Marino e Carlo Maria Martini sulle pagine de L’espresso.
Vorrei ricordare quanto scriveva nel 2006 Carlo Casalone, allora vice direttore della rivista e oggi superiore della provincia italiana dei gesuiti, nel commentare il colloquio tra Marini e Martino perché ha richiamato dei principi e delle questioni di metodo che mi sembrano significativi anche per la nostra riflessione2.
«Anzitutto è da notare la forma stessa del dialogo, che già da sola esprime la convinzione che la conoscenza oggettiva della realtà è frutto di un cammino condiviso: l’oggettività del conoscere non consiste nella ricerca di una posizione scevra da presupposti – peraltro impossibile -, ma nel diventare sempre più consapevoli delle nostre precomprensioni e nell’affermare onestamente dell’oggetto (tutto) quanto effettivamente capiamo, e non (solo) quanto egocentricamente ci interessa, rendendoci disponibili a confrontare il nostro conoscere con il conoscere altrui (cfr AFV, 38).
Il dialogo non è quindi arma strategica abilmente dissimulata per piegare verso idee predeterminate l’interlocutore, strumentalizzandolo in funzione del proprio obiettivo, ma virtù che comporta ascolto attento delle ragioni dell’altro; non si tratta di affrontare un nemico, almeno potenziale, ma di entrare in relazione con una persona da accogliere senza condizioni così come è (e non come si vorrebbe che fosse).
Solo così il dialogo sarà effettivamente tale: “mettere la propria parola accanto alla parola altrui, così che il logos proceda attraverso le due parole, i due soggetti che intendono e dialogano”.
Queste indicazioni sono particolarmente importanti quando è in gioco una comunicazione che riguarda l’etica: i valori non possono essere geometricamente dimostrati, ma indicati con la testimonianza e l’argomentazione, ponendo al servizio della coscienza dell’altro quanto di quei valori si è sperimentato e compreso, aiutandolo a farne esperienza e a maturarne una comprensione in prima persona.
Così l’interlocutore sarà messo nella condizione di accoglierli, in quanto può e vuole. È quindi determinante il rispetto della coscienza dell’altro: ogni atteggiamento diverso contraddice nella pratica ciò che si sostiene per principio, cioè che quanto è buono e vero è capace di far sentire con forza il proprio appello alla coscienza, sollecitandola a un’adesione consapevole e libera.
Fare ricorso ad altri espedienti significa per un verso esprimere una sfiducia di fatto in questa forza e dall’altro snaturare la qualità libera del consenso, rendendo vana, se non dannosa, l’intera operazione.
Detto con le parole del card. Martini: “è buona regola astenersi anzitutto dal giudicare frettolosamente e poi discutere con serenità, così da non creare inutili divisioni” (DSV, 54), e andare alla ricerca di “motivazioni profonde per le azioni buone” (DSV, 61); occorre far “comprendere le ragioni [della norma], perché è attraverso di esse che la persona può giungere a una convinzione con chiarezza” (AFV, 38)».
Detto per noi, venendo al punto: quali sono i presupposti della posizione del magistero cattolico sulle omosessualità? Quali nuove prospettive possono emergere da una riflessione serena su questi presupposti? E inoltre: qual è il valore della persona umana che la dottrina cattolica, pur nelle sue posizioni più controverse, vuole salvaguardare e che è importante non perdere?
Secondo me sono queste le domande più importanti. Il contributo di Aggiornamenti ipotizza uno spazio per un riconoscimento giuridico delle unioni omosessuali stabili che sia accettabile anche dal punto di vista cattolico. Ma questa è una soluzione tecnica.
Certo, è una cosa pratica e penso che chi desidera un riconoscimento del genere abbia giustamente a cuore risultati tangibili e non chiacchiere. Però, a monte della questione giuridica, che lascio a Mauro (ndr Castagnaro, corelatore al convegno), nella prospettiva di un dialogo con la Chiesa cattolica c’è una questione teologica. Io mi occupo di questo aspetto teologico.
È la teologia, è la dottrina che viene chiamata in causa quando si nega la possibilità di un riconoscimento delle unioni omosessuali a motivo del loro carattere «intrinsecamente disordinato».
A monte di tutte le considerazioni sulla legge naturale e sul valore sociale della famiglia fondata sul matrimonio eterosessuale, cioè gli argomenti che vengono impiegati per dare una giustificazione razionale al rifiuto del riconoscimento legale, c’è un’antropologia teologica.
Non a caso i principali testi su cui si basa la posizione del magistero sono il Catechismo della Chiesa Cattolica (2357-2359) e alcuni documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede3. La maggior parte dei testi che affrontano il rapporto tra fede cristiana e omosessualità hanno un approccio spirituale che riguarda il rapporto diretto, interiore della persona con Dio.
Questo è importantissimo (si pensi a tutta la tradizione della mistica), ma – soprattutto nel momento in cui ci si muove nell’ambito cattolico dove è fondamentale la dimensione ecclesiale, oltre a quella interiore – l’aspetto spirituale non è sufficiente.
Quello teologico è un grosso scoglio, che rende impegnativa la navigazione. Sono chiamate in causa la visione dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, e dimensioni come il desiderio e il piacere sessuale che nella teologia cristiana storicamente hanno suscitato e suscitano tutt’oggi difficoltà e diffidenza.
Comunque, si tratta di uno scoglio che va affrontato, se si vuole davvero il dialogo. Altrimenti, si rimane sul piano dei rapporti di forza in cui si può vincere o perdere, ma senza uscire dai confini dell’estraneità reciproca quando non dell’ostilità.
Non potendo passare in rassegna tutto questo materiale, a mo’ di esempio mi limito a prendere in esame i due pronunciamenti più recenti. Come è noto hanno suscitato ampie polemiche e racchiudono sinteticamente gli elementi-chiave del discorso che stiamo affrontando, a dimostrazione del fatto che una stessa forma di pensiero pervade questo settore della dottrina cattolica in attuazione del “programma” teologica enunciato nell’enciclica Veritatis splendor.
Comunicato sulla posizione della Santa Sede sulla “Declaration on human rights, sexual orientation and gender identity” presentata oggi alle Nazioni Unite (17 dicembre 2008)
La Santa Sede apprezza gli sforzi fatti nella “Declaration on human rights, sexual orientation and gender identity” – presentata all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18 Dicembre 2008 – per condannare ogni forma di violenza nei confronti di persone omosessuali, come pure per spingere gli Stati a prendere tutte le misure necessarie per metter fine a tutte le pene criminali contro di esse.
Allo stesso tempo, la Santa Sede osserva che la formulazione di questa Dichiarazione va ben aldilà dell’intento sopra indicato e da essa condiviso.
In particolare, le categorie “orientamento sessuale” e “identità di genere”, usate nel testo, non trovano riconoscimento o chiara e condivisa definizione nella legislazione internazionale. Se esse dovessero essere prese in considerazione nella proclamazione e nella traduzione in pratica di diritti fondamentali, sarebbero causa di una seria incertezza giuridica, come pure verrebbero a minare la capacità degli Stati alla partecipazione a e alla messa in atto di nuove o già esistenti convenzioni e standard sui diritti umani.
Nonostante che la Dichiarazione giustamente condanni tutte le forme di violenza contro le persone omosessuali e affermi il dovere di proteggerle da esse, il documento, considerato nella sua interezza, va aldilà di questo obiettivo e dà invece origine a incertezza delle leggi e mette in questione le norme esistenti sui diritti umani. La Santa Sede continua a sostenere che ogni segno di ingiusta discriminazione nei confronti delle persone omosessuali dev’essere evitato, e spinge gli Stati a metter fine alle pene criminali contro di esse.
Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana per gli auguri natalizi (22 dicembre 2008)
«Poiché la fede nel Creatore è una parte essenziale del Credo cristiano, la Chiesa non può e non deve limitarsi a trasmettere ai suoi fedeli soltanto il messaggio della salvezza. Essa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere anche l’uomo contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come una ecologia dell’uomo, intesa nel senso giusto. Non è una metafisica superata, se la Chiesa parla della natura dell’essere umano come uomo e donna e chiede che quest’ordine della creazione venga rispettato.
Qui si tratta di fatto della fede nel Creatore e dell’ascolto del linguaggio della creazione, il cui disprezzo sarebbe un’autodistruzione dell’uomo e quindi una distruzione dell’opera stessa di Dio. Ciò che spesso viene espresso ed inteso con il termine “gender”, si risolve in definitiva nella autoemancipazione dell’uomo dal creato e dal Creatore. L’uomo vuole farsi da solo e disporre sempre ed esclusivamente da solo ciò che lo riguarda. Ma in questo modo vive contro la verità, vive contro lo Spirito creatore. Le foreste tropicali meritano, sì, la nostra protezione, ma non la merita meno l’uomo come creatura, nella quale è iscritto un messaggio che non significa contraddizione della nostra libertà, ma la sua condizione.
Grandi teologi della Scolastica hanno qualificato il matrimonio, cioè il legame per tutta la vita tra uomo e donna, come sacramento della creazione, che lo stesso Creatore ha istituito e che Cristo – senza modificare il messaggio della creazione – ha poi accolto nella storia della sua alleanza con gli uomini. Fa parte dell’annuncio che la Chiesa deve recare la testimonianza in favore dello Spirito creatore presente nella natura nel suo insieme e in special modo nella natura dell’uomo, creato ad immagine di Dio».
Nel primo testo troviamo esplicitata la motivazione della posizione cattolica sulle unioni omosessuali: il timore che un loro riconoscimento costituisca una minaccia per il matrimonio tra uomo e donna aperto alla generazione dei figli.
Lo evidenzia, p. es. Paolo Fontana nella sezione del contributo di Aggiornamenti dedicata al magistero, lo dichiara apertamente Martini nel suo libro-intervista4 e Julie Clague – nel suo articolo per Concilium – descrive il procedimento in base al quale il valore del matrimonio viene dichiarato, affermato attraverso una categorizzazione delle persone che svaluta come peccatori tutti coloro il cui comportamento affettivo-sessuale non è ascrivibile alla famiglia fondata su di esso5. Si crea così una sorta di dicotomia, di dualismo eterosessuale / omosessuale riconducibile alla coppia positivo/negativo, bene/male.
Il secondo testo, invece, esplicita, la nota radice teologica di questa posizione: l’esistenza di una natura umana oggettiva, voluta da Dio, in cui la complementarietà dei sessi rispecchia l’unità interiore del Creatore. C’è un ordine universale e immutabile razionalmente riconoscibile della creazione, iscritto nella natura, il quale determina la concezione della persona umana e del comportamento autenticamente umano.
Si tratta, fa notare Erik Borgman, sempre su Concilium, così come il bel documento elaborato dal gruppo Nuova Proposta6, di una concezione statica di natura. Alle spalle c’è tutta una tradizione di pensiero risalente alla filosofia greca, più che alla Bibbia, basata sulle dinamiche biofisiche che le “fissa” in un sistema socio-culturale e ne ricava una norma comune e perenne7.
«Questo – scrive Borgman – non è “biologismo” in senso stretto: non è che venga considerato l’aspetto solo biologico del comportamento sessuale e venga ignorata l’attività umana di dare significato alla sessualità. Tuttavia è biologismo in un senso più profondo; è persino una “bioteologia”, se vogliamo chiamarla così. La realtà biologica del sesso che può portare alla procreazione viene investita in quanto tale, direttamente e pesantemente, di significato religioso»8.
In questa prospettiva, su cui ha molto insistito Giovanni Paolo II aggiornandola in chiave fenomenologica, l’essenza dell’essere umano è quella di esprimere amore in una relazione corporea di un reciproco dono di sé fra un uomo e una donna, diretta verso la fertilità intesa come apertura al dono divino di nuova vita. La capacità procreativa iscritta nella sessualità umana sarebbe così una cooperazione con la potenza creativa di Dio.
È evidente che in un’ottica del genere le omosessualità non possono che essere considerate come anomalie, patologie, deviazioni. È una visione che dissocia le omosessualità dalle persone, come se si trattasse di componenti accessorie, secondarie della personalità; un incidente, appunto, lo scostamento dal corso naturale dello sviluppo psico-sessuale.
Con tutte le conseguenze che si possono immaginare in termini di svalutazione della persona e di pressione psicologica. In sostanza il messaggio è che la persona omosessuale dovrebbe accettare se stessa solo come mancante di qualcosa e incompiuta.
In una riflessione di antropologia teologica, il subtstrato della posizione in questione è la problematicità, per la teologia cattolica, dell’antropologia moderna basata sulla ricerca e la definizione della propria identità, cioè – semplificando al massimo – sul processo soggettivo di riconoscimento e realizzazione di sé.
Soggettività e storicità sono due capisaldi del pensiero moderno e il loro ingresso nella questione antropologica ha fatto emergere il tema dell’identità. Sono, come si può facilmente intuire, categorie che mal si conciliano con l’antropologia prevalente nel pensiero antico e medievale. La teologia, infatti, non ha mancato di sottolineare questa discontinuità problematica nel pensare la persona umana9.
Le omosessualità, così come vengono esperite e pensate oggi, si collocano proprio al cuore di questa svolta. Esse, infatti, vengono declinate non più al singolare (la omosessualità come atto fisico contro natura, quella che nella casistica morale era la sodomia), ma al plurale in quanto percorsi esistenziali personali di scoperta della propria identità e non di appartenenza a una categoria istituita da altri.
Quindi parte integrante e imprescindibile della propria persona. Questa novità della concezione contemporanea delle omosessualità come identità è stata sottolineata, p. es., da Norbert Reck su Concilium, da Lingiardi in una prospettiva psicologica e da Barbagli e Colombo dal punto di vista sociologico10.
Come si oltrepassa questo scoglio? Io vedo sostanzialmente due strade.
La prima strada è sostanzialmente quella della rinuncia al concetto di natura. Sulla stessa strada si pone una concezione di natura in termini esclusivamente dinamici. Parlare di natura come di una realtà in perpetuo divenire equivale a non ammettere nessuna natura.
Certo, di fronte a determinate prese di posizione, al loro impatto e alle loro implicazioni, la reazione più immediata è quella di dire che il magistero cattolico si appoggia su argomenti spuntati, inattuali, ormai inaccettabili e obsoleti.
In effetti, come illustra Piana nell’articolo che ho citato, dalla modernità in poi sono emerse delle tendenze che hanno messo in crisi l’impianto tradizionale della legge naturale: il primato del soggetto, della sua razionalità e della sua volontà nella concezione del reale che riduce la natura a campo di intervento dell’uomo, l’avanzare della tecnica con cui i determinismi naturali sono sostituiti fattualmente dall’intervento umano, l’affermarsi dell’evoluzionismo per cui la realtà appare come un processo in costante mutamento dove non si possono identificare essenze immutabili. Il pensiero postmoderno ha portato queste tendenze alle estreme conseguenze.
Ecco quindi l’emergere di un approccio, “liquido”, individualizzato, alla definizione dell’identità in cui prevalgono la libertà di scelta soggettiva, l’esperimento, il “farsi”11. Venendo a noi mi sembra che sia la strada intrapresa da Judith Butler, la quale non a caso dichiara che il fondamento del suo discorso è la critica di Nietzsche alla metafisica della sostanza12.
In Genealogia della morale leggiamo infatti: «Non esiste alcun essere al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; “colui che fa” non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto». Di qui l’abbandono di qualsiasi status ontologico e l’idea che la realtà delle omosessualità sia iscritta nel corpo e derivi dagli atti che il soggetto compie (il concetto di performatività di Butler)13.
La teoria queer ha inspirato una teologia queer che considera il soggetto sessuale come teologicamente significativo. Le esperienze sessuali delle persone non vengono considerate come qualcosa da regolare in base a schemi rigidi che contrappongono i comportamenti leciti agli illeciti.
Tradizionalmente ci sono comportamenti sessuali ritenuti innaturali e anormali, perché «non riusciamo a vedere il divino al di fuori delle strutture riduttive di una teologia sessuale sistematica che sa poco dell’amore fuori dai sistemi regolativi decenti di categorie sessuali controllabili»14.
Invece, la teologia queer ritiene che nelle minoranze sessuali si possano rivelare dei volti di Dio nuovi e sorprendenti. I gay e le lesbiche, così come coloro il cui comportamento sessuale fuoriesce dai canoni di normalità e di legittimità della cultura occidentale e della teologia cristiana tradizionali, non andrebbero considerati sociologicamente dei devianti, né tanto meno dei peccatori dal punto di vista della morale religiosa.
Viene declinato teologicamente l’assunto della teoria queer: se le identità di genere sono una costruzione esclusivamente culturale che non corrisponde ad alcun ordine naturale stabilito da Dio, ciò vale anche per le affermazioni dottrinarie e teologiche sulla sessualità.
Non esiste un disegno divino in base al quale l’eterosessualità praticata nel matrimonio sia l’unico comportamento sessuale ammissibile. È tutta una questione di linguaggio che nasconde dei rapporti di potere. Esistono, nella storia cristiana, anche altri generi di linguaggio in cui a Dio, per esempio, si applicano attributi sia maschili sia femminili (Dio Padre-Madre).
Se le relazioni tra le persone trinitarie sono descritte come sessualmente indeterminate, allora le relazioni sessuali tra le persone umane, le quali sono create a immagine e somiglianza di Dio, non possono essere soggette ad un giudizio etico-religioso di legittimità 15.
L’identità di Dio è un’identità queer, indecifrabile, plurale, non definibile in base a categorie fisse e univoche. La prospettiva teologica qui riassunta si propone perciò di liberare il discorso cristiano dai condizionamenti prodotti dalle strutture culturali di controllo e di repressione sessuale.
Essa si ricollega alla teologia della liberazione, la quale evidenzia il fatto che il messaggio cristiano annuncia una salvezza dalle forme di oppressione economico-sociale. Tale salvezza viene applicata alle situazioni di emarginazione e di disuguaglianza che hanno una base sessuale.
Il punto è evidenziare come tali identità, e le pratiche sessuali ad esse corrispondenti possano essere benedette da Dio e comprendere in sé l’affetto, l’amore, la libera scelta, la gentilezza e persino la trascendenza16.
Tutta questa impostazione, però, condivide a mio avviso quella che è la debolezza di fondo dell’intera costruzione queer. Nel momento in cui l’identità dipende esclusivamente dall’esperienza soggettiva, dall’attribuzione autonoma di significato del proprio comportamento sessuale (la performatività di Butler), negando qualsiasi contenuto oggettivo, essa risulta priva di fondamento.
L’identità è ciò che io, anche provvisoriamente, scelgo di diventare. In questa fluidità perenne non c’è nessuna vera via d’uscita dallo smarrimento e dall’incertezza che incombono. Se tutto è soggettivo, allora essere eterosessuale, omosessuale, transessuale o bisessuale non possiede alcuna valenza propria, alcuna dignità.
Queste identità risultano in definitiva indeterminate, come involucri vuoti dai quali entrare e uscire a piacimento, ma in cui non è possibile trovare un’autentica dimora. Senza permanenza nel tempo, senza unità né unicità, senza verità… Non c’è autentica risposta alla domanda «chi sono io?».
Proprio quelle identità alle quali si vorrebbe garantire un riconoscimento vengono sostanzialmente dissolte, dichiarate inesistenti, così come la stessa idea di persona umana. Che cosa resta, allora, al di là di quei rapporti di potere che si vorrebbero sovvertire? Senza verità, perché alcuni dovrebbero essere migliori di altri?
Per quali ragioni una società democratica, inclusiva, pluralista in cui le diverse identità sessuali possano coesistere liberamente dovrebbe essere preferibile a una in cui vigono pratiche di emarginazione, oppressione, intolleranza?
Nel momento in cui si rinuncia a dare un fondamento universale, condiviso (o quanto meno a cercarlo) ai concetti di persona umana, di soggetto e di identità e a situare la relazione affetivo-sessuale nella loro cornice, si può forse affermare una legittimità di fatto delle differenze, ma manca poi un principio, una ratio, che le giustifichi davvero e dia loro piena cittadinanza nella società e nella Chiesa17. Da questo punto di vista le preoccupazioni di Benedetto XVI di porre un argine alla disponibilità dell’umano sono per me pienamente condivisibili18.
La stessa Butler, nel proseguo del suo percorso, ammette che non si può fare a meno di un’antropologia, di una nozione dell’umano, per quanto ritenga che essa debba essere aperta al disorientamento per trovare nuove articolazioni rispetto alle definizioni del passato.
L’umano, infatti, è «la base di una serie di diritti e di doveri che hanno una portata globale»19. In mancanza di un’antropologia adeguata, non c’è nulla che impedisca di spingere i gay e le lesbiche verso il meno che umano, l’inumano, l’irreale.
Butler è giunta perciò a respingere quello che definisce un relativismo riduttivo per il quale esisterebbero solo concezioni locali e provvisorie dell’umano e dei diritti umani. La sua convinzione è che per andare oltre esso «possiamo solamente riarticolare o risignificare le categorie ontologiche fondamentali, le categorie dell’essere umani, differenziati sessualmente e sessualmente riconoscibili, nella misura in cui ci sottoponiamo a un processo di traduzione culturale.
Non si tratta di assimilare insolite e sconosciute nozioni di genere e di umanità per farle proprie, come se si trattasse, semplicemente, di incorporare nel lessico stabilito qualcosa di estraneo»20. Dalla negazione dell’antropologia precedente, sembra esserci qui un approdo a una sua ripresa e rielaborazione.
Sia chiaro, ritengo che l’impostazione queer presenti dei guadagni da non perdere (il prendere sul serio l’esperienza sessuale come espressione del sé e non solo come comportamento da giudicare, il non voler rinchiudere l’immagine di Dio in categorie culturalmente situate, l’intento liberazionista). Però, vorrei fare un invito a non lasciar perdere l’idea di natura.
Non solo per ragioni “tattiche” (così è più facile dialogare con la Chiesa cattolica…), ma perché ha comunque un suo valore ha patto che sia intesa – come rileva ancora G. Piana – nel senso di “umanità”, termine che meglio definisce la specificità dell’umano e che consente di orientare in modo più appropriato la condotta della persona umana.
Richiamo una voce non “di parte”, quella di Dietrich Bonhoeffer, testimone autentico e credibile, che nella sua Etica ha scritto, in seguito alla constatazione che la perdita della natura nella teologia protestante ha indebolito l’opposizione nei confronti del nazismo: «Bisogna perciò recuperare il concetto di naturale alla luce del vangelo»21.
Si apre qui la seconda strada a cui ho accennato, quella che trovo più promettente: la rilettura del concetto di natura. Più promettente, perché trovo che sia più fondata dal punto di vista cristiano e che offra maggiori occasioni di dialogo. Il tema è ampio. Mi limito a indicare degli spunti.
1. Nel dibattito teologico questa rilettura è richiesta da molteplici voci, anche di teologi non “dissidenti”. È quindi un punto su cui si può trovare ascolto. Faccio riferimento alla necessità di una mediazione culturale del concetto di natura: il modello “naturalistico” che deduce l’etica da un ordine intrinseco all’organismo umano è riconosciuto come insufficiente. Occorre superare lo schema ingenuo che oppone natura e cultura. «La cultura è la via obbligata di accesso alla natura»22. La ragione da sola non basta a pervenire a un sistema del tutto oggettivo, assoluto, universale e immutabile.
2. La conseguenza del punto precedente è la necessità di una riflessione antropologica che integri la dimensione soggettiva come costitutiva e non come accessoria. «L’impresa richiede di partire da un ripensamento della nozione di soggetto che riconosca per un verso come la soggettività sia un orizzonte del sapere oltre il quale non si può andare, e per altro verso prenda in giusta considerazione il ruolo dell’esperienza e del tessuto relazionale in cui essa si realizza. Non si può dire “che cosa sono” l’uomo e la realtà se non passando attraverso la mediazione originaria della pratica. Solo partendo da un’esplorazione fenomenologica, cioè da una descrizione accurata dei molteplici modi in cui si presentano la vita, le inclinazioni sensibili e il loro rapporto con la volontà, si può porre la questione fondamentale di “ciò che è”, quella che i filosofi chiamano ontologia»23. Nella tradizione cristiana, l’esperienza e le relazioni sono segnate dalla fede e sono quindi comprensibili in pieno alla luce della Parola di Dio.
3. In questa riflessione antropologica si apre uno spazio di riconoscimento delle omosessualità in quanto modalità autenticamente umane di vivere le relazioni e non soltanto “devianti”. «Né la natura biologica, né la cultura sociale offrono le risorse sufficienti per l’interpretazione dell’identità sessuale, che implica, invece, una più radicale questione antropologica (e teologica), quella dell’essenziale relazionalità degli esseri umani. In una concezione relazionale della persona, l’io è essenzialmente legato al tu, cosicché anche l’identità sessuale non può essere definita se non entro la relazione interpersonale. L’altro/a dello stesso sesso è certamente più che il suo corpo e, a tal motivo, l’uguaglianza dei corpi in quanto sessuati non impedisce in assoluto di riconoscere l’alterità delle persone»24.
In quest’ottica, Gesù non è visto come colui che ha prescritto un uso del corpo secondo criteri di funzionalismo biologico, ma come colui che nel dono dello Spirito vivifica le nostre relazioni innestandole nella comunione trinitaria. L’uomo e la donna conformati a Cristo (nesso tra antropologia e cristologia).
«L’uomo “ad immagine” di Dio non indica tanto una “natura” creata (anima, spiritualità), o qualche “caratteristica” presente nell’uomo (le facoltà dell’anima), come ha sovente detto la tradizione, ma soprattutto l’identità sintetica dell’uomo in quanto si riceve dentro le relazioni che la costituiscono e si autodetermina attraverso il suo libero agire. L’uomo come libertà creata è relazione, nel duplice senso che egli è costituito nella relazione all’altro e si autodetermina volendo quel senso che gli viene incontro come degno di essere scelto e per cui spendersi»25.
4. Una seconda pista viene dal congresso 2007 dell’Associazione Teologica Italiana dedicato al tema dell’identità e in particolare dalla relazione di Franco Giulio Brambilla che riconosce nell’emergenza del soggetto moderno una legittima istanza che la teologia dovrebbe recepire, «respingendone però la soluzione liquidatoria con cui ha inteso affrancare se stesso dai modi del vivere, dalla tradizione civile e culturale, gettando via, con le forme e le istituzioni sclerotizzate e corrotte della società tardo nominalistica, anche il necessario debito che la coscienza di sé intrattiene con l’ethos trasmesso e le forme culturali che lo mediano»26.
Brambilla vede l’attuazione di tale intento nell’elaborazione di una antropologia fondamentale riferita a una fenomenologia dell’esperienza umana, intesa come sapere della coscienza attraverso le forme pratiche dell’agire (nella loro valenza etica e religiosa).
Egli suggerisce come riferimento di questa fenomenologia la ricerca di Paul Ricoeur dalla quale ricava una visione in cui l’identità dell’io è istituita nella circolarità tra l’azione e la coscienza (volente e conoscente) del soggetto. Il nesso tra questi due poli risiede nella nozione di identità narrativa: il racconto costituisce il momento di sintesi delle esperienze vissute e delle attribuzioni di senso con cui le interpretiamo27. Scopro la mia identità nel racconto di me stesso e della mia vicenda.
«La libertà si dà in un drama, un’azione cioè in cui ne va sempre, con tutte le forme differenziate messe in luce, anche della propria identità. Questa distensione “drammatica” della libertà appartiene pertanto alla sua originaria costituzione, perché essa non può pervenire al proprio compimento che nella distensione del tempo»28. Lo Spirito abita nel cuore della libertà come relazione perché diventi storia della comunione.
Il punto emergente dalla corrente antropologica qui sintetizzata per sommi capi – anche se non credo rientri nelle intenzioni con cui Brambilla ha condotto la propria elaborazione – è quello di mostrare che le omosessualità rientrano in questa fenomenologia e in questa storia della libertà abitata dallo Spirito come possibili varianti e non come deviazioni.
Come modi di esprimere la comunione trinitaria. Si tratta di far emergere, nel narrare la propria vicenda, che un vissuto omosessuale non si limita a un uso “de-genere” del corpo, al solo atto separabile dalla persona quasi come un elemento estraneo e accidentale, ma che nell’azione si intrecciano corporeità, significati simbolici, dinamismi affettivi e spirituali.
Le omosessualità possono essere così viste come manifestazioni dell’interiorità autentica che in una esperienza cristiana si dispone a essere abitata dallo Spirito.
«Esplorare una vera vita gay o lesbica in tutti i suoi aspetti, o un’altra identità sessuale che non ha nome ma che si è chiamati a sviluppare, abbattendo le barriere e scoprendo possibilità nuove e liberatorie, può essere un valido contributo all’umanità e quindi alla comunità della chiesa. Realizza delle possibilità di essere buoni e veri che erano precedentemente ignote. Non è perché non c’è niente da fare che dovremmo accettare l’omosessualità, come così spesso sembra d’intendere persino in prospettive teologiche che si suppongono “progressiste”; è perché questo apre nuove possibilità di esprimere e coltivare la vita buona, possibilità che erano nascoste e represse, ma che contribuiscono alla pienezza della felicità che è il futuro degli esseri umani in Dio. Ed è nella misura in cui esistono che dovrebbero essere considerate valide in se stesse, per ragioni religiose e teologiche»29. L’accettazione di questa valenza relazionale positiva fonda le proposte di riconoscimento delle unioni omosessuali discusse su Aggiornamenti.
Da parte della Chiesa una eventualità del genere non dovrebbe essere vista come una capitolazione o una rinuncia che adeguano la fede al mondo e alle tendenze dei tempi. Si tratta piuttosto di partecipare pienamente alla vicenda dei tempi: «La mediazione tra la tradizione cristiana e la cultura presente è il compito più importante della teologia in generale. Senza rapporto vivo con le possibilità e i problemi degli uomini del presente la teologia cristiana diventa sterile e irrilevante. Ma senza riferimento alla tradizione cristiana la teologia cristiana diventa opportunistica e acritica»30.
Il rapporto con il presente e il riferimento alla tradizione cristiana sono le due condizioni sine qua non del dialogo che qui cerchiamo di ipotizzare. Il dialogo impegna entrambe le parti a misurarsi con i margini del proprio mondo, a toccare territori scomodi mettendosi in discussione per trovare un arricchimento.
Per la Chiesa “ufficiale” si tratta dell’impegno a misurarsi seriamente con la questione dell’identità, vista non solo come una minaccia a valori e idee tradizionali, ma come l’opportunità di scoprire in prima persona e autenticamente la chiamata di Dio e di realizzarla in pieno, invece che lasciarsi determinare da sistemi di vita e di pensiero stabiliti da altri. È la realizzazione del valore della libertà. Ciò comporta il confronto con la “rottura” costituita dalle omosessualità come possibilità di vita buona.
Vuol dire anche guardare con onestà alla dimensione affettivo-sessuale per come è e non in base a un’idea, a come si vorrebbe che fosse, con uno sguardo sereno alla realtà del desiderio e del piacere.
Al di là di tutte le teorie e i dibattiti che qui non è possibile affrontare, né mi sento in grado, psicologia, sociologia e antropologia offrono una certa abbondanza di elementi per riconoscere che l’identità sessuale (radicata nel dato biologico) non coincide con l’identità sessuata (la percezione soggettiva della propria corporeità) e con l’orientamento sessuale (cioè il polo della propria attrazione).
La sessualità non è un istinto monolitico e statico, ma è dotata di una certa plasticità il cui esito dipende dalla vicenda di ciascuno nel suo carattere unico e irripetibile. Infatti, la gran parte delle indagini sulle omosessualità «mostra come nella maggioranza dei casi lo spazio lasciato alla libera scelta è molto ridotto: la persona riferisce di scoprirsi omosessuale senza volerlo e quasi sempre in modo irreversibile. Lo spazio dell’etica non sta quindi nell’insistere per modificare questa organizzazione psicosessuale, ma nel favorire per quanto possibile la crescita di relazioni più autentiche nelle condizioni date»31.
Una posizione che vale anche per la/le eterosessualità, le quali non sono uno stato ideale, nel senso che in ogni vissuto affettivo-sessuale c’è una componente irrisolta che ha bisogno di crescita. Dentro lo stato in cui una persona si trova, il desiderio e la ricerca del piacere possono essere convogliati in una direzione “buona”, umana, quella dell’amore reciproco, mentre negarli e demonizzarli equivale a fare violenza alla persona.
C’è anche un impegno richiesto ai credenti omosessuali nell’opera del dialogo, al di là della fatica di cui ho detto all’inizio. È l’impegno di non “prendere le distanze” dalla tradizione cristiana soprattutto per quel che riguarda il valore attribuito al matrimonio tra uomo e donna aperto alla generazione fisica della vita da non intendere come un elemento secondario. Martini ne parla in termini di “gerarchia di valori”.
Inoltre, l’impegno è anche quello di misurarsi seriamente con domande come quelle poste da Aristide Fumagalli nel testo di Aggiornamenti: «D’altra parte, quando con l’altro/a dello stesso sesso s’intrattiene una relazione specificamente sessuale — riguardante, cioè, il corpo in quanto sessuato — è ancora possibile riconoscere la sua alterità? E nell’atto sessuale, tale alterità non è manifestata proprio dalla differenza di sesso? Negare questo assunto condurrebbe a ritenere il corpo come una realtà estrinseca rispetto alla persona, niente più che uno strumento neutrale adattabile a qualsiasi significato; ma è possibile considerare il corpo “materia muta”, priva di ogni informazione oggettiva per la coscienza soggettiva?»32.
Non spetta solo alla Chiesa tenere aperta la riflessione, ma anche ai credenti omosessuali tenere aperta la riflessione su se stessi, come spetta del resto a qualsiasi credente, quanto meno per discernere sia lo spessore teologico e religioso della propria esperienza esistenziale sia i ripiegamenti egoistici e narcisistici.
La coesistenza di grazia e peccato in ciascuno di noi. Ciò significa “raccontarsi”, dare voce all’intreccio tra azione e coscienza nella propria interiorità. Narrare le identità è la risposta migliore al concetto fissista di natura e al suo uso discriminatorio, oppressivo, testimoniando che fede e omosessualità non si escludono reciprocamente. Si tratta di svolgere e dettagliare tutto l’insieme di discorsi antropologici, teologici e fenomenologici che qui sono stati solo accennati collocando le narrazioni nell’approccio relazionale all’idea di natura.
È l’impegno a saldare l’antropologia delle omosessualità con una cristologia e una teologia che estendano e non escludano la tradizione della Chiesa, a partire dalla Parola. E qui mi arresto, perché è il punto a cui è arrivata la mia riflessione, anche se spero di poterla proseguire.
Se posso concludere con un’immagine, tutto ciò di cui ho parlato non ha a che fare con ragionamenti. Ha a che fare con la vita, con la carne, il sangue, le emozioni delle persone. In questo momento se dovessi descrivere la vita – l’intreccio degli incontri, delle vicende, dei sentimenti che ci capitano per lo più inattesi come inattesa è l’ora presente – la descriverei come un salto in un fiume travolgente.
Siamo gettati nella vita senza sapere dove arriveremo. Nella fede, la ricerca, il dialogo, la teologia sono tentativi di costruire ponti solidi e concretamente transitabili da tutti nel vissuto della storia. La speranza che ci sia un’altra riva e la volontà di arrivarci non da soli, perché gli altri contano, sono importanti, perché ci sono. Questo, per me, vuol dire riconoscere in Cristo la via, la verità e la vita. La via per la riva al di là di questo fiume.
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1 Gruppo di studio sulla bioetica, «Riconoscere le unioni omosessuali? Un contributo alla discussione», in Aggiornamenti Sociali 6 (2008).
2 C. Casalone, «Dialogo sulla vita. In margine a una recente intervista del card. Martini», in Aggiornamenti Sociali, n. 7-8, 2006.
3 Dichiarazione Persona humana (1975), Lettera Homosexualitatis problema (1986), Alcune considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali (1992), Considerazioni circa i progetti di riconoscimento legale delle unioni tra persone omosessuali (2003).
4 Cfr. C.M. Martini – G. Sporschill, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori 2008, p. 98.
5 J. Clague, «I valori morali morali dell’Europa: segni o ferite della civiltà?», in Concilum 1/2008.
6 Nuova Proposta, Omosessualità: un altro nome dell’amore, Roma 2008.
7 Cfr. G. Piana, «Si può ancora parlare di “natura”? Considerazioni antropologico-etiche», in Aggiornamenti Sociali, 9-10 (2006).
8 E. Borgman,«Non “fissare” la natura in termini statici», in Concilium 1/2008, p. 98.
9 Cfr. I. Sanna, L’antropologia cristiana tra modernità e postmodernità, Queriniana 2004.
10 N. Reck, «Desideri pericolosi. I discorsi cattolici sulla omosessualità», in Concilium 1/2008; V. Lingiardi, Citizen gay. Famiglie, diritti negati e salute mentale, il Saggiatore 2007; M. Barbagli – A. Colombo, Omosessuali moderni. Gay e lesbiche in Italia, il Mulino 2007.
11 Cfr. Z. Bauman, Intervista sull’identità, Laterza, Roma Bari 2003.
12 J. Butler, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004, p. 33.
13 Cfr. J. Butler, Scambi di genere, p. 191. Di fatto sarebbe l’agire omosessuale a fare il “sentire” e “l’essere” omosessuale, non viceversa.
14 M.M. Althaus-Reid, Indecent Theology. Theological Perversion in Sex, Gender and Politics, Routledge, Londra 2000, p. 69. Cfr. M.M. Althaus-Reid, «Teoria queer e teologia della liberazione. L’irruzione del soggetto sessuale in teologia», in Concilium 1 (2008) 120-137.
15 Cfr. E. Stuart, Gay and Lesbian Theology: Repetitions with Critical Differences, Ashgate Publishing, Aldershot 2003, pp. 89-105.
16 Cfr. M.M. Althaus-Reid, «Teoria queer e teologia della liberazione. L’irruzione del soggetto sessuale in teologia», in Concilium 1 (2008).
17 Il corollario etico di questa mia perplessità è il fatto che si rischia di passare dall’estremo del controllo ossessivo degli atti sessuali da parte di una morale tendenzialmente oppressiva all’estremo opposto dell’indifferenza di qualsiasi pratica sessuale, perché nessuna di esse sarà la base di interessi etici, come in D. Guest, «Incontro alle bestie. Ermeneutica lesbica della Bibbia “per strada”», in Concilum 1/2008.
18 Preoccupazioni analoghe sono state formulate anche all’interno di un orizzonte illuminista. Cfr. J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi 2002.
19 J. Butler, La disfatta del genere, Meltemi 2006, p. 63.
20 J. Butler, La disfatta del genere, Meltemi 2006, pp. 64-65.
21 D. Bonhoeffer, Etica, Queriniana 1995, p. 146.
22 G. Angelini, «Come rimediare allo sfinimento di una categoria», in AA.VV., La legge naturale. I principi dell’umano e la molteplicità delle culture, Glossa 2007. Nello stesso volume cfr. anche G. Angelini, «La legge naturale e il ripensamento dell’antropologia». Sulla stessa linea cfr. J. Moltmann, Che cos’è la teologia? Due contributi alla sua attualizzazione, Queriniana 1991; I. Sanna, L’identità aperta. Il cristiano e la questione antropologica, Queriniana 2006; C. Casalone, «Legge morale naturale. Oltre l’opposizione natura-cultura», in Aggiornamenti Sociali 2 (2008).
23 C. Casalone, «Legge morale naturale», p. 101.
24 A. Fumagalli, «L’omosessualità in prospettiva socio-culturale», contributo a «Riconoscere le unioni omosessuali?», p. 435. Cfr. G. Piana, «Ipotesi per una interpretazione antropologico-etica dell’omosessualità», in Credere Oggi 2 (2000).
25 F.G. Brambilla, Antropologia teologica, Queriniana 2005, pp. 395-396.
26 F.G.Brambilla, «L’identità transitiva. Per un’antropologia drammatica», in Associazione Teologica Italiana, L’identità cristiana e i suoi luoghi. L’esperienza cristiana nel farsi dell’umano, Glossa 2008.
27 P. Ricoeur, Sé come un altro, Jaca Book 1993.
28 F.G. Brambilla, «L’identità transitiva», p. 63.
29 E. Borgman, «Non fissare la natura in termini statici», p. 213.
30 J. Moltmann, Che cos’è la teologia?, p. 67.
31 C. Casalone, «Omosessualità: di che cosa stiamo parlando?», contributo a «Riconoscere le unioni omosessuali?», p. 429.
32 A. Fumagalli, «L’omosessualità in prospettiva socio-culturale», p. 435.
* Christian Albini (13 settembre 1973 – 9 gennaio 2017) è stato un teologo, saggista ed insegnante italiano. Dal 1996 al 2012 ha fatto parte della Presidenza del Consiglio Pastorale Diocesano di Crema. Successivamente ha assunto il ruolo di coordinatore del Centro di Spiritualità della Diocesi di Crema. E’ stato socio fondatore dell’Associazione Viandanti, una rete di gruppi cattolici in Italia. Dal dicembre 2009 ha fatto parte dell’Associazione Teologica Italiana come cultore delle discipline teologiche. Dal 1999 al 2005 è stato caporedattore della rivista “L’impresa al plurale”. Per due anni (2006-2007) ha fatto parte della Redazione della rivista “Aggiornamenti Sociali”. Ha collaborato alla rivista Jesus, curando fino al numero di gennaio 2017 la rubrica intitolata “Un popolo chiamato Chiesa”. Christian Albini è morto nel gennaio 2017 dopo una lunga malattia. Era sposato e aveva tre figli. Ha pubblicato Quale cristianesimo in una società globalizzata? (2003), Il Dio degli ultimi posti (2005), A tu per Tu (2006), Una pausa con Dio 3 (2008) e ha scritto numerosi articoli su varie riviste su questioni di teologia, filosofia e sociologia. E’ stato autore del blog Sperare per tutti.