Padre Martin: le mie risposte ai delegati del Sinodo che sono contrari alle questioni LGBT+
Articolo di James Martin* sj pubblicato sul sito di America The Jesuit Review il 19 settembre 2024, liberamente tradotto da Luigi e Valeria de La Tenda di Gionata
Durante la prima sessione del Sinodo sulla Sinodalità, che si è tenuta lo scorso ottobre (2023), non sono rimasto sorpreso dal fatto che molti delegati del Sinodo fossero contrari a quelle che si potrebbero definire, in senso lato, “le questioni LGBTQ“. Ciò che mi ha sorpreso è stata l’intensità dell’opposizione, il linguaggio usato e la rabbia che l’argomento ha suscitato in alcuni delegati. Forse per il fatto che io mi occupo da anni di pastorale con le persone LGBTQ, molti delegati hanno condiviso con me i loro commenti, le loro domande e le loro difficoltà. È stato un onore ascoltare, riflettere e rispondere. Ora, tra una settimana, ci sarà la seconda e ultima sessione del Sinodo, che inizierà il 2 ottobre.
Senza violare nessun vincolo di riservatezza, posso dire che alcuni delegati hanno fatto interventi durante le discussioni nelle tavole rotonde e nell’aula sinodale lo scorso anno, che sono andati oltre qualsiasi reazione negativa che avessi mai sentito prima dai rappresentanti della gerarchia della Chiesa. Una cosa è sapere che queste argomentazioni fanno parte della dialettica nella Chiesa universale; un’altra è sentirle di persona, a volte faccia a faccia. Le parole “disgustoso”, “ripugnante”, “innaturale” e “malato” sono state frequentemente utilizzate nelle conversazioni con me.
Allo stesso tempo, molti delegati da tutto il mondo hanno espresso un forte desiderio di promuovere un avvicinamento alla comunità LGBTQ, un’esigenza pastorale menzionata due volte nel primo Documento di Lavoro o Instrumentum Laboris (L’Instrumentum Laboris di quest’anno si concentra meno su questioni specifiche come il ruolo delle donne nella Chiesa e i cattolici LGBTQ, e di più sul concetto di “sinodalità” in generale).
Durante lo scorso anno ho cercato di approcciare i delegati contrari per capire meglio la loro opposizione. La sinodalità si basa sull’ascolto, quindi come avrei potuto essere un buon delegato — a maggior ragione un buon cristiano — se non avessi ascoltato chi non era d’accordo con me? Dopo che un delegato, durante una sessione plenaria, ha definito l’omosessualità una “ideologia occidentale”, un cardinale mi ha chiesto: «Vuoi che ti aiuti a organizzare un incontro con lui?». Abbiamo avuto quindi una conversazione aperta e franca, che mi ha spinto a cercare altri delegati, cosa che mi ha dato la possibilità di comprendere meglio le loro perplessità. Ho cercato di applicare il “Presupposto” di Sant’Ignazio di Loyola, secondo il quale si cerca di dare il beneficio del dubbio a un’altra persona per comprendere meglio la sua prospettiva.
Mentre il Sinodo volgeva al termine, un altro partecipante mi ha suggerito: «Nel prossimo anno dovresti puntare a tessere rapporti e a incontrare delegati e altre autorità della Chiesa cattolica che non sono d’accordo con te, per ascoltare le loro preoccupazioni e poterti confrontare con loro». Ho pensato che fosse un’ottima idea. Così, nell’ultimo anno, ho parlato di questi temi con cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose, e leader laici cattolici di tutto il mondo, con particolare attenzione all’Europa orientale e all’Africa subsahariana, da dove sembra provenire gran parte dell’opposizione.
Ciò che segue è ciò che ho sentito e le mie risposte. Per semplicità, utilizzerò l’espressione “questioni LGBTQ” per rappresentare una costellazione di problematiche che vengono sollevate in vari ambiti, che vanno dagli approcci pastorali (promuovere l’accoglienza dei cattolici LGBTQ) a questioni più direttamente teologiche (la dottrina della Chiesa sull’omosessualità) fino agli sviluppi più recenti (come l’approvazione della benedizione delle coppie dello stesso sesso in alcune circostanze). Manterrò queste risposte anonime.
L’opposizione al mondo LGBTQ può essere schematizzata nei seguenti punti, elencati nell’ordine di frequenza con cui queste posizioni, a volte mescolate fra loro, sono state espresse: 1) Le questioni LGBTQ sono un’ideologia; 2) È una forma di neocolonialismo; 3) È una preoccupazione del mondo occidentale; 4) Sostenere le persone LGBTQ significa opporsi alla dottrina della Chiesa; 5) Le persone LGBTQ odiano la Chiesa.
1. Le questioni LGBTQ sono un’ideologia.
La reazione più comune a qualsiasi riferimento alle persone LGBTQ è che i temi legati a questa tematica sono semplicemente una “ideologia”, cioè un sistema di false credenze imposto a persone ignare, spesso giovani. Questo contribuisce a spiegare la riluttanza di molti delegati anche a usare il termine “LGBTQ”, percepito non come una parola che identifica una comunità di persone, ma come il riflesso di una pericolosa ideologia.
Questo concetto è una convinzione saldamente radicata tra molte autorità della Chiesa e delegati del Sinodo. Papa Francesco stesso ha dichiarato pubblicamente la sua opposizione alla cosiddetta “ideologia di genere”. Ora, sebbene quella espressione si riferisca principalmente alle persone transgender, da molti cattolici viene usata per opporsi a tutte le questioni LGBTQ. Alcuni delegati ritenevano che qualsiasi discussione su questi temi — anche le esperienze di vita vissuta dei cattolici LGBTQ — fosse un modo per assecondare una pericolosa ideologia. Analogamente, alcuni delegati sostenevano che le persone LGBTQ non esistessero davvero o fossero semplicemente persone che aderivano a un’ideologia (che le rendeva omosessuali). Un arcivescovo africano mi ha detto: «Il motivo per cui ci sono persone omosessuali nel mio paese è che gli americani li pagano per diventare omosessuali».
Non ho idea se davvero gli americani vadano in altri Paesi per pagare le persone affinché «diventino omosessuali». Ma una possibile risposta alle preoccupazioni riguardo all’“ideologia” è ricordare che, sebbene oggi esistano molte idee, posizioni e considerazioni sulle questioni LGBTQ, la stragrande maggioranza delle persone gay, lesbiche, bisessuali e transgender vi dirà che quello che sono non è il risultato di una serie di idee, ma delle proprie esperienze.
Sicuramente i media possono indurre i giovani che sono incerti sulla propria identità sessuale a sperimentare e persino a mettere in discussione il loro orientamento sessuale o la loro identità di genere. Tuttavia, in generale, psichiatri, psicologi, medici, biologi, sociologi e, soprattutto, le stesse persone LGBTQ vi diranno che la loro identità percepita non è la reazione a delle idee, ma a delle esperienze vissute interiormente in maniera profonda. Per le persone gay, lesbiche e bisessuali, questo è il modo in cui sentono di essere stati creati, non il risultato di una scelta intellettuale. E per le persone transgender, come spesso sottolinea suor Luisa Derouen OP, questo fa parte del loro percorso di vita, non è la risposta a un’ideologia.
2. Questa è una forma di neocolonialismo.
Un’altra obiezione comune durante il Sinodo e nelle mie conversazioni dell’ultimo anno era collegata alla prima osservazione: le potenze coloniali hanno esportato questa ideologia. In altre parole, l’omosessualità sarebbe un’importazione dei colonizzatori occidentali, estranea alla cultura originaria di altre parti del mondo, con particolare riferimento ai Paesi in via di sviluppo. «L’omosessualità non è mai esistita nel nostro Paese», mi ha detto un vescovo. «È una ideologia importata», ha detto un altro. «Un visitatore non gradito», ha affermato un altro ancora.
Molte persone hanno espresso anche la loro rabbia per il fatto che le sovvenzioni economiche straniere siano legate all’accettazione di determinati diritti LGBTQ. Sostengono che alcuni pacchetti di aiuti occidentali vengano forniti a condizione che il loro Paese accetti i diritti LGBTQ. Un prete africano mi ha detto: «Non hai idea di quanto sia umiliante questo per alcuni Paesi e per alcune persone». Ha ripetuto quella parola: umiliante. D’altra parte, un altro sacerdote africano ha sottolineato che la concessione degli aiuti internazionali non è solitamente legata alla promozione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma piuttosto alla protezione delle persone LGBTQ da molestie, percosse, violenza, incarcerazione e condanna a morte.
Purtroppo, le tesi del “colonialismo” e della “ideologia” sono spesso usate da governi e dittature che sostengono politiche omofobiche, e la Chiesa, a sua volta, può sentirsi costretta ad aderire a questa repressione politica. E se lo stato finanzia le organizzazioni ecclesiastiche, diventa ancora più difficile opporsi all’omofobia promulgata dal governo. «Il mio governo lo usa come propaganda di odio» ha detto un vescovo dell’Europa orientale. «C’è così tanta oscurità e rabbia». Anche i fedeli cattolici sono indotti dai media controllati dal governo a considerare questi temi come minacce “colonialiste” o “ideologiche”, il che rende ancora più difficile per i vescovi locali mostrare apertura verso le persone LGBTQ. Infine, nei Paesi dove la Chiesa è in minoranza, e le autorità governative promuovono l’omofobia, i leader cattolici possono sentirsi ancora più intimoriti nel sostenere le persone LGBTQ.
Una delle difficoltà nella discussione su questo tema durante il Sinodo, e più in generale nella Chiesa, è che coloro che hanno esperienza nella pastorale con persone LGBTQ potrebbero voler incoraggiare altri a ascoltare le esperienze delle persone LGBTQ, ma temono di essere visti come “colonialisti”.
È interessante notare che, durante il Sinodo, la richiesta di aprire una discussione sulla poligamia, sollevata da diversi delegati provenienti dall’Africa, è stata accolta con maggior calore rispetto alla questione delle coppie omosessuali, nonostante il fatto che la questione potrebbe essere vista come una forma di sensibilizzazione analoga: la richiesta di apertura a un gruppo di fedeli cattolici le cui vite non si conformano pienamente alla dottrina della Chiesa. A differenza delle questioni LGBTQ, la poligamia è stata inclusa nell’ultimo Instrumentum Laboris, che parlava della necessità di «discernere le questioni teologiche e pastorali legate alla poligamia per la Chiesa in Africa».
Un delegato europeo mi ha detto: «Avevo paura di dire qualcosa di negativo sulla poligamia o di positivo sulle questioni LGBTQ perché sarei stato visto come colonialista». Ho chiesto a un vescovo africano, che sosteneva l’accoglienza delle “coppie poligame” che volevano sentirsi parte della Chiesa, perché non si potesse usare le stesse argomentazioni per le coppie dello stesso sesso. «Perché una è naturale e l’altra no» ha risposto.
Eppure, come sottolineano molti studiosi, l’omosessualità è stata parte di molte culture antiche non occidentali anche prima dell’era del colonialismo. Il cardinale Peter Turkson ha recentemente sottolineato questo punto, riferendo che esistevano parole nella sua lingua nativa, l’Akan, per descrivere persone omosessuali. Luisa Wall, una persona indigena della Nuova Zelanda, ha scritto un articolo su Outreach riguardo alla presenza di “persone con orientamenti sessuali diversi” nelle isole del Pacifico, molto prima dell’era coloniale.
In effetti, una delle storie più famose nella vita dei santi, quella dei martiri ugandesi, viene spesso utilizzata per illustrare gli orrori dell’omosessualità. Nel 1885, ventidue uomini cattolici e ventidue anglicani, alcuni molto giovani, furono giustiziati in maniera orribile dopo aver rifiutato le violente avances sessuali del re locale. Tuttavia, un aspetto di quella storia viene spesso trascurato. Un sacerdote dell’Africa orientale mi ha detto: «La loro storia viene usata contro le persone omosessuali nel mio paese. Ma dimostra anche la presenza dell’omosessualità molto prima del colonialismo. A nessuno piace ammetterlo». L’omosessualità è presente in ogni Paese, regione e diocesi.
Come diversi delegati mi hanno fatto notare, la vera influenza colonialista è rappresentata dalle leggi “anti-sodomia”, in particolare quelle imposte dall’Impero britannico, che hanno lasciato un’eredità consolidata di omofobia. Se vogliamo considerare gli effetti nefasti del colonialismo, anche questo aspetto deve essere preso in considerazione nel discorso.
3. È una preoccupazione occidentale.
Questa obiezione è in qualche modo diversa da «Questa è una forma di neocolonialismo». L’idea è che, anche se esistono persone LGBTQ nelle loro diocesi, questo non è considerato un “problema”. «Gli omosessuali nel mio paese non sono un problema», mi ha detto un vescovo africano. «Nessuno ne parla. Non è un problema».
Un prete africano ha spiegato che nel suo Paese non si parla di sessualità apertamente, nemmeno in famiglia, e certamente non in pubblico. C’è quindi una profonda diffidenza culturale su questo tema, e la sensazione è che la questione venga “imposta dall’esterno” per una pressione della cultura occidentale. Per alcune persone, nel suo Paese, il tema è un anatema. «I vescovi sono fermamente contrari e se si solleva la questione, lo negheranno o diranno che non è un problema». Ma, ha aggiunto: «Ogni vescovo sa che esiste. Non è una questione di conservatori o progressisti. Non hanno proprio gli strumenti, la capacità di parlarne».
Atteggiamenti culturali profondamente radicati e pratiche violente, come lo stupro “correttivo”, in cui le lesbiche vengono violentate per “guarirle,” rendono difficile sollevare il problema. Così, alcuni leader cattolici, vedendo che nel loro Paese poche persone discutono apertamente di questi temi, lo etichettano non solo come una questione occidentale, ma più specificamente come una preoccupazione prettamente occidentale. Questo approccio si riflette nel rifiuto da parte del SECAM (Simposio delle Conferenze Episcopali di Africa e Madagascar) di promulgare il documento Fiducia Supplicans, che permetteva la benedizione delle coppie dello stesso sesso in alcune circostanze, perché avrebbe creato “confusione” (ironia della sorte, si sostiene anche che Fiducia Supplicans vada contro la dottrina della Chiesa, quando invece il documento è proprio parte della dottrina!).
Un sacerdote ha anche ammesso che, nel suo Paese, dove l’omofobia è dilagante, ci sono preti gay che provano un profondo senso di vergogna. «Così cercano di reprimere e negare la loro condizione».
Tuttavia, il crescente numero di persone LGBTQ che fuggono da persecuzioni e violenze, come descritto nel libro di Mark Gevisser The Pink Line, potrebbe essere la migliore risposta all’argomentazione che si tratti di una “preoccupazione occidentale.” In dozzine di Paesi si può essere imprigionati per aver avuto relazioni omosessuali o per aver difeso i diritti LGBTQ. In sette Paesi si rischia la condanna a morte. I casi di persone LGBTQ che fuggono dai loro Paesi per paura stanno crescendo vertiginosamente; a volte la persecuzione continua persino nei campi profughi. Per queste persone, e quindi per i loro Paesi e per la Chiesa, si tratta di un problema molto reale.
4. Le persone LGBTQ si oppongono all’insegnamento della Chiesa.
Secondo questa linea di pensiero, ogni riferimento alle persone LGBTQ dovrebbe essere proibito perché esse si oppongono alla dottrina della Chiesa, che afferma che gli atti omosessuali sono «intrinsecamente disordinati». Certamente ci sono persone LGBTQ che si oppongono all’insegnamento della Chiesa, che hanno relazioni sessuali omosessuali e che sono sposate con partner dello stesso sesso. Tuttavia, l’opposizione di alcuni esponenti della gerarchia cattolica è più forte e viscerale, più del timore di assecondare qualcuno che contesta la dottrina della Chiesa. L’anno scorso, dopo che ho condiviso la storia di una coppia omosessuale che conoscevo, un prelato latino-americano mi ha detto che apprezzava l’esempio di amore disinteressato nella relazione, ma che considerava l’atto sessuale in sé non solo contrario all’insegnamento della Chiesa, ma «disgustoso».
Altri sostengono che l’opposizione alle questioni LGBTQ sia «biblica, non culturale». Tuttavia, come hanno sottolineato molti studiosi dell’Antico e del Nuovo Testamento, l’uso dei cosiddetti “passaggi punitivi” nella Bibbia è altamente problematico, poiché quei testi erano destinati a un contesto completamente diverso (stesso discorso vale, ad esempio, per i brani biblici sulla schiavitù) e, inoltre, ci sono molti altri precetti e norme nella Bibbia (come la lapidazione delle donne per adulterio) che noi non seguiamo più. D’altra parte, l’uso dei “passaggi punitivi” è quasi sempre molto selettivo e quasi sempre usato contro le persone LGBTQ, invece di dare importanza ai cosiddetti “testi di accoglienza”.
In queste conversazioni, invito spesso le persone a pensare a un giovane omosessuale di quindici o sedici anni che non ha alcuna relazione e non sta pianificando di sposarsi a breve, ma che si sente emarginato dalla sua Chiesa. O a una ragazza lesbica vittima degli orrori dello “stupro correttivo”. O ancora all’uomo gay che soffre in un campo profughi o in prigione. Quale insegnamento della Chiesa stanno contestando queste persone? Ascoltare le storie delle persone LGBTQ non significa necessariamente respingere la dottrina della Chiesa.
5. Le persone LGBTQ odiano la Chiesa
Ho sentito ripetere questa critica da diversi delegati del Sinodo, soprattutto provenienti dell’Europa orientale. L’unica esperienza con le persone LGBTQ di alcuni esponenti della gerarchia è quella di venire a conoscenza delle loro critiche sulla Chiesa nei media o di assistere alle loro manifestazioni di protesta. In molti mi hanno riferito di contestazioni davanti alle chiese o alle cattedrali (spesso in occasione delle marce del Pride). Questo è un problema perché mette in relazione sempre e comunque le persone LGBTQ con l’opposizione alla Chiesa, e questo ovviamente rende i vescovi meno propensi ad ascoltarle. Per la nostra natura umana abbiamo difficoltà a lavorare con persone che ci demonizzano – qualcosa che le persone LGBTQ comprendono bene.
Una risposta utile a questa critica è invitare chi abbiamo di fronte a capire che molte persone LGBTQ (molte delle quali non sono cattoliche) stanno reagendo a ciò che percepiscono come commenti omofobi da parte delle autorità ecclesiastiche, e a tenere presente che chi protesta non rappresenta la stragrande maggioranza dei cattolici LGBTQ, i quali semplicemente desiderano sapere che Dio li ama, che Gesù è con loro, che lo Spirito Santo arricchisce le loro vite e che la Chiesa è la loro casa. È anche importante per le persone LGBTQ capire quanto possano essere controproducenti i loro commenti pieni di odio se si vuole instaurare un dialogo con la gerarchia della Chiesa.
Alla fine dei miei colloqui con esponenti della gerarchia e delegati del Sinodo nell’ultimo anno, ho spesso posto la stessa domanda: qual è il modo migliore di rispondere a queste perplessità? Quasi tutti hanno dato la stessa risposta: conoscere le persone LGBTQ non come stereotipi, ma come individui. Alla fine, il modo migliore per aiutare coloro che si oppongono alle questioni LGBTQ—per tutti i motivi sopra citati—è incontrarle, ascoltare le loro storie e conoscerle come figli amati di Dio, cioè come nostri fratelli e sorelle in Cristo.
* James Martin sj è il fondatore di Outreach e direttore editoriale di America Media. In Italia sono stati tradotti e pubblicati diversi suoi libri tra cui “Un ponte da costruire. Una relazione nuova tra Chiesa e persone LGBT” (editrice Marcianum, 2018, 120 pagine).
Testo originale: I listened to Synod delegates opposed to LGBTQ issues. Here are my responses.