Omosessualità e violenza omofobica nelle serie televisive statunitensi.
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Appunti di Luciano Ragusa distribuiti durante gli incontri del cineforum del Guado che si sono tenuti l’11 Dicembre 2016, quando abbiamo cercato di capire come l’omofobia viene descritta nelle serie televisive statunitensi.
Omofobia: alcune questioni terminologiche.Il termine “Omofobia”, compare per la prima volta in un articolo intitolato Homophobia: A Tentative Personality Profile, all’interno della rivista Psycological Reports datata 1971, a firma di K. T. Smith. Il neologismo si diffonde rapidamente nelle discipline di ambito sociologico, psicologico e antropologico, generando una serie di testi importanti sia sulla definizione del nuovo oggetto di ricerca (che cos’è l’omofobia?), sia sulle conseguenze politico giuridiche che alcune sue degenerazioni comportano.
Un libro importante sull’argomento è, per esempio, quello di George Weinberg (maestro di Smith, il quale lo convinse a usare il termine da lui coniato nel 66): Society and the Healthy Homosexual (New York, !972) dove l’autore propone di considerare malattia la paura irrazionale nei confronti dei gay (rovesciando l’impostazione tradizionale che considerava l’omosessualità qualcosa di patologico). Weinberg è diventato addirittura attivista LGBT, e si è schierato in favore della cancellazione dell’omosessualità tra le perversioni sessuali elencate nel DSM (Manuale Statistico Diagnostico).
Molte sono le differenze interpretative del fenomeno da parte degli studiosi, Smith e Weinberg, ad esempio, discordano su molti aspetti anche se convergono nel definire l’omofobia come la paura di stare con un omosessuale in un luogo chiuso e, per quanto riguarda gli omosessuali, come l’odio verso se stessi.
Esiste in effetti una violenza simbolica, fuori dalla paura di essere indotti all’omosessualità attraverso rapporti umani e che può arrivare all’aggressione fisica estrema, che ingloba una serie di atteggiamenti cognitivi che indirizzano le scelte sociali, che incanalano l’etica, e soprattutto la sfera giuridica. Quindi il termine “omofobia” designa due aspetti di una stessa realtà: una dimensione personale che si manifesta attraverso il rifiuto degli omosessuali; una culturale, che prende di mira l’omosessualità come fenomeno psicologico e sociale.
Questa distinzione permette di capire meglio quelle situazioni paradossali in cui si mantengono rapporti cordiali con le persone omosessuali, ma si guarda con ostilità a qualunque politica egualitaria. Si tratta dell’atteggiamento di quelli che potremmo definire come “i finti liberali”, per quali l’omosessualità è una scelta paragonabile a qualsiasi altra (come un’opinione politica o una confessione religiosa) che però deve riguardare esclusivamente la sfera privata, restando confinata nella vita intima della persona.
Il risultato di questo atteggiamento è una tolleranza accondiscendente nei confronti dei “froci” e nel rifiuto di qualunque riconoscimento sociale del loro orientamento sessuale, con lo Stato che al massimo si deve adoperare per impedire a chiunque di intromettersi in maniera violenta nel privato delle coppie LGBT, ma che non deve e non può garantire alcuna visibilità sociale a queste stesse coppie.
Visto che stiano parlando del significato di una parola è utile ricordare come il linguaggio, in generale, non è solo uno strumento con cui etichettiamo il mondo (una specie di artificio tecnico la cui condivisione favorisce la comprensione tra i parlanti), ma è anche la massima espressione di ciò che siamo, una vera e propria catena di trasmissione tra ciò che pensiamo, ciò che diciamo e ciò che facciamo: come scrive Heidegger, dobbiamo intendere “il linguaggio come casa dell’essere” (Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio) per ricordare non solo la forza plasmatrice delle parole che usiamo, ma anche il loro essere a loro volta plasmate. In sintesi si può affermare che la lingua non è un fenomeno statico, ma aggiunge, inventa, fa slittare significati alle parole: a volte li amplia, altre li restringe. Di certo siamo sovrastati da essa al punto da indurre alcuni linguisti ad affermare addirittura che “la lingua pensa per noi”.
Dietro alle parole c’è una visione del mondo, una filosofia, un credo religioso, una cultura, un sistema intero di conoscenze, di abitudini e di capacità acquisite dall’uomo come membro di una società. Questo è il motivo per cui le parole possono aprire ponti o costruire muri, abbattere pregiudizi o avvalorarli, spingere alla discriminazione o portare all’accettazione.
Nel romanzo 1984 di George Orwell (distopia futuristica in cui la terra appare divisa in tre macrozone, più una quarta contesa), si parla di un “Ministero della Verità” deputato al sovvertimento del linguaggio a seconda della necessità: a convenienza il concetto di guerra diventa pace, l’amore si trasforma in odio, e la storia viene revisionata in virtù di quello che serve in quel momento a chi detiene il potere.
Si tratta di un’invenzione letteraria rende in maniera molto efficace il rapporto che c’è tra linguaggio e discriminazione, e quindi tra il termine “omofobia” e le parole e i gesti con cui è connotato: affermare “non sono omofobo ma…” è una palese contraddizione non solo nei termini, ma nel metodo e nel pensiero, perché (come ritengo dimostrato) linguaggio, pensiero, gesto, sono interdipendenti.
Un esercizio molto semplice, che può aiutare a cogliere il senso di questo discorso, è quello di prendere in mano un dizionario dei sinonimi e dei contrari e di cercare la parola “eterosessuale”. In genere, oltre alla definizione del termine e alla sua etimologia, il testo non aggiunge altro, perché non esistono sinonimi.
Se invece si va a cercare il termine “omosessuale” i sinonimi abbondano: omosex, bardassa (sodomita passivo, usato anche per le lesbiche), buco, checca, culattone, culo rotto, cupio (il cupio è un recipiente, per cui c’è la riduzione della persona a contenitore), finocchio, frocio, gay, invertito, omofilo, paraculo, pederasta, uranista, ricchione, sodomita, zia, cinedo (giovane effeminato, di solito un ballerino), a cui si aggiungono, specificatamente per le lesbiche, termini come omofila e tribade .
Naturalmente i curatori dei vari dizionari direbbero che non c’è nulla di omofobo nelle scelte che ho appena descritto, ma nel dirlo non tengono conto dei due elementi di discriminazione che invece sussistono: innanzitutto se un gay è un “culorotto” non si vede motivo per non indicare un eterosessuale come un “leccafiga”, oppure coniare qualche altra espressione dispregiativa legata all’atto sessuale tra persone di sesso diverso; in secondo luogo questa assimmetria dimostra come l’eterosessualità sia elevata a rango gerarchico, perché se non possiede sinonimi dispregiativi, vuol dire che è inserita in una sfera di naturalità, talmente evidente, da non dover essere giustificata a parole.
Anche se non ha senso parlare di ideologia, questa scelta di designare in modo sovrabbondante ciò che è ritenuto problematico, è un subdolo espediente, magari fatto in buona fede, tutti noi dovremmo fare attenzione, per rinviare all’implicito ciò che invece appare evidente ai nostri sguardi. Purtroppo non è possibile andare avanti in questa analisi visto che lo scopo di questa pagina non è quello di fare l’apologia del “linguisticamente corretto” (cosa peraltro impossibile vista la natura stessa del linguaggio), non dimentichiamo mai, però, che se è vero che non esistono parole sbagliate, esiste purtroppo, un uso sbagliato delle parole.
La violenza contro le persone LGBT rientra tra i crimini d’odio, ossia quei crimini che colpiscono la vittima a causa della sua appartenenza ad un gruppo sociale. Secondo l’Agenzia per i Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, nel 2009, l’omofobia ha danneggiato la salute di quattro milioni di persone nel nostro continente; e siccome noi italiani non ci facciamo mancare mai nulla, è emerso che la nazione a maggior tasso di omofobia politica, sociale, istituzionale, è proprio il nostro.
Probabilmente, se si rifacesse oggi lo stesso tipo di ricerca, l’Italia non occuperebbe più non occuperebbe più il vertice della classifica, perché con la fine del dibattito sul disegno di legge Cirinnà i toni sono rientrati e certe bassezze linguistiche hanno ripreso a coinvolgere solo certe frange marginali.
Tra l’altro, nonostante la situazione grave che c’è in Italia, è desolante constatare che non abbiamo una legge specifica contro l’omofobia: quando infatti la Camera ha discusso un disegno di legge sull’argomento, il testo originale è stato stravolto con il consenso di chi l’aveva proposto. E visto che il testo approvato dalla Camera era ormai imbarazzante, al Senato non l’hanno nemmeno preso in considerazione.Misteri della politica nostrana.
Se ad essere omofobi sono gli omosessuali
Per omofobia interiorizzata si intende quell’insieme di sentimenti negativi (ad esempio l’ansia, il disprezzo e l’avversione) che gli omosessuali provano nei confronti di se stessi e degli altri omosessuali. In virtù di questi sentimenti, nel peggiore dei casi, non riescono ad accettare né dei sentimenti omoerotici, né dei comportamenti omosessuali, privandosi così di qualsiasi relazione o di qualsiasi esperienza che potrebbe rafforzare la loro identità.
Questa forma di odio è spiegabile considerando che non viviamo in un ambiente culturalmente equidistante, dove sono incoraggiate tutte le possibili direzioni che una identità sessuale può percorrere. Tutti noi facciamo proprie le istanze normalizzanti che lo Stato, la Scuola, la Chiesa, ci impongono e, più o meno consapevolmente, le facciamo proprie, compresi i pregiudizi e le discriminazioni che una cultura omofobica come la nostra reca con sé. Questa forma di interiorizzazione in-volontaria, si trasforma in agente patogeno, che induce a nascondere, rigettare, condannare, rimuovere, la sincerità con cui potrebbe emergere un affetto nei confronti di una persona dello stesso sesso.
Sulla base della quantità di rimozione adoperata la salute e il nostro benessere cominciano a venire meno, a vantaggio di forme di intransigenza emotiva che colpiscono prima noi stessi, ed eventualmente gli altri. Alcune forme di omofobia interiorizzata riescono talmente bene da indurre una persona, malgrado ripetuti rapporti omosessuali, a non identificarsi come tale, perché in fondo sposate con figli, oppure perché non partecipa al “Gay Pride”, o qualsiasi altro motivo che inserisca una distanza, ai suoi occhi evidente, che faccia di lui un eterosessuale.
Oppure altre che necessitano di scaricare la propria rabbia nei confronti dei consimili, perché sentono il bisogno interiore di dimostrare agli altri il proprio odio nei confronti dei “finocchi”, come se pestarli fosse condizione necessaria e sufficiente per non correre il rischio di essere sulla sponda sbagliata.
Purtroppo atteggiamenti omonegativi sono piuttosto diffusi, magari non nelle forme più estreme, soprattutto nella fase della nostra vita in cui è difficile prendere coscienza e accettare il nostro orientamento sessuale, anche perché bombardati da una pressione sociale, famigliare, ecc., che immobilizzano qualsiasi viaggio verso la comprensione di noi stessi.
Ovviamente il livello di omofobia interiore dipende da una serie molteplice di variabili, non solo esterne come abbiamo sottolineato, ma anche dalla capacità che ciascuno di noi possiede di reagire ai flussi interiori che rispondono ad un canto ipocrita che in altro modo ci vorrebbe.
Prendere consapevolezza della propria omosessualità, mettere in discussione tutti i pregiudizi che il mondo esterno ci ha costretti a digerire, sono i primi passi verso una vita vissuta in piena sintonia con il proprio orientamento sessuale.
Per saperne di più
Borrillo Daniel, Omofobia. Storia e critica di un pregiudizio, Dedalo, Bari, 2009.
Pedote Pedote, Storia dell’omofobia, Odoya, Bologna, 2011.
Pietrantoni Luca, L’offesa peggiore, Edizioni Del Cerro, Pisa,1999.
Redattore Sociale (a cura di), Parlare civile, Bruno Mondadori, Torino, 2013.
Strazio Gabriele – Winkler Matteo, L’abominevole diritto, il Saggiatore, Milano, 2011.
Zagrebelsky Gustavo, Imparare democrazia, Einaudi, Torino, 2007.
Zagrebelsky Gustavo, Sulla lingua del tempo presente, Einaudi, coll. Le Vele, 2010.
Cold Case: Delitti irrisolti
I Cold Case, che tradotto potrebbe suonare come «analisi dei casi a pista fredda», sono una serie di metodi della scienza forense il cui obiettivo è quello di riaprire indagini su crimini giunti a un punto morto. Può infatti succedere che i dati raccolti attorno ad un evento penalmente rilevante, come un omicidio o uno stupro, reati per cui non è prevista la prescrizione, non siano sufficienti per una condanna, e che quindi nessuna procedura giudiziaria possa essere intrapresa.
Qualora negli anni successivi emergessero nuove prove (come la confessione di un testimone, la scoperta di documenti d’archivio che non erano prima accessibili o la possibilità di avvalersi di nuove tecniche scientifiche, come l’analisi del DNA) c’è sempre la possibilità di riaprire il caso e di arrivare a una soluzione definitiva.
Un famoso esempio italiano di Cold Case è il “delitto dell’Olgiata”, che aveva visto come sfortunata protagonista la contessa Alberica Filo della Torre, trovata morta nella sua abitazione il 10 luglio 1991. Per via della scarsa accuratezza delle indagini, il delitto era rimasto irrisolto per venti anni, fino a quando l’esame del DNA ha incastrato il cameriere filippino della contessa che poi ha confessato ed è stato condannato nell’aprile del 2011.
La serie di cui stiamo parlando segue le indagini di una immaginaria divisione della polizia di Filadelfia che ha come obiettivo quello di risolvere, anche a distanza di anni, i casi in cui le indagini non avevano individuato un colpevole.
Il telefilm è stato creato da Meredith Stiehm, sceneggiatrice e produttrice televisiva famosa per aver dato un contributo notevole a serie di successo come Beverly Hills 90210, NYPD, The District e il fortunatissimo E.R. – Medici in prima linea che portò George Clooney alla fama internazionale.
Ma la conquista definitiva della stima del pubblico e della critica sarebbe arrivata alla Stiehm con Cold Case, una serie di cui, oltre ad essere sceneggiatrice e produttrice esecutiva, è anche showrunner (termine inglese che indica la persona che segue tutte le fasi della lavorazione di un prodotto televisivo seriale, considerata, per questo motivo, più importante del regista stesso).
Per la prima stagione di Cold Case. Meredith Stiehm ha potuto avvalersi di Jerry Burckheimer, uno dei produttori esecutivi più importanti d’America grazie ai successi di CSI – Scena del crimine nella triplice versione Las Vegas, Miami, New York.
La serie consta di sette stagioni, per un totale di 156 episodi: negli Stati Uniti è stata l’emittente CBS a farsi carico della produzione e della trasmissione del telefilm, a partire dal 28 settembre 2003, data in cui fu trasmesso il primo episodio. In Italia è invece stata RAI2 a proporla in chiaro a partire dal 12 marzo 2005. Il 18 maggio 2010 la CBS ha annuncia la cancellazione della serie (che quindi ha cessato di essere trasmessa il 2 maggio 2010 negli Stati Uniti e il 26 febbraio 2011 in Italia).
Considerato l’alto numero dei police procedural (il filone dei telefilm a cui appartiene Cold Case e tra i quali c’è di sicuro anche il già citato CSI – Scena del crimine che è stato un prodotto televisivo dal successo planetario) è lecito domandarsi cosa renda speciale, per il nostro cineforum, questa serie rispetto alle altre.
E la risposta è da cercare in almeno due peculiarità che la Steihm confeziona per rendere la sua creatura appetibile: gli episodi sono contraddistinti da continui flashback che legano perfettamente il periodo nel quale viene commesso l’omicidio alle indagini della squadra investigativa che opera invece nel presente. Questa scelta narrativa consente (tenendo conto che il delitto più remoto di cui si occupano gli investigatori risale addirittura al 1919) di ricostruire l’intera storia del Novecento americano con i suoi drammi, le sue contraddizioni e le sue battaglie: dal razzismo al femminismo, dalla lotta per diritti civili all’affermazione dell’omosessualità.
Anche la colonna sonora (che è forse in assoluto la migliore mai ascoltata in una serie televisiva) contribuisce a creare questa diacronicità: ogni pezzo musicale che viene utilizzato è infatti una hit dell’anno in cui era stato consumato il delitto che gli investigatori sono chiamati a risolvere. La musica si trasforma in un collante che unisce il presente al passato e si assume l’onere della continuità narrativa. Interessante è poi la rappresentazione dell’io dei protagonisti, i quali, al termine di ogni indagine, vedono proiettata fuori di se l’immagine della persona deceduta, come se questa volesse ringraziarli dell’accaduto e finalmente riposare in pace.
Sono diverse le tematiche LGBT trattate nel corso delle stagioni di Cold Case, in particolare si parla spesso di omofobia. Del resto, una volta compresa la morfologia del telefilm, che fa della contestualizzazione storica la sua matrice specifica, diventa relativamente semplice costruire la vita di un gay prima dello Stonewall, o negli anni novanta in piena epidemia di AIDS.
A questi elementi si aggiunge il fatto che sia i personaggi principali che quelli collaterali sono chiamati a fare i conti con l’omofobia anche nei nostri giorni.
Basta pensare che nel decimo episodio della quarta serie, intitolato Segreti impossibili, un padre, pur di non ammettere di aver contribuito all’uccisione del figlio, avvenuta trentacinque anni prima, mente agli investigatori e fa finta di non conoscere le ragioni dell’odio di cui era vittima il ragazzo. Oppure al finale della seconda stagione, intitolato La mia migliore amica, in cui viene presentata una storia d’amore vissuta negli anni trenta da due donne che oltre al tabù dell’omosessualità debbono fare i conti con il tabù della razza, visto che una è bianca e l’altra è di colore.
Scheda del primo episodio
L’episodio a cui faremo riferimento è il settimo della prima stagione, andato in onda il 16 novembre 2003 negli Stati Uniti e il 2 aprile 2005 in Italia. Molto interessante è la ricostruzione storica dell’unico locale gay di Filadelfia e delle reazioni che il quartiere, ma anche la polizia, ebbero nei confronti delle persone che lo frequentavano.
Una signora di 75 anni chiede alla squadra investigativa di riaprire il caso della morte di suo figlio, giocatore importante di una squadra di baseball, avvenuta nei pressi di un locale gay di Filadelfia nel 1964. Quarant’anni sono molti e poche sono le informazioni che i detective trovano nel fascicolo dedicato al casao. Due sono gli indizi: un uomo che si fa chiamare Campanellino, e una telefonata anonima fatta la sera dell’omicidio
Titolo originale: A time to hate
Sceneggiatura: Yan Oxenberg.
Regia: Deran Sarafian.
Durata: 42 minuti.
Scelte musicali: Michael A. Levine.
Canzone iniziale: The Shoop Shoop Song (It’s In His Kiss), cantata da Betty Everett (1964).
Canzone finale: Turn! Turn! Turn! (To Everything There Is A Season), cantata dai Birds (1964).
Six Feet Under
Sia che sopraggiunga inaspettata, sia che arrivi come esito naturale di una vita, la morte rimane il più grosso tabù con cui la nostra coscienza deve fare giornalmente i conti: a maggior ragione in un mondo, come il nostro, in cui la giovinezza assume caratteri mitologici e orienta la vita delle persone facendo cercare loro tanti espedienti per nascondere i dati che compaiono sui documenti d’identità o per ringiovanire l’immagine che viene riflessa da un eventuale specchio.
Chi dunque potrebbe mai scegliere come soggetto principale di un telefilm la morte stessa? E con quali ingredienti miscelarla per rendere la ricetta digeribile?
Le risposte, si trovano tutte in Six feet under il cui stesso titolo non offre appigli ad interpretazioni di altro genere. É infatti di sei piedi (che nel sistema di misurazione statunitense corrispondono a un metro e ottantatré centimetri) la profondità a cui la legge degli USA stabilisce che venga seppellita una cassa da morto in America.
Ma come abbiamo già detto non è sufficiente un tema, per quanto sia potente, per rendere speciale un prodotto televisivo. Occorre quindi cercare gli altri motivi che spiegano il successo di questa serie che ha letteralmente inchiodato milioni di persone davanti al piccolo schermo non solo negli Stati Uniti.
Le vicende ruotano attorno alla Fisher, un’impresa di pompe funebri a conduzione famigliare, creata dal capofamiglia che è anche il primo deceduto della serie ed ereditata da David e Nate, i due figli maschi che abitano insieme alla madre Ruth e a una sorella minore che si chiama Claire. Intorno a questo nucleo centrale si muovono gli altri personaggi che completano la narrazione.
Quello che caratterizza le sceneggiature è un pungente, quanto ironico, senso dell’umorismo, che sdrammatizza l’atmosfera lugubre che il lutto reca con se: i dialoghi e le situazioni, spesso, sono al limite del surreale e il risultato è quello che la nostra peggior paura (quella della morte), non solo viene presa in giro, ma diventa anche un oggetto di cui si può tranquillamente sorridere con garbo e senza nessuna traccia di irrispettoso cattivo gusto.
Ad arricchire la narrazione è la trovata, già vista in Cold Case, di far dialogare i personaggi con le persone decedute (e tra queste ha un ruolo molto importante il capostipite dei Fischer) che, non viste, si muovono sulla scena come veri e propri fantasmi che possono invece vedere le situazioni. In questo contesto le conversazioni con i defunti e tra i defunti, non hanno soltanto lo scopo di approfondire numerosi aspetti religiosi e filosofici, ma riguardano anche la quotidianità della vita con i suoi paradossi e le fragilità con cui ciascuno di noi deve fare i conti. E tra queste “fragilità” ci sono anche l’omosessualità e l’omofobia.
Questa continua interazione tra morti e vivi e, di conseguenza, la sua capacità di mischiare dimensioni diverse e differenti livelli d’indagine interiore, ha portato alcuni critici a collocare Six feet under nel genere del “realismo magico”.
L’intera serie è costituita da 63 episodi suddivisi in 5 stagioni, andate in onda sul network via cavo HBO tra il 3 giugno 2001 e il 21 agosto 2005. In Italia, le prime 3 stagioni, sono state trasmesse in chiaro su Italia 1 tra il 2004 e il 2005. Le ultime 2 stagioni sono state invece acquistate da Cult che le ha trasmesse a pagamento. Tra il 2008 e il 2009 l’intera serie è stata riproposta in chiaro da Iris.
Il successo sia di pubblico che di critica ha consentito a questa serie di ricevere numerosi premi tra cui: due Golden Globes nel 2002 (come Miglior serie drammatica per la Miglior attrice non protagonista) e uno nel 2004 (per la Miglior attrice in una serie drammatica); due Emmy Awards nel 2002 (Miglior attrice ospite in una serie drammatica, Miglior regia per una serie drammatica) e uno nel 2006 (Miglior attrice ospite in una serie drammatica); tre GLAAD Awards (nel 2002, nel 2003 e nel 2005 come Miglior serie drammatica) e due Screen Actors Guild Awards nel 2004 (come Miglior cast per una serie drammatica e per la Migliore attrice protagonista in una serie drammatica).
Tra tutte le persone che hanno lavorato per la buona riuscita della produzione non possiamo omettere di citare Alan Ball che ne è stato regista, sceneggiatore, produttore esecutivo e drammaturgo. Nato ad Atlanta nel 1957. Ball è stato l’artefice del successo di American Beauty, vincitore nel 1999 di 5 premi Oscar, uno dei quali, quello per la miglior sceneggiatura originale, l’ha proiettato nell’olimpo di Hollywood.
Nel parlare di lui non si può non ricordare il fatto che Alan Ball sia un omosessuale dichiarato molto attivo nel sostenere le cause LGBT sia nella vita privata che nella sua attività professionale, come dimostrano tutte le sue opere: da quelle teatrali fino al cinema, passando per il piccolo schermo.
E nemmeno Six feet under poteva fare eccezione nel proporre un protagonista omosessuale alle prese con le difficoltà che, di volta in volta, anche a causa della sua omofobia interiorizzata è costretto ad affrontare.
Si tratta di David, il secondo figlio del defunto Nathaniel Fischer, interpretato da Michael C. Hall che ripeterà il successo già avuto con Six feet under, diventando poi protagonista di Dexter, dove veste i panni di un serial killer addestrato a catturare e a uccidere altri cacciatori di uomini .
Scheda del secondo episodio
Il riferimento è il quarto episodio della prima stagione intitolato Un consulente dall’altro mondo, in cui il tema dell’omofobia interiorizzata viene descritto attraverso una serie di dialoghi/monologhi che David immagina di avere con Paco, membro di una gang. L’episodio è stato trasmesso 24 giugno 2001 negli Stati Uniti il e il 31 marzo 2004 in Italia.
Manual Antonio Pedro Bolin, a causa di un guasto al motore della propria auto, è costretto a chiedere aiuto da un telefono pubblico situato in quartiere appartenente ad una gang rivale della propria. Crivellato di colpi, la famiglia si rivolge ai Fischer per le esequie: le cose si complicano per via del tipo di rito che i genitori, rispetto al figlio più grande, vorrebbero compiere. Nel frattempo, inizia un dialogo tra Paco e David, che riguarda il mancato coraggio che quest’ultimo ha nel dichiarare alla propria famiglia il suo orientamento sessuale, cosa che crea disagio al suo compagno, che vorrebbe invece una relazione alla luce del sole e un maggior rispetto nei confronti di se stessi
Titolo originale: Famiglia.
Regia: Lisa Cholodenko.
Sceneggiatura: Laurence Andries.
Morte: Manuel “Paco” Antonio Pedro Bolin (1980-2001). Ucciso in una sparatoria.
Durata: 50 minuti.