Omotransfobia. Perché vegliare nelle nostre Chiese?
Articolo di Innocenzo Pontillo* pubblicato sul settimanale cattolico Adista Segni Nuovi n° 19 del 22 maggio 2021, 6-7
Anche quest’anno in Italia, Spagna, Portogallo e Polonia, come accade dal 2007, i cristiani LGBT e i loro genitori insieme a tante parrocchie cattoliche e comunità evangeliche organizzano per il 17 maggio, giornata internazionale per il superamento dell’omotransbifobia, tante veglie di preghiera e culti domenicali, uniti dal versetto biblico «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Giovanni 15:12), per fare memoria delle vittime della violenza dell’omofobia e della transfobia.
Ma ha senso ritrovarsi ancora insieme per dire basta a questa violenza, figlia dei pregiudizi che trovano terreno fertile nella nostra società e, purtroppo, anche nelle nostre comunità cristiane? Sono passati 14 anni da quando i giovani di Kairos, gruppo di cristiani LGBT di Firenze, lanciarono l’invito a vegliare nelle comunità cristiane su questa violenza.
In questo tempo di pandemia, che senso ha continuare a vegliare? L’associazione cristiana La Tenda di Gionata ha posto in rete questa domanda, raccogliendo testimonianze, pubblicate sul portale gionata.org e sui social.
Scrive Gianni Geraci del Guado, il gruppo di cristiani omosessuali di Milano: «Se vogliamo davvero seguire Gesù dobbiamo amarci gli uni gli altri! Ma è questo quello che davvero stiamo facendo? Ed è questo quello che nella Chiesa facciamo quando abbiamo a che fare con le persone LGBT e con le violenze che subiscono? Dove sono i nostri pastori, quando, nel nostro Paese, vengono uccisi omosessuali o transessuali? Dove sono ogni volta che, nel nostro Paese, gli omosessuali e i transessuali vengono picchiati, insultati, bullizzati e spinti verso gesti disperati ed estremi?».
«Sono passati più di vent’anni dalla prima volta che mi hanno gridato “frocio di merda” e come una eco infinita, sovente, quella frase torna a bussare alla mia testa e al mio cuore, rievocando il corredo di atti di sopraffazione e di violenza che ne rappresentano l’ineluttabile corollario», ricorda Paolo del Progetto Adulti Cristiani LGBT; veglierò «perché, come suggerisce l’etimologia della parola “veglia”, occorre in questi tempi vigilare, aprire gli occhi e restare svegli.
Esiste, infatti, una strisciante e pericolosa deriva nel mondo cattolico, volta a negare che sussistano episodi di violenza e di discriminazione dovute all’orientamento sessuale e all’identità di genere e/o a sminuirne la portata. Ce lo dimostrano gli attacchi rivolti ai giovani dell’Azione Cattolica di Tusa e di Castel di Lucio, “rei” di aver manifestato il loro sostegno al ddl Zan, provando a diffondere messaggi di amore, solidarietà e uguaglianza. Di contro, sedicenti cristiani li hanno massacrati di insulti e sottoposti a dileggio.
Allora appare quanto mai essenziale, di questi tempi, vegliare e pregare che soffi uno spirito nuovo, che faccia nuove tutte le cose, che converta i cuori, che permetta a tutti di abitare questo Mondo con il vestito che sente più appropriato alla sua persona. Che davvero tutti impariamo ad amare, ad amarci gli uni gli altri, come Dio ci ha amati e cioè fino alla morte; fino a morire, a rinunciare, a seppellire per sempre i pregiudizi, le incomprensioni, le condanne affrettate».
«Io prego contro l’omofobia perché altrimenti sarei già passato alla lotta armata», afferma il torinese Massimo Battaglio, animatore del progetto Cronache di Ordinaria Omofobia volto a censire i casi di omotransfobia in Italia, «da quasi una decina d’anni, mi sono preso l’impegno di registrare tutti gli episodi di omofobia che riescono a venire alla luce in Italia. A oggi, ho annotato 1.255 vittime. Storie tremende, che tutti conosciamo. Prego perché il Signore ci faccia giustizia, perché, se dovessi farla io, andrebbe a finire male. Prego che mi dia la calma; perché tenga ferme le mie mani, perché prudono».
«Da tanti anni partecipo e spesso organizzo veglie di preghiera contro l’omotransfobia», ricorda Andrea Rubera dell’associazione Cammini di Speranza. «Perché continuo a partecipare e perché parteciperò quest’anno? Ho 55 anni, quasi 56. Ho un compagno, lo stesso, dal 1986. Siamo sposati dal 2009. Abbiamo 3 figli. Frequento comunità di fede con serenità e sentendomi incluso. E allora?
Perché vorrei tenere vivo dentro di me l’Andrea di tanti anni fa, quel ragazzo che si è sentito tagliato fuori, che un pomeriggio tornò dalla parrocchia vomitando in silenzio, e senza farsi vedere dai genitori, perché aveva sentito dire da un’amica che “gli omosessuali sono condannati all’inferno”. Parteciperò e pregherò perché la società, e anche la comunità in Cristo, abbiano braccia talmente larghe da includere tutte e tutti».
«Daniel è uno dei tanti ragazzi che non ce l’ha fatta e ha deciso di togliersi la vita. Perché vivere quando chi mi deve amare e proteggere mi condanna? Perché andare avanti se i miei genitori non mi accettano?», riflette Vincenzo Guardino di Crismhom, Comunidad cristiana de diversidad sexual y de género di Madrid; «Daniel ha sperimentato sulla propria pelle cosa vuol dire essere vittima dell’omofobia. Ascoltare queste storie non può lasciarci indifferenti. Vegliare non si riduce a un semplice momento di preghiera, a un atto di giusta compassione verso chi soffre. È creare una coscienza, rendere la società civile e religiosa attenta a un problema che riguarda tutti, non solo le vittime».
«Pregare per il superamento dell’omotransfobia», ricorda la teologa e pastora valdese Daniela Di Carlo, membro della Commissione Fede, Genere e Sessualità delle Chiese battiste, metodiste e valdesi, vuol dire «liberare Dio da quelle gabbie nel quale lo abbiamo rinchiuso. Gabbie che sono state anche funzionali ad annacquare il Vangelo di Cristo, che invece è un Vangelo molto radicale e che prevede che tutte e tutti siano al centro».«Soprattutto in tempi di pandemia significa vegliare per i diritti di ognuno e ognuna», afferma la teologa e pastora battista Elizabeth Green, «veglierò per stare in comunione con amici e amiche, fratelli e sorelle di ogni Chiesa e nessuna Chiesa e, insieme a loro, con quel Dio che è all’opera per superare tutti gli ostacoli al suo amore sconfinato».
«La delusione più grande che ho avuto è stato constatare (nella Chiesa cattolica) che le persone che avrebbero dovuto accogliermi e amarmi per ciò che sono mi hanno chiuso le porte ed escluso, facendomi sentire sbagliato», aggiunge Mattia, giovane gay siciliano, perciò «quest’anno veglierò per la prima volta, affinché anche la Chiesa possa abbattere i suoi muri».
«Pregiudizio e giudizio bisogna bandirli», ricorda don Andrea Conocchia, parroco di Torvaianica (Roma) impegnato nella pastorale con le persone transessuali e omosessuali; «Soprattutto credo molto, almeno per me, che come Chiesa possiamo imparare a farlo».
«La Chiesa cattolica ha un grosso peso nella società italiana, per quanto riguarda il problema dell’omotransfobia, basterebbe una sua semplice parola e già la società cambierebbe», riflette Anna Battaglia, madre cattolica con un figlio gay di Ragusa; «mi auguro che ciascuno di noi all’interno delle proprie Chiese e della società in cui vive possa diventare testimone di questo cambiamento».
Ma quante comunità cristiane accoglieranno questo invito, quante invece ancora una volta preferiranno fare finta di nulla?
* Innocenzo Pontillo è volontario dell’associazione cristiana La Tenda di Gionata
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