Papa e omosessualità. Qualcosa si muove?
Articolo di Gianni Geraci * pubblicato su Adista Segni Nuovi n° 31 del 15 settembre 2018, pp.8-9
Anch’io ci sono cascato e quando ho iniziato a leggere la risposta che papa Francesco ha dato a un giornalista che gli chiedeva cosa avrebbe voluto dire al padre di un ragazzo omosessuale, mi sono detto che quella risposta non potevo non inserirla in un librettino a cui sto lavorando e che si rivolge proprio ai genitori cattolici che hanno dei figli omosessuali: il fatto che il papa avesse riconosciuto che l’omosessualità non è una “moda” contemporanea, e il suo invito a non condannare e a fare spazio al figlio perché si esprima erano oggettivamente argomenti troppo invitanti che, sottolineati dal papa, potevano essere di grande aiuto.
D’altra parte, quello che era successo a Dublino durante il IX Incontro mondiale delle famiglie mi autorizzava ad aspettarmi una risposta del genere: per la prima volta, durante un incontro di questo tipo ci si chiedeva come «Mostrare rispetto e accoglienza nelle nostre parrocchie per le persone LGBT e per le loro famiglie», come recita il titolo della relazione che tenuta da padre James Martin, il gesuita statunitense che, durante la sua attività pastorale a New York, ha maturato l’idea che sia necessario “costruire dei ponti” tra la Chiesa cattolica e le persone LGBT (idea che ha poi messo nero su bianco nel libro Un ponte da costruire. Una relazione nuova tra Chiesa e persone LGBT, tradotto in italiano quest’anno dalla Marcianum Press). Non era stata una scelta tranquilla, perché da più parti si erano alzate le proteste di chi sostiene che, nella Chiesa cattolica si stia diffondendosi una vera e propria “omoeresia” (termine coniato da don Dariusz Oko, un teologo molto conservatore della Diocesi di Cracovia) e che, come “prove” di questa affermazione, tira fuori i fatti più disparati: dalla partecipazione dello stesso padre Martin all’incontro di Dublino al rapporto del Grand Jury della Pennsylvania in cui si citano centinaia di abusi compiuti dal clero cattolico; dalle proteste che hanno portato alle dimissioni dei vescovi cileni alle vicende di cui è stato protagonista l’ex arcivescovo di Washington, Theodore McCarrick; dallo scandalo che aveva portato alle dimissioni, in Honduras, di monsignr José Pineda Fasquelle alle conclusioni a cui, nel 2011, era giunta l’indagine commissionata dai vescovi statunitensi al John Jay College of Criminal Justice e che esclude qualunque correlazione tra crisi dei preti pedofili e omosessualità.
Naturalmente, da quella lista, venivano accuratamente omessi tutti quegli episodi in cui erano coinvolti alcuni “campioni” del cattolicesimo più conservatore: come il cardinal George Pell, accusato in Australia di «gravi reati sessuali su minori»; o come monsignor Tony Anatrella, il prete antigender, che Benedetto XVI aveva nominato consultore del Pontificio Consiglio per la Famiglia e che, pochi mesi fa, è stato sospeso da qualunque incarico pastorale in seguito all’accusa di aver abusato di alcuni giovani che si erano rivolti a lui per farsi “curare”.
L’impressione era quella che davvero stesse cambiando qualcosa nella Chiesa cattolica e che gli strilli di chi, avendo forse paura della propria omosessualità, guarda con terrore a qualunque discorso inclusivo nei confronti delle persone omosessuali, fosse solo uno degli aspetti di quella campagna ben orchestrata che ha come obiettivo papa Francesco e chi, come lui, sta cercando di chiudere con ipocrisia di un passato ancora troppo recente.
Poi è arrivata la frase in cui il papa dice che, se il figlio è ancora piccolo: «C’è tanto da fare con la psichiatria per vedere come sono le cose» e, naturalmente, è stata una doccia fredda solo in parte corretta da quanto il papa ha aggiunto subito dopo («Ma io mai dirò che il silenzio è un rimedio. Ignorare un figlio o una figlia con tendenza omosessuale è mancanza di paternità o maternità. Tu sei mio figlio. Tu sei mia figlia, come sei. Io sono tua padre e tua madre: parliamo!»).
È stato allora che ho capito che le frasi dette dal papa durante le conferenze stampa informali a cui partecipano i giornalisti che li accompagnano durante i loro viaggi, non sono “atti di magistero”, e che, quindi, anche se fanno notizia sui giornali, non vanno caricate di significati che non hanno.
La cosa valeva con Benedetto XVI, quando, nel 2009, durante il volo che lo portava in Africa, si è lasciato andare a considerazioni sull’uso del preservativo che dimostravano solo quanto poco conoscesse i problemi collegati alla prevenzione dell’AIDS. Valeva con papa Francesco quando, tornando dal Brasile, ha detto la famosa frase: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?»; o quando, tornando dalla Georgia, dopo aver detto che «le persone omosessuali vanno accompagnate come le accompagna Gesù», ha iniziato a parlare di gender e ha raccontato che la sua fonte era il racconto scandalizzato di un papà Francesco che gli spiegava i motivi per cui il figlio aveva detto che, da grande, voleva fare “la bambina”.
Il difetto principale di queste conferenze stampa è che nessuno dei presenti se la sente di chiedere al papa di chiarire meglio certe affermazioni che potrebbero generare degli equivoci. Se, per esempio, sull’aereo che tornava da Dublino, qualcuno avesse chiesto al papa: “Ma allora lei crede che l’omosessualità sia una malattia da curare?” forse tutto si sarebbe risolto per il meglio e il papa, probabilmente, avrebbe ringraziato, visto che poi ha autorizzato la Sala Stampa vaticana a togliere quella frase infelice dalla trascrizione che è stata pubblicato sul sito della Santa Sede.
Questo episodio dovrebbe insegnare a noi omosessuali ad assumerci la responsabilità delle nostre scelte senza aspettare dall’alto un’autorizzazione che, anche quando arriva, non potrà mai sostituirsi a quello che ci dice la nostra coscienza. Una coscienza che tutti abbiamo il dovere di formare con un lavoro paziente che «richiede studio attento, impegno concreto e riflessione onesta, teologicamente equilibrata» (cfr Homosexualitatis Problema 2).
* Gianni Geraci è tra gli animatori del Gruppo del Guado di Milano; nel 1996 è stato portavoce del Coordinamento Gruppi di Omosessuali Cristiani in Italia. Attualmente fa il libraio in Canton Ticino ed abita a Varese.