Omosessualità. Rileggendo la Bibbia (Terza parte)
Conferenza del Padre dominicano Gareth Moore* tenuta alla comunità domenicana di Froidmont à Rixensart (Francia) l’8 e il 9 marzo 1997, liberamente tradotta da Francesca Macilletti
(…) Come è possibile che gli israeliti e i primi cristiani si esprimessero sull’argomento dell’omosessualità quando non avevano neanche il concetto di omosessualità. Qui non si tratta del semplice fatto che non esistesse una parola in ebraico o in greco corrispondente alla parola italiana, anche se non è senza importanza porsi la domanda del perché queste parole non esistessero. Noi abbiamo il concetto di omosessualità perché nella nostra concettualizzazione della vita sessuale, i generi e le combinazioni occupano una posizione centrale; per noi è fondamentale sapere se due persone che hanno dei rapporti sessuali sono dello stesso sesso o di due sessi diversi.
Gli studi storici mostrano che, per le civiltà antiche, questa domanda non aveva per niente la stessa importanza. Era molto più importante sapere se il ruolo sessuale di ciascuno (attivo/passivo) corrispondesse al suo statuto sociale. Per esempio, non c’era alcun problema se un uomo libero penetrava uno schiavo, ma era inaccettabile che uno schiavo penetrasse un uomo libero. Ma c’è un problema più profondo riguardo alla maniera con cui la Chiesa si serve della Bibbia per prendere posizione riguardo all’omosessualità.
Ci sono molti passaggi nelle Scritture che la Chiesa è pronta a dimenticare, per esempio: “Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse” (Deuteronomio 23,20) … “E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo”. (Matteo 23,9)
Anche se ci sono dei testi che proibiscono l’omosessualità (…) è curioso che la Chiesa insista così tanto con essi lasciandone da parte altri che interessano la giustizia, le relazioni tra gli uomini, la relazione tra l’uomo e Dio e che possono essere considerati come testi che esprimono la volontà di Dio. La Chiesa può, quindi, dimenticare dei testi biblici quando le conviene. Si può avere l’impressione che questo non sia veramente rispettare la parola di Dio che troviamo qui, ma un pregiudizio che approfitta dell’esistenza di certi testi per giustificarsi. Certamente sappiamo che, se la Chiesa può dimenticare certi testi biblici restando comunque fedele alla verità e alla volontà di Dio, può dimenticarne anche altri. I testi sui quali si appoggia la Chiesa non si devono rispettare semplicemente perché sono lì.
Ho detto che la dottrina della Chiesa non è concepita per rendere felici gli omosessuali. La Chiesa sostiene che questo sia falso. Non dice che la felicità è facile per gli omosessuali, ma sostiene comunque che è seguendo la sua dottrina che l’omosessuale, la cui vita forse non sarà mai facile, potrà essere il più felice possibile. L’omosessuale che rigetta questa dottrina sperando di trovare la felicità in una relazione omosessuale si illude. La vita attivamente omosessuale porta all’infelicità. Ricordiamo: come in tutti i disordini morali, l’attività omosessuale intralcia la realizzazione e la soddisfazione personale perché è contraria alla saggezza creatrice di Dio. (Homosexualitatis Problema, §7)
(…) Dio vuole la felicità dell’uomo, e quello che noi chiamiamo un comandamento di Dio è un mezzo per realizzare la felicità umana. Ne segue, quasi per definizione, che un modo di vivere contrario alla volontà, alla saggezza creatrice di Dio, intralcia la felicità e porta all’infelicità. Se l’omosessualità attiva (cioè i rapporti omosessuali) è contraria alla volontà di Dio, se è un “disordine morale”, ne consegue che intralcia la felicità e porta all’infelicità. D’altra parte, se non porta all’infelicità ne segue che non è un disordine morale, che non è contrario alla volontà di Dio. Bisogna dunque chiedersi: è possibile essere, al contempo, omosessuale “praticante” e felice?
Conosco di persona degli omosessuali praticanti che sono molto felici. Non ci sono prove che gli omosessuali “praticanti” debbano necessariamente essere più infelici dei “non praticanti”, e l’esperienza umana ci dice il contrario. I “non praticanti” sono, a volte, quelli più infelici e preoccupati. È vero, sembra che gli omosessuali, sia i praticanti che non, tendano a essere meno felici degli eterosessuali; a volte sono molto infelici, a tal punto da suicidarsi. Ma questo non si deve spiegare facendo appello a un disordine morale.
Il fatto che, nella maggior parte delle società, gli omosessuali siano disprezzati, che imparino a disprezzarsi sin dalla loro infanzia, che gli si dicano maldicenze, che vivano nella loro paura, che debbano nascondersi, che la società non li sostenga né li valorizzi (come valorizzano l’eterosessualità e sostengono le coppie sposate), che siano spesso minacciati da leggi repressive e quindi dal ricatto – tutto questo può facilmente rendere infelice gli omosessuali, sia praticanti che non. Non c’è bisogno di fare appello a un “disordine morale” per spiegare l’infelicità di molti omosessuali; tali circostanze renderebbero infelice chiunque. Malgrado tutto questo, ci sono degli omosessuali che riescono a essere felici. Non c’è nessuna prova che chi conduce una vita sessuale attiva sia meno infelice di chi rimane solo.
Al contrario. È a priori molto probabile che il fatto di vivere un amore sessuale profondo renda felice gli omosessuali esattamente come gli eterosessuali. Quelli che vivono in questo modo o che conoscono delle coppie omosessuali riuscite ne sono testimoni. Inoltre, sono spesso questi omosessuali che hanno vinto la loro paura, che non si nascondono più, e anche questo rende più felici. È dunque falso dire che il fatto di vivere una vita omosessuale ostacola la felicità e porta alla infelicità. Dunque, è falso anche dire che l’omosessualità è un disordine morale contrario alla volontà di Dio. Ne consegue, sembra, che la dottrina della Chiesa sia falsa. Tale dottrina è inoltre pericolosa.
La Chiesa vuole che tutti gli omosessuali si astengano in modo permanente dalle relazioni sessuali. Secondo la Bibbia, Dio riconosce che “non è buono che l’uomo sia solo” e insiste per creare per Adamo una compagna che gli piaccia. La Chiesa vuole che gli omosessuali vivano in una solitudine sessuale, non una solitudine desiderata, come quella di un prete o una suora, ma imposta. Inoltre, considera la vita di coppia parte integrale della natura e della felicità umana, ma la vieta agli omosessuali. Se, secondo la parola di Dio, non è bene che l’uomo sia solo, questa solitudine imposta rischia di fare dei danni. Il fatto di vivere, contro voglia, solo e senza relazioni sessuali, non rimuove l’affettività. Tutti lo riconoscono: l’omosessuale che vive nella solitudine resta comunque omosessuale. Se questa affettività rimane forzatamente senza espressione, se non si esprime fisicamente nell’ambito di una relazione umana, può facilmente deformarsi e rendere infelice e disequilibrata la persona a riguardo.
D’altra parte, se la Chiesa volesse creare un’affettività senza sessualità, rischierebbe di creare anche una sessualità senza affettività, una sessualità puramente fisica e meccanica, priva di ogni aspetto relazionale e umanità. Nella vita umana, l’affettività e la sessualità vanno di pari passo; se si erge una barriera tra le due, si rischia di rovinarle entrambe.
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* Il padre dominicano Gareth Moore è deceduto nel dicembre 2002
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Testo originale: HOMOSEXUALITE ET CHRISTIANISME. Bible revisitée III