Omosessualità e religione. Uno studio fa luce sui gay musulmani
Articolo pubblicato sul sito del Ponte, centro integrato di sessuologia clinica
“Io sono un credente. Conosco le mie convinzioni. Ma come si spiega un gay musulmano? Questa parte di me in realtà non la riconosco.”
Con queste parole si apre un’interessante intervista fatta ad un gruppo di giovani ragazzi omosessuali britannici di fede musulmana. L’intervista è parte di un studio, pubblicato nel 2014 sul Journal of Community & Applied Social Psychology, in cui i ricercatori hanno intervistato venti gay musulmani britannici di origine pakistana, di età compresa tra 19 e i 26 anni, al fine di approfondire il rapporto fra orientamento sessuale e orientamento religioso. Questi due aspetti dell’identità della persona sono spesso in contrasto fra loro quando si tratta di omosessualità, dato che sovente la comunità religiosa di appartenenza non accetta al suo interno membri gay.
Un primo elemento che di fatto emerge da questa indagine è che nessuno degli intervistati avesse dichiarato la propria omosessualità a familiari o amici (etero), benché tutti si definissero gay.
A questo primo aspetto generale, transculturale e transgenerazionale, in cui la difficoltà a comunicare la propria omosessualità (coming out) potrebbe essere maggiormente legata alla cultura e alla società d’appartenenza, se ne aggiunge un secondo maggiormente legato alla fede religiosa, un fattore, quest’ultimo, di ulteriore segretezza ed un potente disincentivo a dichiararsi. Durante l’intervista i ricercatori hanno estrapolato tre aspetti cardine legati al rapporto fra orientamento sessuale e religione, mettendo in luce il travaglio emotivo che tali ragazzi devono affrontare nel rapportarsi con questi loro aspetti del Sé.
L’incoerenza fra ciò che si è e ciò che dovremmo essere: essere musulmani e gay porta alcuni fedeli a dubitare della loro identità religiosa
“C’è un grande conflitto in me, nella mia mente e nel mio cuore. Sto pensando che io so quello che il Corano dice degli uomini che lo fanno con gli altri uomini, così sto iniziando a pensare che non sono un vero musulmano. Voglio dire che io sono un credente. Conosco quali sono le mie convinzioni. Ma come si spiega un musulmano gay? Questo lato di me in realtà non corrisponde a come dovrei essere.“
I ricercatori mettono in luce come, anche nei casi in cui i giovani fedeli dichiaravano alti livelli di spiritualità personale e di appartenenza religiosa, ciò non fosse sufficiente per sentire di avere una “vera” identità musulmana. Il sentimento comune era quello di sentirsi dei falsi credenti, degli ingannatori. Molti dei partecipanti inoltre ritenevano che i membri della famiglia o gli amici intimi non li avrebbero mai accettati come veri musulmani. Durante il Ramadan, ad esempio, uno dei partecipanti spesso pensava che in un momento religioso solenne come quello, in cui tutta la famiglia è insieme e si appresta ad iniziare la preghiera, lui in realtà non facesse parte dei quella comunità e che gli altri probabilmente non lo avrebbero accettano per quello che era.
L’utilizzo strumentale dei cerimoniali religiosi: alcuni utilizzano i rituali religiosi per confermare la loro identità religiosa
“Sento che nel periodo del Ramadan posso fare qualcosa per il mio essere gay. Dato che essere gay non è certo qualcosa che posso scegliere, se esserlo o non esserlo, così come avere rapporti sessuali con ragazzi non è qualcosa a cui possa rinunciare in favore delle donne, nel momento del Ramadan alcuni aspetti si ribaltano e ciò che faccio mi appare tutto nelle mie mani, il cibo è qualcosa a cui posso resistere, mi dà una forma di controllo e mi aiuta a sentirmi maggiormente un buon fedele.“
I ricercatori evidenziano la relazione fra la stretta osservazione del digiuno tenuta dai ragazzi ed il grado della loro identità religiosa. Il rispetto severo del digiuno rimanda in alcuni ad un rafforzamento della propria appartenenza religiosa, una omologazione che rende uguali, intrisa anche della percezione di avere un controllo sulle proprie scelte di vita. Per lo stesso motivo altri evitano anche qualsiasi contatto sessuale durante il Ramadan, applicando in toto i precetti della vita musulmana eterosessuale. Il grado di severità con cui ci si attiene ad una norma appare essere di fatto un modo per affermare il loro coinvolgimento nella loro identità religiosa. C’è inoltre chi pensa che, se la famiglia scoprisse il suo orientamento sessuale, non gli chiederebbe più di rispettare i rituali religiosi dato che lo vedrebbero destinato comunque all’inferno e ciò lo ha portato a reagire facendogli dimostrare in modo ancora più cogente la propria fedele.
Quale aspetto del Sé è preminente nella definizione della propria identità? Per alcuni l’identità religiosa può essere più centrale di quella sessuale
“Anche se vedo ragazzi che stanno distribuendo volantini contro l’omosessualità, in fondo in fondo posso capirli. Non è un mistero per me comprendere le loro reticenze e non posso davvero dire che è sbagliato. Cos’altro ti aspetti che un musulmano debba fare? C’è un problema con le persone che ostentano il loro essere gay e penso che chi si schiera contro voglia solo che tali persone prendano la giusta strada. Non c’è nulla di male.”
In questo caso, i ricercatori sottolineano il problema forse più nucleare dell’indagine: il confronto fra l’identità religiosa e quella sessuale. Quando altri uomini musulmani distribuendo volantini anti-gay chiedevano punizioni e perfino la pena di morte per gli omosessuali, alcuni partecipanti allo studio reagivano tollerando tali atti omofobici o allineandosi a tali posizioni. Questo, secondo gli studiosi, in virtù del fatto che l’identità musulmana appare essere più nucleare per l’autodefinizione di Sé rispetto alla propria omosessualità, una gerarchia identitaria che conduce pertanto ad una razionalizzazione delle condotte del gruppo di appartenenza ed una attribuzione d’illecito alle condotte “devianti”, anche quando il bersaglio di tali proclami è un membro dello stesso gruppo.
A conclusione dell’indagine i ricercatori hanno ritenuto di poter dire che nel loro campione d’indagine essere gay minacciava l’identità religiosa dei musulmani e che ciò portava alcuni di loro a divenire iperaffiliati alla loro religione nel tentativo di salvaguardare la propria identità religiosa. Per questi uomini, ogni altro aspetto del Sé veniva subordinato alla religione e in qualche modo doveva coesistere in sintonia con la struttura gerarchica della propria identità. A questi uomini venivano apparentemente lasciate tre possibili opzioni per risolvere la questione: 1) smettere di essere gay; 2) smettere di essere musulmano; 3) cercare di integrare entrambe le loro identità attraverso strategie finalizzate a salvaguardare la propria autenticità religiosa. Rispetto a quest’ultima strategia, che è stata l’oggetto dell’indagine, il compromesso identitario che emerge sembra generare un sottofondo emotivo che relega l’individuo in uno status d’inferiorità o di non appartenenza.
Jaspal, R., & Cinnirella, M. (2014). Hyper-affiliation to the religious in-group among British Pakistani Muslim gay men. Journal of Community & Applied Social Psychology, 24, 265–277