Padre Martin sulla pastorale con le persone LGBT: perchè “l’amore è l’insegnamento più importante”
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Articolo di Madeleine Davison* pubblicato sul sito del bisettimanale cattolico progressista National Catholic Reporter (Stati Uniti) il 16 giugno 2021, liberamente tradotto da Silvia Lanzi
Il gesuita James Martin è uno dei più noti attivisti cattolici per la dignità delle persone LGBTQ. Nel 2017, in seguito alla pubblicazione della prima edizione del suo libro Building a Bridge: How the Catholic Church and the LGBT Community Can Enter into a Relationship of Respect, Compassion, and Sensitivity, (Un ponte da costruire – Una relazione nuova tra Chiesa e persone LGBT, Marciano Press 2018), padre Martin ha parlato in tutto il mondo (anche con papa Francesco) del suo impegno per un approccio più compassionevole, da parte della Chiesa Cattolica, verso la comunità LGBTQ.
La vita e l’attività di padre Martin sono il soggetto di un nuovo documentario, Building a Bridge, di cui è produttore esecutivo Martin Scorsese e che ha debuttato il 15 giugno scorso al Tribeca Film Festival. Per gli spettatori statunitensi è possibile guardare in streaming il film, diretto da Evan Mascagni e Shannon Post, a partire dal 16 giugno sul sito del festival.
Poco prima dell’uscita del film, il nostro giornale ha parlato con padre Martin del documentario e della sua attività pastorale. Queste domande, e le relative risposte, sono state leggermente modificate, pur lasciandone intatto il significato, per esigenze di pubblicazione.
NCR: Cosa l’ha spinta a prendere parte a questo film?
Padre Martin: Quest’anno mi hanno avvicinato alcuni registi, le cui opere trattano questioni di giustizia sociale, così ho pensato “Perfetto, possono seguirmi mentre vado in giro”. Però pensavo dovesse essere un video, per intenderci, di quelli che si caricano su YouTube. Non pensavo dovesse essere un vero film. Credevo che, anche se avessero prodotto un piccolo corto, avrebbe potuto aiutare a far passare il messaggio, e speravo potesse aiutare parecchie le LGBTQ e le loro famiglie.
Nel film, padre Bryan Massingale si riferisce a questo periodo come all'”inizio della primavera” nel rapporto della Chiesa con la comunità LGBTQ. Che segnali ci sono di questo rapporto?
La metafora è tutta di padre Bryan, ma i segnali di crescita si possono vedere nell’apertura di papa Francesco nei confronti della realtà LGBTQ, la sua nomina di diversi vescovi molto più ben disposti verso la comunità, specialmente a livello locale, nelle parrocchie e nelle scuole, dove sono nati molti gruppi di sensibilizzazione e programmi per i cattolici LGBTQ.
La sparatoria al Pulse Nightclub, un locale LGBTQ di Orlando, in Florida, è stato uno dei peggiori nella storia americana. Quarantanove persone uccise. In che modo questa tragedia l’ha spinta ad agire?
Prima del 2016, di tanto in tanto, avevo scritto sulle persone LGBTQ, per sostenenerle, sulla rivista America, ma non ero mai stato coinvolto in modo formale. Non avevo mai fatto parte di nessun gruppo a sostegno della comunità queer, ma la tiepida reazione alla veglia per il massacro del Pulse mi ha fatto riflettere sul fatto che, anche nella morte, queste persone sono invisibili per la Chiesa. Questo mi ha condotto a una conferenza per New Ways Ministry, che ha portato ad un libro, che ha portato alla pastorale, che seguo con molte altre persone. Ciò mi sprona ad essere un po’ più visibile nel mio impegno per la comunità.
Cosa l’ha sorpresa di più delle reazioni alla prima edizione del suo libro?
Le reazioni sono state scioccanti, sia in positivo che in negativo. Quelle positive sono state sorprendenti: chiese gremite, standing ovation, lunghe file di persone che aspettavano di parlarmi.
Questo libro non è una critica alla dottrina, e pensavo fosse piuttosto moderato. Le reazioni, in particolare quelle delle persone LGBTQ e delle loro famiglie, sono state straordinaria. Ero stordito. Doveva essere un piccolo libro (fisicamente lo è), e doveva essere solo un modesto contributo alla vita parrocchiale. Sicuramente non volevo farne un manifesto.
Anche le reazione negative sono state scioccanti, specialmente le denigrazioni personali. Non si sono semplicemente messe in discussione le cose che ho suggerito (anche se non c’è nulla contro la dottrina della Chiesa), ma hanno attaccato me in maniera diretta, attacchi che ricevo ancora tutti i giorni online, e talvolta di persona.
Se non fossi d’accordo con qualcuno, non lo attaccherei personalmente. Non gli direi di andare all’inferno, che dovrebbe essere scomunicato, che è un cattolico terribile e un eretico. Quindi è stato un po’ scioccante. Ha rivelato quanta omofobia e odio c’è nella Chiesa, il che è triste.
Come gestisce le reazioni negative al suo libro da parte degli elementi conservatori della Chiesa e delle persone che pubblicano commenti offensivi online?
All’inizio mi infastidivano, perché erano una sorpresa insolita, ma poi ho capito che dovevo modellare la mia vita su quella di Gesù: anche lui ha dovuto affrontare qualcosa di simile, ed era libero dalla necessità di essere amato o approvato dalle persone.
Così, se è una critica legittima o una domanda ragionata, rispondo, ma se si tratta solo di odio o omofobia, allora la ignoro completamente. Non mi lascio coinvolgere. Sono attacchi che vengono da persone omofobe, odiose e cattive. Alcune critiche sono proprio meschine, hanno davvero poco a che fare con la teologia, assomigliano al bullismo scolastico.
Parte del film si concentra su Michael Voris, fondatore del gruppo cattolico ultraconservatore e anti-gay Church Militant, che una volta si identificava come persona omosessuale. Cosa pensa di Voris e della sua storia?
Per me è sconcertante, perché nel documentario parla della sua vita di gay. Evidentemente è molto arrabbiato perché si accolgono le persone LGBTQ in quella che è anche la sua Chiesa. Non voglio commentare questo atteggiamento ma, come dico nel film, spero che trovi un po’ di pace nella sua vita, dal momento che Church Militant sembra essere motivata principalmente dalla rabbia.
Credo che il regista abbia fatto un buon lavoro lasciandogli spiegare il proprio punto di vista. Ha preso un aereo e passato diversi giorni con lui. Nessuno può dire che non gli sia stata data la possibilità di raccontare la sua storia.
Passando a cose più positive, quali sono le risposte più significative che ha ricevuto dai lettori del suo libro?
Innanzitutto, mi arrivano tutti i giorni su Facebook. Ne ho ricevuto una giusto un’ora fa, da una persona che mi parlava di qualcuno della sua famiglia che ha fatto coming out, ha letto il libro ed ora si sente più a casa. È molto gratificante sentire storie di persone che si sono imbattute nel mio libro, che le ha aiutate a sentirsi più a loro agio nella Chiesa.
Il 95% delle reazioni sono positive. Se vado a parlare in una parrocchia, dentro ci sono quattrocento persone, e fuori ce ne sono cinque a protestare. Sentire le persone LGBTQ, o i loro genitori, che stanno cercando di trovare il loro posto nella Chiesa, e che il libro li ha aiutati a capire che sono già a casa: questo è molto gratificante. E allora vale la pena sopportare tutti gli abusi online.
Il documentario affronta le critiche di alcuni cattolici LGBT alla prima edizione del libro. Come ha risposto a queste osservazioni nella seconda edizione?
Una delle cose belle del mio editore è che, quando ho chiesto se potevo pubblicare un’edizione aggiornata, viste le molte reazioni alla prima, ha immediatamente dato il suo assenso. Di solito ci vogliono un anno o due. Sono stato in grado di integrare molte delle modifiche che mi sono state suggerite. Sono molto felice di essere stato capace di rendere il libro più realistico.
La seconda edizione è lunga almeno il doppio rispetto alla prima: ha infatti molte più storie e molte più spiegazioni. Ho scritto la prima edizione pensando fosse tutt’al più un piccolo manualetto. Ma quando ho capito che così tante persone lo stavano usando come risorsa per capire le questioni LGBT all’interno della Chiesa, ho pensato dovesse essere un po’ più completo.
Nel film, una critica alla prima edizione da parte della comunità LGBTQ è stata: sembra che, con il concetto di “costruire un ponte”, si chieda alle persone LGBTQ di incontrare la Chiesa a metà strada, quando è la Chiesa a detenere il potere istituzionale. Cosa intende per “costruire un ponte”?
Questa è stata la critica più utile. Tratteggiando l’idea del ponte, il pensiero che potesse essere un ponte a due corsie (entrambe, la Chiesa e la comunità LGBT, si sarebbero dovute trattare con compassione), era sensata.
Ma i cattolici LGBTQ mi stavano lanciando una sfida, e avevano ragione. Le due corsie non hanno le stesse dimensioni, perché è la Chiesa istituzionale che ha emarginato la comunità LGBTQ, non il contrario. Così, nella seconda edizione sono stato molto chiaro: l’onere di fare un passo avanti è della Chiesa, perché detiene, appunto, il potere.
Nel documentario lei parla della dignità delle persone LGBTQ, senza per questo dover smontare la dottrina. Alcune persone (come padre Bryan Massingale nel film) hanno detto che, per raggiungere la piena dignità delle persone LGBT nella Chiesa, bisognerebbe modificare appunto la dottrina. Come concilia la tensione tra l’operare all’interno della Chiesa, e spingerla al rispetto delle persone LGBTQ?
È una bella domanda. Lo faccio in primo luogo incoraggiando la Chiesa ad ascoltare le esperienze delle persone LGBTQ, e prendendo sul serio le loro reazioni ad alcuni punti di dottrina. In secondo luogo, lo faccio sottolineando qualcosa che è molto più fondamentale, vale a dire il messaggio d’amore, perdono e compassione di Gesù.
Non sto criticando la dottrina, sto cercando di invitare la gente a prestare attenzione all’insegnamento più importante, che è il messaggio d’amore di Gesù. Penso che tendiamo troppo spesso a dire che la dottrina si riduce a quelle tre righe che, nel Catechismo, riguardano le persone queer.
Ciò che propone la Chiesa non si esaurisce in quelle poche righe. È l’esempio di Gesù. In lui vediamo qualcuno che è alla continua ricerca di chi si trova ai margini. Per me, è il più importante di tutti. Penso sia quello a cui dobbiamo guardare di più.
Da quando è stato pubblicato Un ponte da costruire, lei è diventato quasi una celebrità, sia all’interno della Chiesa che nei media generalisti. Come gestisce la celebrità di cui gode?
È uno sviluppo del mio ministero di gesuita. E non si focalizza semplicemente sulle persone LGBTQ, ma piuttosto sulla diffusione del Vangelo.
La celebrità… non ne sono troppo coinvolto, perché tante persone mi sostengono e altrettante mi disprezzano, quindi è facile non montarmi la testa. Rimanere umile è semplice. Essere invitato da radio e televisioni come opinionista, e gestire un social media, è semplicemente un altro modo per cercare di raggiungere la gente.
E bisogna andare dove ci sono le persone. È quello che faceva Gesù: incontrava tutti nel loro ambiente, parlava la loro lingua. Tutto questo, oggi, vuol dire essere su Facebook, Twitter, Instagram, e persino su TikTok.
Nel 2019 ha avuto l’occasione di parlare privatamente con il Papa. Di cosa avete discusso?
Mi ha detto di raccontargli tutto nei dettagli, così gli ho parlato liberamente: è stato uno dei momenti più significativi della mia vita. Abbiamo parlato per circa mezz’ora della pastorale cattolica per le persone LGBTQ. Mi sono congedato sentendomi ispirato, consolato e persino euforico. Per me, è stata un’esperienza veramente profonda. Lasciato il suo studio, mi sembrava letteralmente di camminare sulle nuvole. Non mi ero mai sentito così prima. Mi sentivo sollevato. Per me è stato un punto di svolta.
Che strada pensa debba imboccare ora la Chiesa? Quali sfide restano per costruire ponti con i cattolici LGBTQ?
Penso che la prima cosa di cui ha bisogno la Chiesa sia ascoltare le esperienze delle persone LGBTQ, cosa che perlopiù non sta ancora facendo. Si pontifica su di loro, condannandoli e facendo dichiarazioni senza ascoltarli davvero. Questa è la prima cosa.
La seconda è che [la Chiesa] dovrebbe smettere di fare delle persone LGBTQ il bersaglio preferito per i licenziamenti, visto che non sono solo loro che vivono al di fuori dei confini della dottrina.
E terzo, la Chiesa dovrebbe intervenire nei Paesi in cui i vescovi si schierano ancora a favore delle politiche discriminatorie nei confronti delle persone LGBTQ.
Una cosa semplice che la Chiesa potrebbe fare è parlare a favore della depenalizzazione dell’omosessualità. In alcuni Stati le persone omosessuali sono passibili della pena capitale, in altri vengono rastrellate. In un caso, in Uganda, sono state arrestate, in un rifugio LGBT, quarantaquattro persone. In molti luoghi le questioni LGBT sono questioni di vita o di morte.
Ci sono tre semplici cose che la Chiesa potrebbe fare: 1) ascoltare; 2) smettere di bersagliarle; 3) parlare a loro favore, difendendole quando le loro vite sono in pericolo.
* Madeleine Davison ha lavorato per il National Catholic Reporter a Chicago. È laureata in giornalismo e sociologia all’Università di Syracuse.
Testo originale: Fr. James Martin on LGBT ministry: Love the ‘most important’ church teaching