Omosessualità. Pensare e sognare una pastorale per la Chiesa: dai nodi teoretici all’Amoris Laetitia
Intervento presentato dal filosofo Damiano Migliorini al IV Forum dei Cristiani LGBT di Albano Laziale il 16 aprile 2016
In questo mio contributo – che vuole essere uno stimolo per la riflessione e il dibattito- cercherò d’articolare tre movimenti: (1) un preludio, un po’ a marcetta, biblico-pastorale; (2) un interludio, a mo’ di canone, lento e teoretico; (3) e una chiusura un po’ pizzicata, con qualche nota di dolcezza, un po’ lirica, ancora di carattere biblico-pastorale.
So che dovrei parlarvi principalmente del mio libro (L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi, Cittadella Editrice, 2014), ma mi permetto la libertà di non farlo. O meglio, preferisco farlo in modo diverso, cercando di ampliare alcuni temi, a partire magari da un passo biblico, e facendo interagire il mio libro con alcune provocazioni che ho trovato in quello del prof. Melloni (Amore senza fine, amore senza fini, Il Mulino, 2015).
Dovete sapere, infatti, che la lettura del suo testo mi ha messo in crisi, mi ha costretto a riflettere su alcune questioni su cui non mi ero soffermato. Questo in qualche modo conferma quello che ho sempre pensato del mio libro e del mio lavoro; L’amore omosessuale è solo un punto di partenza, l’inizio di un lavoro di riordino delle questioni, attorno alle quali è necessario lavorare ancora, e a fondo. Un terzo modo per parlarvi del libro sarà quello di “aggiornarlo”, cioè calarlo nel post-sinodo. Il libro è stato scritto in vista del Sinodo, e quindi non rende conto del tumultuoso dibattito a cui abbiamo assistito. In questo modo spero anche di raccogliere quanto è emerso nel workshop, e fare alcune considerazioni sull’Amoris Laetitia.
- Preludio: tra stoltezza e razionalità
Il primo passo che vorrei richiamare è 1 Cor 1, 27-29: «Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio». Parto da questo versetto perché leggendolo, qualche mese fa, non ho potuto fare a meno di collegarlo alle vicende del Sinodo, alle questioni morali, ma prima di tutto esistenziali, delle persone omosessuali. Perché? Assistendo al dibattito odierno, mediatico e bibliografico, è facile accorgersi di un dato di fatto: l’omosessualità appare ancor oggi, nella Chiesa, un non-senso.
Essa sembra uscire dai parametri logici del nostro argomentare teologico, dell’evidenza, di quella “natura” tante volte chiamata in causa. Allo stesso tempo, però, questo “non senso” è oggi divenuto visibile nel discorso pubblico, chiedendo diritti e rispetto, e ottenendoli. È una situazione curiosa, se vogliamo. Quel che un tempo era debole e disprezzato, oggi sta sconvolgendo i potenti, denunciando le storture di una presunta razionalità onnicomprensiva, che nella sua ricerca di disciplinare ogni cosa appare spesso totalitaria e disumana. Credo che le persone omosessuali debbano essere consapevoli di essere per la Chiesa – in questo frangente storico – una pietra d’inciampo, un segno di contraddizione, che la porta a contraddirsi, e di esserlo anche per il pensiero semplificatorio che, infondo, è sempre quello forte e dominante.
Se vista da questa prospettiva, allora, la “questione omosessuale” e la nuova “questione gender” sono, nel loro insieme, un vero e proprio “problema test” per la teologia cattolica. Perché implicano di andare alle radici più profonde dei propri dispositivi teologici, in morale come in ecclesiologia, in sacramentaria come in antropologia, in teologia fondamentale come in teologia dogmatica. Ancor più nel profondo implica di pensare lo statuto della verità cristiana, il suo rapporto con le capacità veritative umane, la relazione tra teologia e scienze umane. Lo abbiamo visto anche al Sinodo: questi temi sono davvero esplosivi, e su di essi si gioca qualcosa di più che un semplice aspetto di morale sessuale. In gioco vi è l’intera struttura di pensiero legata alla metafisica aristotelico-tomista, nonché una visione pre- o post-conciliare della Chiesa. Giocoforza, il Sinodo non ha avuto gli esiti sperati: forse non era un Sinodo il luogo più adatto per incamminarsi su un terreno tanto ampio e complesso, anche se alcune aperture di prospettiva, di metodo, come ho cercato di proporre in più occasioni, erano possibili.
Che dire, dunque, del Sinodo? In questo contributo non vorrei ripercorrerne le tappe, bensì rileggerlo a partire dal suo frutto: analizzare l’esortazione conclusiva ci permette, infatti, di fare qualche riflessione generale, di prospettiva e di metodo. Sull’Amoris Laetitia, però, possiamo fare solo qualche considerazione provvisoria. Provvisoria perché il testo è lungo, e ci vorrà molto tempo per meditarlo (n.7) e capirne la portata[1]. Un aspetto preliminare da rilevare è che chi, sulla scia dei giornali, cerca di definire questa esortazione “rivoluzionaria” o “conservatrice”, non ha ancora capito molto del modo in cui procede la coscienza ecclesiale. Nella Tradizione non esistono vere e proprie “rivoluzioni”, né “conservazioni”: esse sono sempre tutte presenti nella totalità della dottrina. Al massimo ci sono accenti, prospettive, atteggiamenti, riemersioni o dimenticanze. Direi, “maturazioni”. Un esempio per tutti: quando l’esortazione riscrive completamente il dogma tridentino sulla superiorità della verginità rispetto al matrimonio, è una rivoluzione totale, o una maturazione? Se accostiamo i due testi (quello di Trento e il presente), senza pensare alla storia concettuale che è intercorsa, potremmo definirla una rivoluzione. Ma sarebbe come dimenticare che tra il fiore e il frutto c’è una crescita, e che a volte si può maldestramente cogliere il frutto quando è ancora acerbo. Lo stesso dicasi per le dottrine: a volte si passa da una posizione all’altra per il semplice fatto che alcuni settori della teologia hanno sviluppato delle consapevolezze dottrinali nuove, e questo implica di riequilibrare precedenti posizioni; non in una logica di negazione, ma di emersione del cuore pulsante della dottrina. La teologia matrimoniale ha percorso un cammino lungo e accidentato – Melloni ne ripercorre efficacemente alcuni punti salienti – e le nuove consapevolezze sul matrimonio (pensiamo all’idea di famiglia come immagine della Trinità) hanno inciso sulla dottrina degli stati di vita cristiana. Quando la maturazione è condivisa, e l’aggiornamento diventa inevitabile, come abbiamo visto in questo esempio, non obietta praticamente nessuno: la rivoluzione è percepita come un ritorno all’origine, un riscoprire un deposito di verità che prima era in parte nascosto. Questo può essere un esempio illuminante sul percorso – realistico, ma anche speranzoso – che attende la teologia riguardo alle persone omosessuali. Ci torno a breve.
Sempre sull’esortazione, come è stato già fatto notare, essa si presta, un po’ per la lunghezza, un po’ per la complessità – e un po’ per alcune ambiguità – a letture in direzioni opposte; e non poteva essere altrimenti, del resto. Ormai è così radicata l’idea che esista un papa innovatore o conservatore che se anche avesse trascritto i decreti tridentini, alcuni li avrebbero presentati come innovativi, altri come traditrici, altri come un ritorno al medioevo. Non mi dilungherò nemmeno sui passaggi meravigliosi che contiene l’esortazione – che sono davvero molti – perché è giusto che ciascuno di noi se li gusti in una lettura meditata. Solo qualche piccolo appunto, dunque. Sui numeri 250-251 e 52 (relativi alle persone omosessuali) non ho molto da aggiungere rispetto all’articolo che ho già pubblicato[2], perché essi non si discostano quasi per nulla da quanto detto a fine Sinodo 2015. A livello di analisi redazionale, è interessante notare che nei punti caldi dell’esortazione, il papa chiami in causa direttamente i Padri Sinodali, i quali “hanno detto”, “hanno fatto”, “hanno ricordato”. Su i nn. 250-251 dedicati all’omosessualità questo avviene quasi a dire che il papa se ne tiene fuori: riporta quanto detto, senza intervenire. Pregevole è la sottolineatura di evitare, per le persone omosessuali, «ogni forma di aggressione e violenza»: considerando cosa avviene in certi paesi non-occidentali – e considerando la connivenza delle chiese locali con certe politiche oppressive – penso sia un’affermazione che, sebbene potesse essere più esplicita, tolga ogni alibi.
Mi preoccupa un po’, per l’imprecisione concettuale che la contraddistingue, la terza affermazione del n. 56, dedicata al gender. Purtroppo, sembra ci sia una parte della Chiesa fermamente intenzionata ad affidarsi a un linguaggio parascientifico, formulando sentenze che producono fraintendimenti. Così come, l’ “obiezione di coscienza” prevista per le scuole cattoliche, posta così in modo generico, mi suscita delle perplessità molto forti. Molto confuso è anche il n. 285 (in cosa consiste, esattamente, accettare il proprio corpo e la propria mascolinità?). Sulle famiglie omogenitoriali è categorico il n. 172 (e 175), a cui s’accompagnano non pochi numeri descrittivi del genio femminile e dell’identità-virilità maschile che ribadiscono una visione della complementarietà uomo-donna su cui oggi la nostra società sembra allontanarsi completamente. Fortunatamente, a sfumare una posizione ancora fortemente caratterizzata da un approccio essenzialista, vi è il n. 286, dove si afferma che «il maschile e il femminile non sono qualcosa di rigido», e denuncia in modo concreto gli stereotipi circa i ruoli di genere. Un ottimo passo avanti.
Da più parti, negli articoli di commento, si è sottolineata l’enfasi data al bisogno sessuale, al piacere e all’erotismo (nn. 150-152), ma non c’è nulla di nuovo in queste formulazioni, giacché è chiaro che sia il bisogno che il piacere, per essere davvero buoni, devono essere sublimati («passione sublimata dall’amore», n. 152). Non c’è alcuna legittimazione del piacere al di fuori del quadro normativo-teleologico consueto (si veda il richiamo della concatenazione tra significato procreativo della sessualità, il linguaggio del corpo e i gesti d’amore del n. 215, o al n. 284, e il n. 80[3]). Il n. 125 non apre certamente alla possibilità di scindere il significato procreativo dall’atto sessuale (basta leggere la terz’ultima affermazione). M’incuriosisce di più l’affermazione del n. 149: «La questione è avere la libertà per accettare che il piacere trovi altre forme di espressione nei diversi momenti della vita, secondo le necessità del reciproco amore». Vorrei capire in cosa consistono esattamente queste forme di espressione.
Anche il richiamo alla coscienza (n. 37 e 298 in particolare, tra molti altri) è sicuramente piuttosto ricorrente, e indica un’attenzione nuova su questo tema. Quel che forse dovremmo tenere a mente è che il carattere peculiare della teologia cattolica è la sua unità dottrinale: ciò che si dice su un aspetto ha ripercussioni (ed è a sua volta influenzato) dal resto della dottrina. Questo sta all’origine delle difficoltà di aggiornamento, ma è anche foriero d’innovazione per osmosi. Non possiamo prevedere, ad esempio, quale sarà l’impatto innovativo dei principi espressi ai numeri (304-306, 308, 311-312 o 325), dove, tra l’altro, si afferma che entro una situazione oggettiva di peccato non si è necessariamente in peccato mortale[4]; o del n. 3 sull’inculturazione, dei nn. 136-141 sul dialogo, e del n. 132 (l’amore va riconosciuto pubblicamente); anche eliminare in modo definitivo la superiorità della verginità rispetto al matrimonio, sono convinto avrà qualche contraccolpo (158-162). Non è chiarissimo, oltretutto, se le possibilità di sviluppo dottrinale aperto da quell’«analogo» del n. 292, siano chiuse, circa l’omosessualità, dall’esclusione di ogni analogia al n. 251. È possibile, comunque, che l’atteggiamento riservato alle coppie irregolari eterosessuali, si possa estendere, nella Chiesa, a quelle omosessuali; sempre per ipotesi.
Sul tema dell’Eucarestia, che mi sta particolarmente a cuore, devo dire, alla luce del n. 186, che l’Eucarestia è ancora un premio per i perfetti. Sebbene, al n. 305, attraverso l’esplicita nota 351, si apra all’ipotesi che in un’oggettiva situazione di peccato, l’Eucarestia possa essere concessa. Ma si tratta, per il momento, di accostamenti e suggestioni. Mi sembra che l’intero capitolo quarto (i bellissimi nn. 89-164), dove viene descritto l’amore nel matrimonio a partire dall’Inno alla Carità di San Paolo, possa essere una guida perfetta anche per la coppia omosessuale; è applicabile interamente, anche perché i richiami alla generazione sono estemporanei e poco integrati nel discorso. È forse un sintomo: l’amore nel matrimonio potrebbe essere efficacemente descritto anche senza la procreazione (l’amore fecondo è al capitolo successivo).
A prescindere da queste considerazioni spurie e sconnesse, diamoci il tempo di approfondire con calma questo testo, le cui potenzialità saranno chiare – se ve ne sono – solo nel tempo, a mano a mano che emergeranno gli aspetti di novità – se ve ne sono – e le eventuali conseguenze inintenzionali che l’approccio proposto dall’esortazione può generare. Queste sì, vi sono sempre. Torniamo però al nostro Forum e al tema di questo paragrafo. Sul discorso della razionalità e di quella stoltezza che confonde i sapienti, mi ha fatto tornare a riflettere un passo del libro di Melloni. Ve lo leggo: «L’amore affermato come possibilità reale del matrimonio è rimasto prigioniero della palude dei “fini”, nel miraggio di tutelarli per legge»[5]. Accanto ad altri passaggi, e pensando al titolo, credo che qui sia un po’ il nucleo portante del libro. Altrove Melloni parla dei fini del matrimonio come di una “fioca fiammella”[6]. Vi spiego perché questi passaggi mi hanno positivamente turbato: perché tutto il capitolo del mio libro dedicato alla legge morale naturale non è che un tornare sulla questione dei fini del matrimonio e dell’atto sessuale. Mi sono chiesto, dunque, se questo mio capitolo avesse un senso. E non vi posso dire di aver trovato una risposta…
Vi illustro però le domande che mi sono fatto, e che pongo anche al prof. Melloni, per avviare così un dialogo. Mi sono chiesto se davvero possiamo fare a meno (o fino a che punto) del discorso razionale dei fini, quando parliamo del matrimonio e degli atti sessuali, o più in generale delle azioni umane. Quando parliamo di comportamenti morali, infatti, un generico richiamo all’amore o alla benevolenza non sembra essere sufficiente, perché rischia di rinchiudersi in un soggettivismo o un emozionismo dentro il quale vige solo l’arbitrio dell’individuo. Melloni stesso, mi sembra, a p. 80, pone dei criteri per definire i confini dell’amore, individuandoli nella capacità di dono e di perdono.
Questo ci fa intuire che di criteri razionali e condivisibili abbiamo bisogno. Resta da capire quali sono. Sui due individuati da Melloni concordo pienamente: il mio libro in buona misura si gioca nel mostrare che sono ciò che connota anche l’amore omosessuale, come ogni altra forma di amore erotico[7].
Eppure, non ho potuto non proseguire nel pormi le domande. Sul dono, infatti, la Chiesa ha costruito buona parte del suo edificio teologico circa i fini, mostrando, ad esempio, come proprio il dono totale di sé nella copula implichi l’apertura alla vita[8]. Certo, forse questo percorso dal dono al senso procreativo non è del tutto lineare, eppure è possibile. Insomma, sembra che non sia poi tanto facile disfarsi del discorso sui fini. O meglio, posto che abbiamo bisogno di criteri, ci dobbiamo chiedere se tale discorso non sia, in fondo, il meno peggio che possiamo fare. Probabilmente lo abbiamo fatto con qualche errore, con i paraocchi e con stereotipi e pregiudizi antiscientifici e condizionati da una vecchia metafisica, ma dobbiamo comunque continuare a farlo, innovandolo.
Ecco, se avete letto il mio testo, avrete intuito che la mia strategia va un po’ in questa direzione: mantenere il discorso sui fini e sulla legge morale naturale, ma innovandolo, facendogli esprimere ciò che può esprimere. Non dico di esserci riuscito (anzi, più studio e più ne dubito), e non sono nemmeno certo che sia la strategia migliore. E tuttavia, penso sia una strada che vada almeno tentata. Se non altro per alcune considerazioni molto pragmatiche: la dottrina della legge morale naturale, di cui il discorso sui fini è parte integrante, sembra essere indispensabile alla Chiesa, e non penso verrà abbandonata, né ora né mai. Forse allora conviene prenderla come un dato di fatto e lavorarci all’interno. Ripeto, sono poco più che intuizioni.
- Interludio: difficoltà e possibilità
Allora la domanda diventa una sola: come? Davvero la dottrina della legge morale naturale applicata alle questioni di morale sessuale permette un’integrazione delle istanze provenienti dalle minoranze sessuali? Nel rispondere a questa domanda, mi muovono due convinzioni: la prima è che la dottrina morale cattolica abbia una sua intelligibilità, una sua ragionevolezza; la seconda è che non riesco a rassegnarmi al fatto che in questa intelligibilità non possa trovare posto l’amore omosessuale. In ciò che è ragionevole e buono, non può non trovare posto ciò che è ragionevole e buono. Forse la cosa fondamentale è non scambiare la razionalità per la semplicità, o ancor peggio, con la semplificazione, e il buono con l’evidente, o l’istintivo. Sono anche convinto che una verità che non permette all’uomo di fiorire a partire dalla sua condizione concreta è una verità dubbia. Ed è precisamente su questo, credo, che la Chiesa dovrebbe cominciare a interrogarsi senza esitazioni.
Personalmente sono persuaso (ma se n’erano accorti in molti, prima di me) che l’antropologia cristiana fatichi ancora a relazionarsi con il concetto di orientamento sessuale, ed è esattamente per questo motivo che le istanze del mondo omosessuale sono un problema test per la teologia cattolica. O meglio, più che per l’antropologia cristiana, è per molti teologi che risulta ancora difficile ammettere che esistano orientamenti innati e stabili diversi da quelli eterosessuali, e che questo debba avere una ricaduta nella nostra visione antropologica, e nella nostra teoria morale. Il conflitto con il paradigma scientifico contemporaneo nasce, allora, dall’acquisizione moderna secondo cui l’orientamento sessuale non sembra avere a che fare solo con la funzionalità degli organi, ma col desiderio, il quale è un fenomeno psicologico che si struttura durante l’evoluzione del bambino. Tale evoluzione mal si concilia con una forma sostanziale. In una prospettiva metafisica (aristotelica, finalistica), se l’anima determina le funzioni sessuali del corpo, dobbiamo presumere che essa sia intrinsecamente eterosessuale. Così, la definizione dell’omosessualità come disordine segue dal presupposto metafisico dell’esistenza di questo tipo di anima, non dall’osservazione della natura in se stessa. Quest’ultima ci mostra che l’orientamento è prevalentemente eterosessuale, ma non ci dice che debba essere così per tutti. Quando la Chiesa parlò di tendenza innata, aprì, effettivamente, una crepa nella coerenza della dottrina.
Accettare l’esistenza di un orientamento omosessuale che si scopre (non si sceglie), dunque, ci costringe a rivedere almeno in parte l’insieme delle inclinazioni naturali che ci permettono di individuare i beni che rientrano nella legge morale naturale. O almeno ci aiuta a non generalizzare in modo ingenuo. Sembra infatti che l’uomo sia inclinato, nell’atto sessuale, all’unione fisica e spirituale con l’altra persona, ma non sempre in tale atto sia implicata procreazione: non è impensabile che l’amore omosessuale, in quanto amore e cura reciproca, sia ordinato all’unico fine specificatamente umano (il fine ultimo, cioè l’amore). L’orientamento all’altro sesso è sicuramente la via preferenziale, ma è possibile che ve siano altre, carenti nella dimensione procreativa, ma non per questo implicitamente illecite. Il fine (o bene) procreativo, quindi, se è vero che è parte della legge morale naturale, necessita o di un’interpretazione più ampia o di essere esigito solo in determinati contesti. Non è un capriccio: è la natura stessa (pensiamo all’orgasmo femminile, che è slegato dall’ovulazione) a dirci che può essere così, è la stessa legge morale naturale a poterlo riconoscere per restare coerente.
Risolvere i conflitti tra paradigmi significa accettare che abbiamo dei corpi (con relative funzioni biologiche), ma che ai corpi si ascrivono dei desideri (anche sessuali) che hanno finalità più complesse della semplice riproduzione della specie. I corpi esistono come corpi desideranti, e il desiderio è polimorfo perché condizionato da un’anima la cui essenza è modificata dalle dinamiche relazionali che ci intessono fin dal primo vagito: la forma-anima che ci viene impressa da Dio non è un software che ci determina nel nostro naturale desiderare (volto necessariamente all’unione procreativa tra uomo e donna), bensì subisce l’avventura della storicità esistenziale, e della relazionalità ontologica. L’apprendere nella relazione che costituisce la peculiarità dell’uomo – e della sua forma-anima che in quell’apprendere si forma a sua volta – lo rende peculiare anche nelle espressioni sessuali, che spesso escono dalla necessità biologica, pur non contraddicendo la natura umana generale che le integra e sovrasta.
L’impossibilità di pensare a uno sviluppo diverso da quello lineare “sesso biologico-identità di genere-orientamento eterosessuale” sta alla base dell’incapacità di concepire l’esistenza di identità sessuali differenti come varianti possibili e sane della sessualità umana. Tale impossibilità risiede in una rigida interpretazione teleologica, nella quale il corpo umano (e quindi il suo desiderio) ha come unico fine la procreazione biologica, e questo è l’unico ordine possibile corrispondente alla natura umana. Ipoteticamente, invece, possiamo pensare che l’analisi del desiderio ci aiuti a depurare le nostre concezioni ingenue sulle finalità della persona umana e dei suoi atti, a partire da un’analisi onesta dei meccanismi bio-psicologici. La natura umana è un po’ più complessa di come pensavamo che fosse, e se la dottrina della legge morale naturale si basa sulla natura, allora deve condividerne il processo di disvelamento, in un gioco di riequilibrio costante tra dati induttivi e speculazioni a priori (sull’essenza). In questo modo potremmo restare tomisti pur accogliendo una visione dell’identità sessuale molto più articolata di quella tommasiana. Il percorso è appena agli inizi, ma penso sia importante provare a muoversi in questa direzione. Sono d’accordo che ci vuole umiltà e pacatezza, senso del limite, nel proporre delle ipotesi di approfondimento della dottrina[9]; questo però non implica che non si possano rendere pubbliche delle riflessioni – ben argomentate e ben documentate, secondo lo statuto della disciplina – anche se ancora parziali.
Ho letto con interesse, per esempio, il testo di p. Oliva[10] – che sicuramente avrete sentito nominare. Attenendosi all’impostazione tommasiana e facendola interagire con la teologia post-conciliare, secondo Oliva, è possibile elaborare un pensiero che renda conto del “contro natura naturale”, coerente con l’antropologia metafisica e teologica dell’Aquinate. Nel mio libro avevo sviluppato l’idea di Tombolato di una condizione naturale moralmente eccentrica, che in buona misura coincide con il contro natura naturale. La ricerca dell’unione nel piacere si colloca ex parte animae (nella forma sostanziale), e questo permette di distinguere la sodomia come vizio dall’omosessualità come natura individuale. Il piacere sessuale (anche omosessuale) dipende dall’anima, quindi dalla razionalità (e relazionalità) della persona. Il passaggio dall’essenza all’individuazione, dunque, può comportare delle alterazioni (esattamente come nel caso della specificazione maschile o femminile), e in questo si possono generare inclinazioni proprie solo di alcuni individui. Fin qui ho preso spunto da Oliva.
Tutte le inclinazioni individuali sono dunque buone? Questo è un problema non secondario, e che richiede una riflessione ulteriore, che forse fuoriesce dalla considerazione strettamente antropologica. È possibile che la risposta risieda nella valutazione dei fini a cui tali inclinazioni mirano, e al benessere psico-fisico complessivo che determinano nell’individuo. L’inclinazione omosessuale, mirando ad almeno un fine buono, se non addirittura il “più buono” dopo Dio stesso (e cioè la comunione con un’altra persona), e non danneggiando l’individuo, può rientrare tra le inclinazioni individuali buone. Nella direzione di Oliva vanno anche le considerazioni di Cahill[11] – un’autrice in linea con il pensiero di Nussbaum – secondo la quale il progetto morale umano va elaborato a partire dal corpo reale, dalle sue inclinazioni, dalle sue funzioni e leggi, dai suoi bisogni innati.
Non dobbiamo illuderci che sia un percorso semplice, nel quale tutti confluiranno spontaneamente. L’osservazione del mondo (etero-dominante) e del testo biblico (che presenta un uniforme simbolismo nuziale eterosessuale[12]), e la dottrina filosofica circa i fini convenienti, si rafforzano vicendevolmente, creando un sistema debole nei suoi nodi, ma forte nel suo insieme. Per metterlo in discussione non è sufficiente indebolire i nodi, ma proporre un sistema alternativo solido. L’integrazione di nuovi dati sperimentali\induttivi in un’impostazione metafisica o in una tradizione teologica è sempre un procedimento complesso e circolare, che segue tempistiche e traiettorie imprevedibili.
Per un cristiano ortodosso, l’amore omosessuale nega l’armonia dei tre nodi, in cui tutto torna perfettamente. Questa negazione simbolica ha a che fare, ovviamente, con il mistero nuziale (e l’unità duale). Di fronte al crollo della sostenibilità di ogni altra argomentazione filosofica contro l’amore omosessuale, affermare che l’omosessualità nega il mistero nuziale appare oggi l’argomentazione preferita dai teologi conservatori. Possiamo dire che essa si basa su questi passaggi: (1) osservo che esistiamo prevalentemente come maschi e femmine, che i nostri genitali sono fatti “a incastro” e per la procreazione, e che dalla convergenza di amore e atto sessuale emerge miracolosamente una terza persona (piano ontologico, o fenomenologico); (2) deduco che Dio attribuisca a questa realtà un valore immenso, quindi che l’amore eterosessuale procreativo sia l’unico lecito (piano normativo, o morale).
Il passaggio dal piano ontologico al piano normativo-morale dipende fortemente dalla nozione di mistero, cioè dall’idea che Dio attribuisca all’unione maschio-femmina un posto speciale nell’economia della salvezza. Sebbene non abbiamo reali argomentazioni filosofiche per spiegare l’esserci del dimorfismo (a parte – forse – l’efficacia riproduttiva e di adattamento), dal testo sacro e dal mondo attuale acquisiamo che l’amore tra uomo e donna è positivo e fondamentale, almeno nella condizione creata. Da cui deriva la percezione del mistero dell’imperscrutabile volontà divina di crearci in questo modo (sessuati ed etero-amanti). Lo slittamento dall’ontologico al normativo, è reso dunque possibile dall’idea inconscia per cui un mistero sia anche un destino (un progetto di Dio su qualcosa). Non accettare questo destino – cioè attuare una sessualità diversa da quella eterosessuale riproduttiva – significa negare il mistero nuziale, quindi una volontà divina. Se il peccato è la ribellione alla volontà di Dio, infrangere certe leggi naturali (volute da Dio, nelle quali si manifesta la sua volontà) è ovviamente uno dei peggiori peccati. Di qui la gravità che è stata sempre attribuita al peccato di sodomia, che pervertirebbe questo mistero-disegno.
L’omosessuale è reo di opporsi a un destino (il mistero nuziale che Dio vuole per tutti, cioè il progetto di Dio sulla sessualità), che paradossalmente non sembra essere il suo. Ovviamente, considerare il mistero nuziale come un destino all’eterosessualità riproduttiva, e considerare ogni azione che non attui compiutamente quel destino (progetto) come una negazione del mistero (progetto), crea dei cortocircuiti teologici, soprattutto riguardo la scelta di vivere la sessualità in forma celibataria. C’è comunque, credo, qualcosa che non torna: se scopro che esistono le pesche oltre alle albicocche, e affermo che anche le prime sono gustose e buone, non sto negando che le seconde siano un ottimo frutto. Sto solo costatando che ne esistono altri, e quindi nego l’idea che vi sia un solo frutto, e che ve ne sia uno solo di buono. Questo, lungi da essere un attacco alle albicocche, è solo la constatazione dell’esistenza di una realtà più ricca di quella che conoscevo prima. Devo un po’ allargare il mistero, quindi, ritenendo misteriosa non solo l’esistenza delle albicocche, ma l’esistenza – insieme – di albicocche e pesche, entrambe buone. Ci sarebbero reali problemi speculativi solo se l’esistenza delle albicocche contraddicesse quella delle pesche, ma non mi sembra questo il caso.
La coppia omosessuale non è dunque una negazione simbolica: come nessuno biasimerebbe la scelta di prendere il treno se si ha paura di volare, Dio non si offende se l’omosessuale dispone della sessualità nel modo in cui scopre di possederla. Seguire un ordine proprio non significa negare un ordine generale, bensì riconoscere che in certi casi vi sono fattori che determinano un ordine diverso. Forse il progetto-destino di Dio sulla sessualità umana è un po’ più ampio di quel che crediamo. Non sappiamo perché nel mondo siamo maschi e femmine, etero e omo (e bi, e trans), neri e bianchi, con migliaia di lingue diverse, con così tante specie animali… Il disegno di Dio su tanta diversità rimane un mistero. Però, se mi è concesso, tra due misteri, accetterò quello che, a parità di ragionevolezza, permetta al maggior numero di persone di fiorire. Preferisco dunque accettare che misteriosamente Dio abbia predisposto l’esistenza di diversi orientamenti sessuali, con percentuali variabili nella storia, all’interno di un dimorfismo prevalente. Mi sembra una sospensione del giudizio più che legittima, nella complessità dei dati di cui oggi disponiamo.
Del resto, spesse volte, nella storia, la Chiesa ha spacciato per “volontà divine”, “disegno di Dio”, delle verità umane, troppo umane; e diciamocelo, non ci ha fatto una bella figura. Per amore della Chiesa, dunque, abbiamo il dovere di esprimere le nostre perplessità, con dolcezza, serenità e fermezza; per evitare che ricorra con troppa facilità a idee che non tengono conto della realtà, per richiamare un motto di Papa Francesco[13]. Il vostro inno[14] dice appunto: «La tua saggezza io non la comprendo, ma è perfetta e troppo grande per me». Tornano alla mente le parole che «l’Onnipotente che non opprime» (Gb 37,23) rivolge a Giobbe come un monito: «Quando ponevo le fondamenta della Terra, tu dov’eri?» (38,4), per ricordargli che l’ordine della provvidenza è ben più ampio di quel che Giobbe e i suoi amici credono di aver compreso. Così, il povero Giobbe si mette la mano sulla bocca (Gb 40, 4) e riconosce che ogni progetto è possibile a Dio (42,2).
Certo, il rimando a un mistero – frequente nella teologia cattolica – può essere tacciato, dai più rigoristi e razionalisti, d’essere oscuro e irrazionale. E in parte lo è. Tuttavia, mi preme sottolineare che esso parte da costatazioni scientifiche e speculazioni razionali, e pertanto si pone a coronamento (proprio come tutti i misteri divini) di un percorso di ragione. Non c’è dubbio tuttavia – e di questo i cristiani omosessuali devono essere consapevoli – che una prospettiva di senso complessiva, nella quale trovino posto i poli dell’esaltazione (biblica e funzionale) dell’unione uomo-donna e il rispetto della positività delle minoranze sessuali – non è ancora stata formulata in modo soddisfacente. È vero, d’altro canto, che in attesa di questa visione d’insieme[15], esistono problemi urgenti da risolvere: è importante offrire alle persone omosessuali un percorso di vita (anche di coppia) cristiana realistico, conforme al bene possibile raggiungibile nella condizione data. E penso che la teologia possa muoversi in tale direzione, chiamando a favore di una prassi nuova l’incertezza dottrinale e il bene supremo delle persone di cui s’intende prendersi cura[16]. Dove c’è un amore sufficientemente evidente, un prendersi cura che umanizza, abbiamo gli elementi per procedere in tal senso.
Spero abbiate colto qual è la sfida degli anni futuri: pensare teologicamente l’orientamento sessuale. Questo sarà il compito di una futura “teologia delle sessualità”. Questa sfida si traduce, concretamente, nel comprendere perché il piano\disegno provvidenziale di Dio preveda la possibilità che ci sia una minoranza di omosessuali, transessuali, intersessuali, bisessuali. Fino a spingerci, eventualmente, a chiedersi se il piano divino possa comprendere una bisessualità diffusa. Dobbiamo esercitarci in queste ipotesi e comprendere dove ci conducono. Ripeto, può essere che non arrivino da nessuna parte. Eppure, a me sembra importante chiedersi qual è il ruolo che questa ricchezza di forme ha nell’ordine della Provvidenza. Anche perché, nell’ottica di maturazione descritta in precedenza, questo permetterebbe di far maturare una dottrina senza negarla o contraddirla, ma aggiungendo consapevolezze nuove circa una parte della realtà.
E se arriveremo a una svolta, suggeriva Chiavacci, «non si potrà dire che la Chiesa nel passato abbia ‘sbagliato’: ha detto quello che era da ritenersi giusto nel quadro delle conoscenze filosofiche e scientifiche e dell’esperienza umana di cui disponeva. Oggi, nella stessa prospettiva, occorre un profondo ‘cambiamento di paradigma’. E, come era prevedibile, è nata anche una vera fobia del cambiamento: ciò non deve meravigliare. Si tratta di fenomeni epocali che richiedono tempi secolari di comprensione ed accettazione»[17]. Nei tanti testi letti in questi mesi, ho trovato le considerazioni di un autore, che vorrei condividere con voi. Parlava delle questioni legate al genere, affermando che la Chiesa dovrà superare una diffusa paura, la paura dell’uomo diverso, e lo potrà fare percependo questa diversità come «veste del possibile e orizzonte creativo della storia»[18]. Superare la paura significa vedere un’opportunità: «E se fossero la femminilità, la transessualità, la follia e le altre diversità a costituire il volto dell’uomo che cerchiamo […] o i lineamenti irrinunciabili di quello stesso volto? […] E se non fosse possibile la conoscenza e l’accoglienza di questo volto fino a quando non fosse capita e accolta l’omosessualità?»[19].
La domanda non sarebbe più, dunque, perché siamo stati creati come esseri sessuati maschi e femmine, ma perché siamo stati creati sessuati e inclini a provare attrazione per altri esseri sessuati. A livello di affettività, è chiedersi perché ci innamoriamo in modi così diversi, chi per l’altro sesso, chi per il sesso opposto, chi per entrambi. Perché a partire da corpi simili ci comportiamo, affettivamente, in modi tanto diversi? Perché alcuni decidono di rinunciare alla sessualità, per un’affettività, un desiderio, che si rivolge all’Infinito-Dio? Perché tutti gli altri esseri umani, invece, si “accontentano” di relazioni con il finito che è l’altro da me? Chi si sta sbagliando? Oppure sono entrambi nel giusto? La relazione affettiva con l’altro, mi porta verso l’Infinito? E allora perché alcune persone – i celibi – non sanno scorgere nel desiderio sessuale questo rimando all’Infinito-Dio, e preferiscono rinunciarvi, per un rapporto diretto con l’Infinito-Dio? Di nuovo: perché tanta ricchezza nella creazione?
Una risposta teologica potrebbe essere che siamo a immagine della Trinità in quanto desideranti. Nulla esprime la Trinità se non la dinamica del desiderio, di tre persone che si amano, si desiderano, vogliono la loro fusione pur restando in Sé, vogliono l’esistenza di altro da Sé.
Risolvere i problemi con l’orientamento sessuale significa anche accettare che la sessualità non è un fattore privato, ma viverla è un atto eminentemente politico, e quindi pubblico. Perché riguarda gli affetti, l’autenticità, l’autostima. O meglio, la Chiesa ha capito benissimo che la sessualità è sociale, ma vuole visibile solo quella eterosessuale. Il motivo è piuttosto semplice: uscendo allo scoperto, e organizzandosi, gli omosessuali escono dal non-detto, si scoprono come categoria e come gruppo, portatore e portatori di diritti. Nella solitudine del privato ciò non può avvenire, e le coscienze sono più facilmente manipolabili attraverso la paura. Certo, ogni categoria, compresa quella di omosessuale, può essere criticata e relativizzata perché crea un’essenza, e tuttavia la sua creazione è un passaggio storico imprescindibile, perché permette alle minoranze di passare dall’essere anonime all’essere nominate, identificabili, quindi capaci di agency. In un secondo momento, una volta che il silenzio è rotto, si potrà focalizzare l’attenzione sulle peculiarità di ciascuna persona all’interno della categoria, relativizzandola. Questa dinamica di aggregazione-emersione-ritorno alla singolarità mi sembra abbia caratterizzato tutti i movimenti di liberazione, quello omosessuale incluso. Insomma, il passaggio dal silenzio alla visibilità permette proprio di porsi la domanda sul ruolo di una minoranza nel piano di Dio. È questo che dà fastidio, ed è a questo che mirano le campagne intimidatorie anti-gender: si vuole tornare al tabù, soprattutto nelle scuole, e al silenzio.
Sulla campagna anti-gender, non mi soffermo, nonostante ci sarebbe davvero molto da dire. Dobbiamo però essere consapevoli che, nonostante i contenuti delle speculazioni teologiche circa il genere ripropongano oggi in buona misura i fantasmi del passato, questa campagna ha assunto una forma, dei toni, e un’aggressività (e capillarità), senza precedenti. Sarà destinata a lasciare segni profondi nei rapporti tra la Chiesa e il mondo contemporaneo, se non ci decideremo, come cristiani, a isolare e denunciare quella parte reazionaria della Chiesa che sta manovrando questa campagna, condizionando vertici e documenti. Per non parlare delle ferite inferte nuovamente alle persone appartenenti alle diverse minoranze sessuali, e alle donne; alla libertà e all’autonomia dell’indagine scientifica. Sarà una sfida culturale cruciale: questo va detto e riconosciuto, perché ne siamo tutti coinvolti, come laici, come cristiani, e come cittadini.
- In chiusura: sognare e progettare una pastorale per la Chiesa
Palando di nascondimento e di riconoscimento, viene spontaneo dunque tornare al momento biblico. A quel passo in cui, dopo il discorso delle Beatitudini, cui quello di Paolo letto all’inizio fa da eco, Gesù ci ricorda che “non può restare nascosta una città collocata sopra un monte”. Chi è consapevole di portare una luce, deve uscire, manifestarla (Mt 5, 14). E qui la domanda diventa inevitabile: qual è il proprium della presenza omosessuale nella Chiesa e nella società? Certo, qualcuno potrebbe obiettare che cercare il proprio posto è un tentativo di “redenzione”, è il tentativo d’integrare il sesso deflagratore nel discorso borghese, un pericoloso cammino verso l’omologazione, l’omonazionalismo, un omofamilismo o quant’altro; una redenzione che sottende la percezione di essere errati. Critica che accetto se inserita in un contesto assoluto d’osservazione del fenomeno omosessuale; ma qui noi ci proponiamo d’osservarlo dall’angolatura specifica e relativa del discorso cristiano sulla sessualità, che ha delle coordinate fondamentali imprescindibili.
Sarebbe interessante sviluppare questo punto; in effetti, da alcuni autori, la copula omosessuale è intesa proprio ciò che “è senza fini”, è sesso in sé, non concettualizzato. Siamo sicuri che sia proprio così? Potremmo anche chiederci se gli atti sessuali d’amore abbiano bisogno di redenzione; sarebbe un buon test per capire in che prospettiva filosofica ci collochiamo, come cristiani. Se amore e redenzione coincidono, e se Cristo ha trionfato, quali realtà attendono una redenzione, e in che forma? Probabilmente, riguardo al sesso, è la sua intrinseca natura anti-sociale, non-relazionale (checché se ne dica…), che può essere soprannaturalmente (per grazia) redenta. Questa ipotesi – utopica dal punto di vista filosofico – in una prospettiva cristiana mi sembra difficilmente evitabile.
Ma sono questioni che non possiamo sviluppare qui, e che lascio a mo’ di provocazione. Senza addentrarmi nella critica suddetta, dunque, continuo a chiedermi: che pastorale offriamo noi, come omosessuali, agli altri cristiani? Che servizio stiamo facendo loro con la nostra presenza manifesta? Siamo convinti, vero, che stiamo facendo un servizio, e non siamo solo i classici parrocchiani rompiscatole che vogliono visibilità?
Capisco che qui stiamo facendo una capriola non facile: da soggetti ricevitori di una pastorale, stiamo cercando di pensarci come portatori di una pastorale a favore degli altri. Dal chiedere dalla Chiesa una pastorale speciale, ci stiamo chiedendo se siamo noi a poterne offrire una alla Chiesa. La parte pastorale del mio libro, modesta nei contenuti, ma piuttosto ampia, si sofferma sulla prima: che pastorale la Chiesa dovrebbe offrire, con che linguaggi e con che parole. Ma qui in questo Forum stiamo ragionando su un fatto, e cioè che nelle nostre condizioni esistenziali, “siamo fatti come un prodigio”. Se davvero ci crediamo, la capriola non è solo possibile, ma diventa necessaria. È una bella sfida, oltre che una bella prospettiva, non trovate?
Ma vi avevo promesso una digressione un po’ romantica. E non c’è modo migliore di affrontare una sfida che sognare il risultato, prefigurandoselo. E allora, se chiudo gli occhi – potete chiuderli anche voi, e sognare per un istante – dicevo, se chiudo gli occhi, immagino un sacerdote, che va alla porta perché è suonato il campanello, e si trova di fronte una coppia di giovani omosessuali, che lui stesso conosce da molto tempo, che sono cresciuti nella parrocchia. Li saluta cordialmente, e i due gli annunciano che hanno intenzione di sposarsi. Immagino il sacerdote emozionarsi e gioire, di fronte al miracolo di un Dio che bussa alla sua porta, attraverso l’amore di due persone. Impazzire di gioia, di fronte al miracolo di due persone adulte che per un misterioso intreccio di cause si trovano a dirsi, per sempre: “Voglio prendermi cura di te”. Non dovrebbe un sacerdote essere il più preparato a scorgere negli eventi i miracoli di Dio? Immagino il sacerdote, che dopo essersi congratulato con loro, per la scelta coraggiosa di condividere la propria vita all’ombra del Signore, torna nelle sue stanze per recuperare l’agenda e vedere quando la Chiesa è disponibile per celebrare questo momento di gioia con la comunità. Camminando per il corridoio, il sacerdote sorride, e sussurra: “Grazie Signore, perché anche oggi hai confermato la mia fede! I miei amici hanno deciso di prendersi un grande impegno di servizio reciproco. Grazie, o Dio, perché non hai abbandonato il tuo popolo”. Sì, c’è un’enorme stoltezza in queste parole, se ci lasciamo guidare solo dalla razionalità cieca all’amore.
Immagino anche i loro genitori, che dopo la fatica dell’accoglienza, del dover riscrivere i loro sogni sui figli che tanto hanno amato, il terribile dilemma di dover scegliere tra un’obbedienza cieca alla dottrina e il loro amore, ecco, dopo tutto questo travaglio, accompagnano il proprio figlio\a alla promessa di fedeltà, contemplando il mistero di un amore che prima non ritenevano nemmeno pensabile.
Dobbiamo però riaprire gli occhi. Queste sono le fantasie dei visionari. Eppure, sarebbe tutto così terribilmente semplice… E invece abbiamo complicato l’evidente con – passatemi il termine – il barocco teologico, con il filosofema lontano dalla realtà. Di fronte a dei movimenti di liberazione Lgbt che ora chiedono il matrimonio per le persone che si amano, non dovrebbe la Chiesa tracimare d’immensa gioia? Il suo modello d’amore eterno, quello proposto dal Dio di Gesù Cristo, richiesto a gran voce da chi non ha mai potuto viverlo: non è il trionfo della bellezza dell’amore e del messaggio cristiano? Non è un segno della misericordia di Dio? Orgoglio per la madre Chiesa, che vede i suoi figli chiedere la grazia di un sacramento? Penso ci siano alcuni operatori pastorali e alcuni sacerdoti tra le file oggi. Non so se questo sogno lo ritengano condivisibile. Non so se la Chiesa possa cogliere la ventata di serenità che potrebbe portare a Lei e al mondo riconoscere il mistero di un disegno di Dio che oggi, tramite le minoranze sessuali, viene di nuovo a bussare alle nostre porte.
Ci sono tante liberazioni a cui l’uomo aspira: quella dall’oppressione del dittatore, dal consumismo, dai falsi miti, dalla superstizione, dalla paura, dall’indigenza, dall’economia violenta, dalla guerra, dalla fame, dalla segregazione razziale o di casta, dalla mafia e l’illegalità, dalle dipendenze. C’è la liberazione della donna, c’è la liberazione delle minoranze sessuali, degli schiavi di ogni genere, dei bambini, delle persone disabili (ancora recluse). C’è la liberazione dalla povertà spirituale, dall’odio, il rancore, l’invidia, la corruzione, e tutte le malattie spirituali che solo nello Spirito di Cristo possono trovare il loro guaritore. Vorrei una Chiesa capace di promuovere tutte queste liberazioni senza paura di compromettere la sua verità. Dispiace invece constatare che una parte della chiesa ha smarrito nel tempo la facoltà della diákrisis (discernimento), di cogliere dove c’è una liberazione che va assecondata perché profondamente umana, e quindi profondamente cristiana.
Ci si dovrebbe schierare subito a favore di una liberazione e poi, eventualmente, se ne depurano gli aspetti problematici. Il sì alla liberazione deve venire prima del no, perché si può guidare la liberazione solo ponendosi al suo servizio. La Chiesa a volte ha perso la facoltà della diákrisis perché è stata eccessivamente concentrata nella difesa della “verità” (e diciamocelo, del potere che ne deriva), senza rendersi conto che l’unica verità che conta è proprio lì, nel desiderio di liberazione, materiale e spirituale. Bisogna porsi a servizio di questa verità, credibile perché cristologica. Cristo è (in) quella verità. Materiale e spirituale, inscindibilmente legati, come tutta l’azione terrena del Cristo ci ha dimostrato. Tutte le altre verità vengono da sé. Il desiderio di liberazione è una verità microcosmica, perché contiene in nuce tutte le verità cristiane, è cristiforme, perché il desiderio di liberazione nasce da una croce e mira a una risurrezione.
Nel Vangelo di domenica scorsa (Gv 21) è narrata una situazione curiosa. Quando Gesù incontra i discepoli, rinnovando il miracolo della pesca miracolosa, è “il discepolo che amava” a dire a Pietro: «È il Signore!». Pietro non l’aveva riconosciuto. Va bene che si trovavano a un centinaio di metri dalla riva, e possiamo anche ipotizzare che Pietro fosse un po’ miope. Ma a titolo di suggestione, possiamo anche vedere in questo aneddoto una piccola luce di saggezza: non sempre Pietro riconosce da solo il Signore. Anche Pietro – e per estensione la Chiesa – ha bisogno che ogni tanto qualcuno gli faccia notare che lì, in quell’evento, in quella persona, in quella realtà, il Signore è presente. Possiamo allora interpretare questo momento storico, in cui la Chiesa ha deciso di mettersi in ascolto, come un momento propizio per suggerire ai nostri pastori che l’amore di Dio si manifesta anche nell’amore di coppia tra persone dello stesso sesso; in questo miracolo va riconosciuto un segno della presenza del Signore.
Tirando le fila, visto che siamo in un Forum, e visto che dobbiamo sognare, ma anche pensare alle strategie… Credo ci siano delle direzioni che i movimenti cristiani Lgbt italiani dovrebbero considerare come le sfide più urgenti:
- Elaborare una spiritualità biblica, sistematica, non difensiva, ma propositiva, il più possibile basata su solide basi ermeneutiche. Cioè un lavoro di interpretazione dei passi della Scrittura che possano dire qualcosa di positivo sull’omosessualità – come han fatto le femministe. Questo passa per un’indagine bibliografica, un’analisi critica e un’opera di sistematizzazione da proporre al panorama cattolico italiano. Non l’ho compiuta nel mio libro, ma vedo che vi è chi si muove in questa direzione, come il portale del Progetto Gionata. Esiste la Bibbia delle donne, esiste anche la Bibbia Queer… Raccogliendo il materiale si potrebbe cercare di fare un lavoro sistematico di lettura spirituale della Bibbia per le persone omosessuali, che permetta di compiere una rivisitazione analoga a quella delle femministe dei testi biblici. Faccio un esempio banale: il bellissimo passo di Qo 4, 9-12, non è forse la celebrazione dell’aiuto reciproco? Cosa conta che atti sessuali si compiono, se la persona sola trova un compagno con cui dormire insieme e condividere le fatiche? Non è qui indicato con chiarezza qual è la priorità assoluta, il bene umano fondamentale da tutelare?
- I gruppi di credenti omosessuali, e le singole persone, hanno anche il compito di andare dai loro pastori e porsi in dialogo con loro; con i Vescovi, certo, ma anche coi sacerdoti; pure con quelli che magari all’apparenza sono inavvicinabili. Abbiamo pensato il nostro libro in tal senso, come uno strumento, come un possibile regalo che ciascuno può fare al proprio sacerdote, o al proprio vescovo. Il linguaggio e lo stile – oltre all’impostazione generale e i contenuti ponderati – sono pensati a questo scopo: creare un ponte, una comunicazione. Dobbiamo essere consapevoli che per la maggioranza dei presuli, l’omosessualità è un tema lontano, poco conosciuto; pochissimi poi hanno la possibilità di parlare con credenti omosessuali che sappiano mostrare loro un percorso di fede e di amore; se pensiamo a quanto importante è la relazione per acquisire una verità, allora non possiamo sottrarci al compito primario di instaurare relazioni, fatte di parresia e apertura di cuore. Questa è la pastorale che possiamo svolgere nei loro confronti, sapendone accettare con pazienza e tenerezza le lentezze, le ruvidezze, le incomprensioni; siamo noi a dover fare il primo passo!
- Chi mastica un po’ di filosofia e teologia ha il compito di elaborare una fenomenologia dell’amore omosessuale e dei suoi atti; questa operazione è urgente perché oggi la teologia morale cattolica si muove – partendo dal pensiero di Giovanni Paolo II – su un sofisticato intreccio tra fenomenologia dei gesti e metafisica tomista; proporre una diversa e coerente lettura fenomenologica degli atti d’amore omosessuale è una risposta importante;
- Come abbiamo visto, è poi necessario creare una proposta morale solida e integrabile in quella metafisico-tomista; o crearne una alternativa che la Chiesa possa accogliere (opzione che ritengo molto più difficile, per le ragioni addotte).
- Con l’etica, è necessaria una rivisitazione dell’antropologia che sappia accogliere le acquisizioni moderne sull’orientamento sessuale.
C’è qualcuno che vuole farsi avanti?
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[1] Rimando ad alcune buone riflessioni: A. Spadaro, «Amoris Laetitia» Struttura e significato dell’Esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco, in “Civiltà Cattolica” (2\2016), pp. 105-128; A. Grillo, La meravigliosa complicatezza del bene possibile e la “dolce lunghezza” di Amoris Laetitia, in “Munera”, www.cittadellaeditrice.com, 8 aprile 2016; A. Melloni, Francesco e la rivoluzione dell’amore, in Corriere, 9 aprile 2016, p. 33); E. Bianchi, La Chiesa non condanna il peccatore, in Repubblica, 9 aprile 2016, p. 1 e 27.
[2] D. Migliorini, Sinodo, sull’omosessualità un silenzio rumoroso, 27 ottobre 2015.
[3] Al di là della dolcezza delle parole, nel n. 80 si afferma che il bambino è presente fin dal sorgere dell’amore di coppia; che equivale a dire che nessuna relazione d’amore erotico che non sia potenzialmente procreativa è una vera relazione d’amore; una relazione omosessuale che dura tutta la vita, per esempio, sarebbe un amore falso e illusorio.
[4] Si veda A. Spadaro, cit., pp. 123-124.
[5] A. Melloni, Amore senza fine, Amore senza fini, Il Mulino, Bologna 2015, p. 86.
[6] Ibi, p. 15.
[7] Sulla triplice funzione della sessualità (relazionale, erotica, procreativa) e molti altri spunti, un testo da riscoprire è X. Thévenot, Nuovi sviluppi in morale sessuale, in Concilium 10 (1984) 3, 148-159.
[8] Sono argomentazioni che si trovano in quasi tutti i testi di morale sessuale. Segnalo solo, a titolo di esempi significativi: K. Wojtyla, Amore e responsabilità, Marietti, 1980; D. Tettamanzi, I due saranno una carne sola, Elledici-Leumann, 1986. In una semplificazione estrema, potremmo richiamare così i passaggi argomentativi: il dono totale implica l’unione-dono delle persone nella loro interezza, anima e corpo, unitariamente; perché ciò avvenga, all’unione spirituale (tra le anime), deve corrispondere un’unione corporea. Le due unioni hanno due esiti: i frutti spirituali, e il frutto corporeo (il figlio). Quindi, se manca l’apertura alla vita (il figlio potenziale), manca la possibilità dell’unione corporea: la persona non si dona completamente, e il dono risulta dimezzato (non totale); l’atto è quindi dis-integrante perché separa-dissocia i due aspetti della persona (anima e corpo). Un dono dimezzato, implica che l’altra persona sia “utilizzata” per scopi personali di soddisfacimento, e quindi l’atto sia ulteriormente disintegrativo, moralmente condannabile.
[9] Congregazione per la Dottrina della Fede, (1990), istr. Donum veritatis, 24 maggio, in EnchVat 12/188-233.
[10] A. Oliva, L’amicizia più grande, Nerbini 2015.
[11] S. L. Cahill, Sesso, genere ed etica cristiana, Queriniana 2003; testo che consiglio vivamente.
[12] Già che è fresca fresca, si vedano, Amoris Laetitia nn. 10-12.
[13] Papa Francesco, enc. Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, nn. 231-233.
[14] Ti celebrerò, a cura di M. Zuffellato, https://www.youtube.com/watch?v=_k-7H5Qrz50
[15] Non sempre le “visioni d’insieme” – dove posizioni apparentemente discordanti trovano una sintesi armonica – si raggiungono in tempi brevi. Anzi, la storia della Chiesa sembra mostrare il contrario. Spesso convivono insegnamenti che solo dopo secoli trovano una collocazione dottrinale unitaria e coerente; si pensi, ad esempio, alla già ricordata tensione presente tra stato di verginità-celibato e stato matrimoniale, che solo oggi (dopo 1900 anni…) stiamo cominciando a intravedere come frutti di una stessa realtà.
[16] Potremmo azzardare che, in questo caso, l’unitas caritatis ha precedenza sull’unitas veritatis.
[17] E. Chiavacci, Sulla morale sessuale nella Chiesa Cattolica, in Rivista di teologia morale 161 (2009), pp. 53-68.
[18] B. Antonini, Sull’identità maschile e femminile, in C. Militello (a cura di), Che differenza c’è? Fondamenti antropologici e teologici della identità maschile e femminile, SEI, Torino 1996, p. 69.
[19] Ibi, p. 71.