Papa Francesco e la “paralisi” della teologia di corte (vedute)
Riflessioni di Andrea Grillo pubblicate sul sito di Cittadella Editrice il 5 agosto 2016
Come scriveva, molti anni fa, il grande Karl Barth:
“Fra tutte le scienze la teologia è la più bella, quella che tocca più profondamente l’intelligenza e il cuore, quella che si avvicina di più alla realtà umana ed offre la visione più chiara della verità… Ma fra tutte le scienze la teologia è anche la più difficile e la più pericolosa, quella in cui, quando ci si impegna, si può facilmente cadere nella disperazione ovvero – ed è quasi ancor peggio – nell’orgoglio, la scienza che… può diventare la cosa peggiore che si possa immaginare: la caricatura di se stessa“.
Uno degli effetti più sorprendenti del magistero di papa Francesco – letto alla luce di questa citazione – rimane quasi sotto traccia, spesso addirittura viene ignorato o perfino capovolto: ma non vi è dubbio che da quando Francesco è Vescovo di Roma il pensiero teologico ha subìto allo stesso tempo una accelerazione e una paralisi. È diventato terreno di accurata e spavalda riflessione ma anche ha patito una paralisi, un arresto, un blocco, una bruciatura. Cerchiamo di capirne i motivi.
La accelerazione di una “profezia dall’alto”
Lo abbiamo visto, con grande chiarezza, durante il recente itinerario sinodale: il teologo più sciolto, più ricco e più profondo è stato Francesco. Rispetto a lui molti dei discorsi di contorno, anche quando ben fondati, erano come esitanti, ipercalibrati, prudentissimi, quasi chiedendo scusa per le piccole aperture che ritenevano possibili. Questa è in larga parte una condizione che nella Chiesa cattolica non si è realizzata se non raramente. Due esempi dell’ultimo secolo sono: la iniziativa di Pio X di “fare il codice”, agli inizi del 900, e le posizioni “contro la guerra” di Giovanni Paolo II, negli anni ‘90. Ma anche questi esempi appaiono molto più limitati e meno centrali. Nel nostro caso, invece, Francesco assume una iniziativa di “uscita dalla autoreferenzialità” che esibisce, immediatamente, una “mens nuova”. Ha cioè bisogno di predisporre argomentazioni, dimostrazioni, esempi, principi e “luoghi comuni” che trasformano il “sapere tradizionale”: e lo fa non per prender congedo da esso, ma per rivitalizzarlo, rilanciarlo, ripensarlo a fondo. In tutto questo l’eredità dello “stile conciliare”, la provenienza geografica e storica dalla “america”, l’appartenenza ad una “nuova generazione” e la freschezza del rapporto con il linguaggio offrono a Francesco il “presupposto” per una operazione teologica allo stesso tempo efficace e raffinata.
La paralisi della “teologia curiale”
In parallelo a questo fenomeno, che ha profondamente rinnovato il linguaggio e lo stile oltre che i contenuti del magistero papale, assistiamo ad una grave paralisi che ha colto molti “centri” di produzione teologica, abituati a “ripetere il medesimo” da almeno 40 anni e che ora, d’un tratto, si trovano spiazzati, si sentono screditati, si percepiscono periferici.
La reazione di questi “centri” – allo stesso tempo accademici e istituzionali – è di varia natura. Vi è chi “ha messo il disco” e continua a ripetere il ritornello che ha imparato a memoria; vi è chi si sforza di “tenere il passo”, ma con una tale fatica e con così poca convinzione che crea “ibridi senza forma”; vi è chi espone con ostilità tutti gli “errori” del nuovo corso; vi è, infine, chi si esercita ancora meglio del solito nell’arte della “mormorazione senza rispetto”.
Ora, in una certa misura, questo è inevitabile. Ma a me sta a cuore semplicemente il profilo teologico della reazione. La Chiesa ha bisogno di una teologia capace di “pensare le questioni” e di pensarle a 360 gradi, senza paura e senza autocensure. In questo senso considero importantissimo che all’inizio di AL, al n.2, papa Francesco chieda di pensare “con libertà” alle questioni che restano aperte intorno all’amore, al matrimonio e alla famiglia.
Ciò che colpiva già durante il Sinodo e poi in questi mesi di recezione di AL è la povertà di pensiero e di audacia che scaturisce da moltissime prese di posizione, non solo di pastori ma anche di teologi.
Abbiamo bisogno di “buona teologia”, da una parte e dall’altra
Se un bravo giornalista inizia il suo “pezzo” con la frase: “I nostri vescovi hanno tutte le ragioni di temere il nuovo” ciò dipende da una “cattiva teologia” che continua a paralizzare le menti e i corpi. Questo non è certo colpa dei giornalisti. Abbiamo costruito – per difenderci dal Concilio Vaticano II – una “linea Maginot” basata sulla idea che potessimo solo “ripetere cose antiche”, che il “nuovo” fosse tutto custodito nei musei. Su questo abbiamo basato molte posizioni magisteriali a partire dalla fine degli anni ‘80. Abbiamo anche allevato generazioni di pastori e di teologi pensandoli e progettandoli soltanto come “ripetitori”. E ora ci troviamo in grande difficoltà. Da quando papa Francesco, senza fare alcuna rivoluzione ma tornando al “buon senso conciliare”, ha riattribuito a ciascuno la propria autorità, il sistema è entrato in crisi. Lo avevamo “tarato” perché il magistero romano facesse tutto dal centro e perché gli altri “eseguissero lo spartito”… in tal modo tutto poteva essere bloccato e controllato dal centro. Ora non è più così. Né i pastori possono solo “eseguire circolari”, né i teologi possono solo “ripetere argomentazioni o normative”.
Questo deve valere per tutti, sia per coloro che appoggiano in modo convinto il nuovo stile voluto da Francesco, sia per coloro che restano perplessi, hanno riserve, sollevano obiezioni. Per tutti è necessario “pensare in grande”. Forse, tra tutti, i più in difficoltà sono i giuristi e i canonisti, abituati da troppi decenni semplicemente ad amministrare il reale e non a meditare accuratamente sul possibile. Della loro arte nel “distinguere” avremmo oggi urgentissimo bisogno, ma spesso li ascoltiamo soltanto irrigiditi su posizioni drastiche e massimaliste, proprio senza alcuna distinzione, nei due sensi del termine.
Confronto mancato ed effetto comico
Giudicando il dibattito sinodale e quello post-sinodale in corso si ha l’impressione che esso sia mancato, proprio per carenza di risorse teologiche. Coloro che “avanzano riserve” spesso sono costretti o semplicemente a ripetere quella teologia che da 30 anni è risultata incapace di rispondere alle questioni, o a stracciarsi le vesti per tutte le “carenze” della nuova impostazione, fino a denunciare una “irreparabile rottura” di una tradizione che vorrebbero poter identificare con la teologia matrimoniale antimodernista elaborata a partire dalla metà del 1800. La “res” del matrimonio non è più né quella di Pio IX, né quella di Pio XI e neppure quella di Paolo VI. Per onorare una “res” in cui Dio e uomo collaborano gomito a gomito non si possono usare categorie che oppongono uomo e Dio. In questo senso Francesco ha avuto il merito di sbloccare nozioni giuridiche, ecclesiali e pastorali che si avvitavano su se stesse da almeno 40 anni e che non pochi vorrebbero tenersi così come sono, raccontando la solita favoletta secondo cui non avrebbero alcun potere di cambiarla… senza tradire la tradizione. Quando fa così la teologia facilmente diventa ridicola. Francesco, con il suo sorriso, ha fatto la cosa più seria: ci ha costretto a trovare nuovi argomenti, nuovi percorsi, nuove risposte, nuovi linguaggi. Francesco ha fiducia che la tradizione possa essere tradotta. Chi pensa, invece, di poter vivere di rendita del lavoro fatto dai teologi di 150 anni fa – allora con le loro giustificazioni – diventa oggi la “caricatura” di un teologo: anche senza volerlo, cambia mestiere e diventa un clown (detto con tutto il rispetto per il circo).