Omosessuali in periferia. La galera di Mustafà
Articolo di Emmanuelle Chantepie tratto da gay-maroc-musul, traduzione di Erica
Se oggi il coming out sembra non far più paura, se i carri colorati del Gay Pride sconvolgono sempre meno, l’omosessualità resta per molti un tabù capace di spezzare la una vita, sopratutto per chi vive nelle grandi periferie delle città.
Mustafà ci racconta frammenti della sua vita in una periferia francese perchè “nella mia famiglia di origine algerina è impossibile parlare di sesso. Altro che omosessualità”. Impara così a “vivere senza esistere e non resta che fuggire per ricominciare. Ecco la sua storia.
Qui c’è la fusione dei ritmi e dei modi di vestire: raï, funk, house o jungle. Sulla pista delle Folies-Pigalle, spinto in un vortice di decibel e preso dalla febbre dei corpi che si ammassano, Mustafà ancheggia, batte il suolo in cadenza, qualche volta osa perfino lanciare uno sguardo al suo vicino.
Mustafà ha 25 anni, e ha dovuto attendere tutti questi anni per recitare, come gli altri, questa commedia così banale della seduzione.
Anni di galera in una periferia del sud della Francia, fatti di cose non-dette prima di rompere la morsa del silenzio fuggendo verso la capitale. Per beneficiare, come dice, del famoso” diritto all’indifferenza”
Se, oggi, il coming out degli uomini politici non sembra più spaventare l’elettore, se i carri colorati del Gay Pride sconvolgono meno, l’omosessualità resta per alcuni un tabù capace di spezzare delle vite. In disparte dal suono trepidante della musica, Mustafà racconta con pudore i suoi dolorosi percorsi.
Prima quello smarrimento quando , durante la pubertà, è sommerso da un sentimento strano che gli fa preferire i ragazzi e che cozza contro un muro di silenzio.
“Nella mia famiglia di origine algerina è impossibile parlare di sesso. Altro che omosessualità. Per mio padre, gli omosessuali sono sia dei pazzi che dei malati di HIV”, spiega Mustafà.
Quanto ai suoi quattro fratelli, si sono nutriti di rap per tutto il giorno,”con delle parole spesso molto violente, sessiste ed omofobe”.
Mustafà impara a vivere senza esistere. Capisce anche che questa cappa di piombo può servirgli da riparo. Nei parcheggi, ai piedi dei palazzi, “l’insulto supremo, è di trattare qualcuno da gay”. D’un colpo, “sei obbligato a recitare la parte del maschio come gli altri, a fare il capo, altrimenti sei morto”.
In città, Mustafà è di continuo sul chi vive. Imbroglia, si fa vedere con una amica. Adolescente sa bene che in città c’è un bar gay, dove potrà vedere gente “come lui”.
Solo per parlare con loro. Ma è impossibile rischiare di farsi scoprire. L’idea del suicidio gli attraversa lo spirito, ”più di una volta”, ci dice, come se fosse una cosa evidente.
Con la maturità in tasca, Mustafà crede di poter scappare in città, di guadagnare un po’ di libertà andando a studiare Lingue all’Università.
Poco per volta abbassa la guardia. Errore. Senza che se ne accorga, alcune voci arrivano alle orecchie dei suoi genitori.
“Rientrando per un fine settimana a casa, mi hanno detto che mi trovavano stanco. Che una breve settimana di vacanza in famiglia in Algeria mi avrebbe fatto bene”.
Senza sospetti, Mustafà attraversa il Mediterraneo. Comincia un incubo durato undici mesi. Sequestrato, sorvegliato continuamente, gli confiscano tutti i documenti. “Per loro ero un pervertito, un malato. In famiglia ero diventato l’infamia”. Gli occhi umidi, Mustafà cerca le parole, “cercavo di capirli”.
Ma ritornato in Francia, dopo molteplici peripezie, deve farsene una ragione: “Lo sguardo dei miei genitori non era cambiato”. Preso a botte dai suoi fratelli, guardiani «dell’onore » della famiglia, Mustafà finalmente scappa, direzione Parigi.
Questa testimonianza, estrema, non può riassumere da sola la situazione dell’omosessualità in periferia.
Ma quando si ascoltano i racconti di Hicham, di Jean-Paul o di Arlindo, ritornano le stesse parole per descrivere questo vivere in segreto che spinge a portare avanti una doppia vita, che certe volte dura tutta un’esistenza.
“So che ci sono moltissimi omosessuali che finiscono per sposarsi”, racconta Hicham, che abita alle Hauts-de-Seine. “Li si vedono fuggire, con il seggiolino del bebè sul sedile posteriore, nei luoghi di abbordaggio selvaggio come i parcheggi, le aree autostradali o i boschi”.
Territori oscuri, in mancanza di meglio, in bar o locali dove le pratiche nascoste sono l’abitudine, ma i rischi di prendere l’HIV troppo numerosi.
A questa vita mutilata, alcuni come Mustafà preferiscono la violenza di una rottura. Ma anche in quel caso, l’esclusione non è lontana.
“Quando sono arrivato a Parigi, racconta, avevo in testa il fantasma della “Palude” (La Palude era gruppo parlamentare di centro durante la Rivoluzione Francese ndt). Ed è vero, all’inizio ero completamente allucinato quando vedevo degli uomini tenersi per mano in strada o delle donne abbracciarsi senza che nessuno ci facesse particolarmente caso”.
Ma Mustafà sta per capire che il prezzo da pagare per entrare in questa comunità è alto. “C’è un lato fricchettone e ultraborghese. E là, ad imbrogliare, non ce la faccio.
Per farsi accettare, bisogna per esempio avere un look. Con il mio piccolo salario del telemarketing, non ho i mezzi per pagarmi il travestimento”. Allontanato da un locale gay, Mustafà si arrabbia: “Nella Palude, resta la separazione di ceto. E’ il razzismo”.
”Inventore di questi incontri parigini della domenica sera, Fouad Zéraui li ha chiamati “Neri, Bianchi, Burri”, Fouad ha vissuto a lungo a Créteil (Val-de-Marne). Come gli altri ha sofferto per le cose non dette. Da allora sono passati quattro anni, oggi ha fatto nascere l’associazione Kelma.
“Io ho avuto la fortuna di essere stato accettato dai miei genitori così come sono, sottolinea. Nel dare vita a questa associazione e a queste serate, ho voluto creare una alternativa nell’ambiente omosessuale.
Aprire un luogo misto, senza dittature di look, di fric o di colore della pelle. Uno spazio in cui ognuno trova il suo posto”.
Con un sorriso, Fouad acchiappa per la manica un giovane che passa.”Lui, è la prima volta che lo vedo”.Qui, si incrociano persone che non si vedono da nessuna altra parte”.
E’ un po’ più tardi di mezzanotte. Hicham infila il suo giubbotto per prendere l’ultimo RER. Il treno che lo riporterà in incognito in quella che è la sua città dal 1992.
Testo originale: Homo en banlieue, la galère de Mustapha