Paragraph 175. Quando la vita per gli omosessuali non era “Cabaret”
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Articolo di Michael Sragow pubblicata sul sito SALON.com (USA) il 7 settembre 2000, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
I registi di “The Times of Harvey Milk” (1984) e “Common Threads: Stories From the Quilt” (1989) si sono dimostrati da tempo dei maestri del cinema elegiaco, ma hanno continuato a crescere come registi, conducendo provocatorie inchieste dal finale aperto su temi ben più elusivi del martirio di Harvey Milk o del flagello dell’AIDS. I due hanno lavorato insieme la prima volta quando Friedman era consulente di Epstein per il film su Milk, poi hanno unito le loro forze per “Threads”. In “Lo schermo velato” (1995) hanno dimostrato al di là di ogni dubbio che la rappresentazione hollywoodiana dell’omosessualità è stata maligna nei casi peggiori e incerta nei casi migliori. Tuttavia, con la loro abile raccolta di clip e interviste a registi e attori etero e omosessuali (da Gore Vidal a Tom Hanks), hanno creato un mosaico di impressioni e opinioni, non un film monolitico.
[Nel 1997] Klaus Müller, il maggior esperto e studioso di tematiche gay dello U.S. Holocaust Memorial Museum, avvicinò Epstein e Friedman ad Amsterdam, alla prima di “Lo schermo velato”, e li stuzzicò con un’idea per un film. Il risultato è una pellicola di severa bellezza, “Paragraph 175”. Il salutare rispetto per le reazioni diversificate della gente di fronte ai fenomeni storici non fa che dare maggior risalto a questa cronaca di ciò che Richard Plant, nel suo libro innovativo del 1986 “The Pink Triangle”, chiama “La guerra dei nazisti contro l’omosessualità”.
Il Paragrafo 175 era una sezione del codice penale tedesco introdotta nel 1871 che proibiva il contatto omosessuale tra uomini. La legge originale recita: “L’atto sessuale innaturale tra persone di sesso maschile o tra esseri umani e animali è punibile con il carcere; può essere applicata anche la perdita dei diritti civili”. La legge precede il regime nazista e gli è sopravvissuta, venendo abrogata solamente nel 1969. Ma furono i nazisti a rafforzare e applicare con brutalità il paragrafo. Gli uomini accusati di essere omosessuali venivano incarcerati o mandati nei campi di concentramento (talvolta venivano prima spediti in prigione e poi nei campi), dove indossavano un triangolo rosa. Nonostante i nazisti non si accanissero contro i gay come contro gli Ebrei o gli Zingari, solamente un terzo dei gay internati sopravvisse. Gli altri gruppi di internati tendevano a evitarli e spesso dovevano subire esperimenti pseudomedici. Meno di dieci sono ancora vivi oggi; i due registi parlano di sei di essi. (Plant stima tra i 50.000 e i 63.000 gli omosessuali detenuti nel periodo nazista; tra 5.000 e 15.000 sarebbero morti nei campi. La stima del film è di, rispettivamente, 100.000 e 10.000-15.000)
Il film di Epstein e Friedman non è né un horror apocalittico né un mattone; vuole mostrare quanto la storia cammini su un filo sottilissimo – o su un semplice paragrafo. Nulla è semplice in “Paragraph 175”. I registi ci rammentano che quando l’omosessuale Ernst Röhm capeggiava quella fanatica unità nazista che erano le SA, Hitler non trovò nulla da ridire sul suo comportamento personale, il che indusse i nemici del nazismo a dipingere il Partito Nazionalsocialista come un covo di omosessuali. Dopo che Röhm e le SA caddero nella Notte dei Lunghi Coltelli, Heinrich Himmler, capo della sua guardia d’élite, le SS, spiegò una brutale campagna di omofobia. Ma allora, per quanto riguarda i gay, i piani della propaganda erano diventati assolutamente confusi. Anche dopo la guerra, dei testimoni cruciali delle atrocità naziste vennero costretti al silenzio perché l’omosessualità rimase illegale in Germania per un altro quarto di secolo. Il film riflette su come sia difficile per quegli uomini testimoniare sul regno di terrore di Himmler, persino oggi. Due veterani dei campi, uno polacco e uno tedesco, non hanno accettato di parlare con i registi. Un sopravvissuto, intervistato per il film, non vuole richiamare alla mente i suoi terribili ricordi, mentre un altro, a causa di un ictus, è inabile a esprimere la sua rabbia. Eccone invece un altro ancora, che parla euforicamente del suo arruolamento nell’esercito tedesco dopo essere emerso dal carcere, in modo da poter stare in mezzo agli uomini. Lucido e coinvolgente, “Paragraph 175″ ti trascina nelle sue complessità e non ti si toglie dalla testa con il suo mix di coraggio, compromessi e fragilità. Sarà per la prima volta nelle sale a New York e San Francisco a metà settembre. Ho parlato con Epstein e Friedman due settimane fa nel loro ufficio di San Francisco.
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Il vostro ufficio dista un isolato e mezzo dalla Biblioteca Pubblica di San Francisco. Poco fa mi sono recato lì e ho digitato sul computer “I gay e l’Olocausto”: mi ha chiesto di ridigitare la ricerca. Ho provato “Gay e nazisti”, “Gay e Terzo Reich” e “Gay e Germania” ma il computer non mi ha indicato nessun libro sull’argomento. Questo film deve essere stato diverso dagli altri che avete girato, in quanto ha richiesto una maggiore ricerca storica pura: non vi stavate occupando di eventi già molto conosciuti.
Epstein: Quando Klaus Müller ci presentò la sua ricerca, capimmo che non potevamo ignorare questa opportunità. Aveva dei testimoni che potevamo intervistare. Ma la maggiore differenza tra questo film e alcuni degli altri che abbiamo girato non è il fatto che stavamo scoprendo la storia di questo argomento man mano che andavamo avanti; la differenza più importante è che era una storia che non potevamo presentare o raccontare in termini di bianco o nero, contrariamente a quanto potevamo ingenuamente pensare prima. Tutto era molto più confuso.
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Come pensavate che fosse la storia prima di mettervi mano?
Epstein: La solita, classica storia di vittime e carnefici. Dato che in biblioteca non si trovava nulla, quello che avevamo trovato era quasi tutto mitologico. Dovevamo capire cosa era realtà e cosa era mito.
Friedman: Da una parte c’era la mitologia dell’Olocausto gay, dall’altra la mitologia del nazista gay. Ambedue le mitologie erano estrapolazioni selvagge basate su un grano di verità. Non c’è mai stato un Olocausto gay: c’è stata la persecuzione dei gay, ma non c’è stato nessun annichilimento sistematico e nessuna chiara linea d’azione sulla questione, eccetto per il fatto che, dal putsch di Röhm in poi, l’omosessualità era contraria all’ideologia nazista. Röhm è stato anche la base del mito del nazista gay.
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Così, parlando di film molto conosciuti, avete da una parte “Bent” per il mito dell’Olocausto gay, e dall’altra “La caduta degli dei” per il legame tra l’omosessualità e il nazismo.
Epstein: Esattamente. Abbiamo provato a utilizzare “La caduta degli dei” per spiegare questo legame, ma il film non si adattava al nostro.
Friedman: Quando abbiamo cominciato a parlare con queste persone abbiamo dovuto fare i conti con i nostri sentimenti di ebrei che vanno in Germania e parlano con dei Tedeschi appartenenti a quella generazione. Le loro esperienze di quell’epoca erano radicalmente diverse da ciò che eravamo abituati a sentire. Alcune di esse ci misero a disagio, altre ci fecero dubitare che fossero ottime persone come sembravano.
Epstein: In effetti, forse erano state “ottime persone” e forse avevano avuto anche qualche simpatia per il nazionalsocialismo. Una delle persone che compaiono nel film ci disse prima dell’intervista “Sarebbe andato tutto bene, non fosse stato per il fatto che ero omosessuale”, il che mi fece venire i brividi lungo la spina dorsale.
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A un certo punto, l’uomo azzimato di nome Albrecht ricorda di come si arruolò volontario nell’esercito tedesco dopo essere uscito di prigione. Possiamo sentire uno di voi due che esclama “Co-cosa? Cosa ha fatto?”
Friedman: Era Rob.
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È una cosa disturbante anche per lo spettatore, perché Albrecht è un uomo affascinante. Ma, per poterlo capire, avete dovuto fare un passo che non pensavate di dover fare.
Epstein: È proprio così. In quanto registi che cercano di accattivarsi le simpatie del pubblico, tendiamo a scegliere personaggi attraenti. Qui invece era chiaro fin dall’inizio che avevamo a che fare con delle zone grigie.
Friedman: Penso che fossero tutti personaggi attraenti, che però mostrano numerose contraddizioni. Il film divenne interessante per me quando questi problemi cominciarono a emergere. Mi spaventò anche, perché non eravamo certi di come avremmo maneggiato tutto questo.
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C’è stato un punto in cui avete pensato di non poter fare il film?
Epstein: C’è stato un punto in cui abbiamo pensato che avrebbe dovuto essere girato da dei Tedeschi. Era tutto così tipicamente tedesco e così legato agli accadimenti di quel periodo che ci sembrò naturale chiederci “Perché il film non lo girano dei Tedeschi?”. Poi, mentre il film diventava sempre più nostro, divenne chiaro che noi venivamo dall’esterno. Il fatto che arrivavamo da fuori ci rese più facile trattare l’argomento a differenti livelli.
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Be’, perché nessun regista tedesco ha mai girato il film? E perché Klaus non si è rivolto a dei documentaristi tedeschi?
Epstein: Klaus si rivolse a noi perché pensava ne avremmo fatto un film accessibile, basato sui nostri lavori precedenti, e che avrebbe avuto un pubblico internazionale, non limitato alla Germania.
Friedman: Una delle ragioni per cui un film sull’argomento non sia mai stato girato in Germania prima d’ora è una coincidenza storica, che ha a che fare con il periodo in cui questi uomini hanno deciso di uscire allo scoperto con le loro storie. Hanno fatto questa scelta in un periodo in cui la TV tedesca era tutta occupata a celebrare il cinquantenario della fine della guerra, ricorrenza di cui si è parlato per un anno intero.
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L’impressione che se ne ricava è che le sei persone del vostro film sono tutti i sopravvissuti gay ancora vivi, eccetto i due che non hanno voluto parlare con voi.
Friedman: Esatto – tutti coloro che, a quanto si sa, sono ancora vivi. È un piccolo numero, perché la percentuale di sopravvissuti omosessuali nei campi è stata molto bassa. Il tasso di morte dei prigionieri omosessuali è stato tra i più alti tra i gruppi di internati non ebrei. E il numero di internati era relativamente basso. Ma non posso fare a meno di pensare che ci siano altri sopravvissuti oltre agli otto che conosciamo.
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Sono affascinato dalla vostra ambivalenza, che per me si infila nell’aspetto e nell’atmosfera del film con un emotività crepuscolare. Proprio all’inizio c’è questo sopravvissuto, Gad Beck, che parla di una persona che deve considerare il periodo “in maniera romantica” per poterlo capire; già qui vengono scosse le aspettative di come dovrebbe essere un documentario sull’epoca nazista.
Friedman: Questo ha a che fare con la memoria; è certamente un film sulla memoria, sul raccontare la storia attraverso i ricordi di persone molto anziane che rievocano cose vissute cinquant’anni fa. Questo ha dettato lo stile, il ritmo, il modo in cui abbiamo raccontato la storia.
Epstein: La prima intervista che abbiamo fatto è stata quella con Gad Beck. Beck ha impostato il tono, perché l’amore è stato un tema importantissimo per lui nel rievocare quell’epoca.
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Seguire la sagoma di Klaus Müller, tutta nera, mentre sale su un treno, con quelle percussioni che evocano la ferrovia anche quando ha lasciato il treno, ti fa sentire parte di un film poliziesco.
Epstein: Bene, bene. Questo è quello che è divenne la storia per noi – eravamo in viaggio di scoperta con Klaus come guida. Anche se il film parla della memoria, girarlo, per me, voleva dire la consapevolezza di ciò che accade in questo momento ed essere disponibile e capace di utilizzarla. Penso che il gioco sia valso la candela: abbiamo affrontato un problema e l’abbiamo trasformato in qualcosa che è divenuto parte del film. Il treno, per esempio. Pensammo al viaggio in treno perché avremmo dovuto fare un’intervista con questo tizio di nome Karl, che compare solo brevemente nel film. È quello che dice “Non voglio più parlare di questa merda, di queste azioni vergognose”. Era d’accordo nel fare un’intervista completa, e poi decise che non l’avrebbe fatta e basta. Prendemmo il treno per andare da lui e vedere cosa sarebbe successo. Ne abbiamo fatto una parte della storia. Mettemmo Klaus sul treno ed ecco che Klaus divenne la nostra guida. Tutto accadde organicamente. Era eccitante essere a Berlino perché era come se si fosse iniziato a costruire sulla luna per la prima volta. La città era piena di gru. Stava iniziando la fusione: si sentiva che l’Est e l’Ovest della città avevano appena cominciato a unirsi. Cogliemmo immediatamente il senso della metafora: l’intera ricostruzione e rinascita di una città e la gente che cercava di preservare il senso di ciò che era stato prima che andasse perso per sempre.
Friedman: Tutto questo fornì una struttura improvvisa, immediata. Ma c’era anche la struttura storica. Dovevamo trovare il modo di coniugarle.
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L’avete fatto con le immagini: i treni, per esempio. Nei primi minuti del film, Gad Beck parla del fare l’amore di nascosto nei treni fermi durante i bombardamenti aerei. Verso la fine, quando uno degli altri testimoni parla dell’avvicinarsi della morte, c’è la visione di un treno che si allontana nella neve. È tipico della poesia di questo film, anche in mezzo alle cronache degli eventi più atroci.
Friedman: Sapevamo di dover usare immagini di repertorio, ma il tipo di immagini che trovammo riguardava molto poco la vita gay perché tutte le immagini di quel genere sono state distrutte. Le immagini riguardanti i nazisti e l’Olocausto sapevano tutte di già visto. Così ci arrabattammo per utilizzare quel materiale in un modo che sembrasse nuovo, perché venisse guardato in modo nuovo. Abbiamo collaborato creativamente con il nostro montatore, Dawn Logsdon, che ha trovato della vera poesia in quel materiale d’archivio.
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Non sorprenderà vedere la Berlino weimariana presentata come l’Eden omosessuale degli anni ’20; la conosciamo dalla “divina decadenza” di “Cabaret” [musical ambientato nella Berlino prenazista n.d.t.]. Ma voi sottolineate come l’omosessualità in Germania si sviluppi anche dal romanticismo, dall’amore per la natura e dalle culture giovanili. È stranissimo – un’intera gamma di stimoli sessuali ed emozioni che non siamo abituati a vedere nelle storie dell’omosessualità. Questa è stata una scoperta per voi o già lo sapevate?
Epstein: Penso che l’immagine che avevo dei gruppi giovanili tedeschi si riducesse alla Gioventù Hitleriana. Abbiamo dovuto informarci prima di capire che la Gioventù Hitleriana cooptò tutta una serie di movimenti di base che comprendeva tutte le ideologie, dall’estrema sinistra all’estrema destra, fino al nudismo e al vegetarismo. Sembra (perlomeno così dicono gli aneddoti) che l’omoerotismo fosse molto diffuso. Ma è pericoloso tirare conclusioni [affrettate], in parte perché è pericoloso applicare il concetto di omosessualità del XXI secolo alla cultura tedesca del primo Novecento. All’epoca di questi movimenti giovanili, il concetto di omosessualità era stato coniato meno di cinquant’anni prima. Solo quando Magnus Hirschfeld [il fondatore gay dell’Istituto Tedesco per le Ricerche sul Sesso] cominciò a studiarla e a rendere pubbliche le sue idee sul “terzo sesso” la gente cominciò a pensare agli omosessuali come a un “tipo”.
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Non penso che voi tiriate delle conclusioni. Ma presentare tutto questo e dire “Guardate qui, anche questo faceva parte della Germania” fa evolvere il film e – di nuovo – aggiunge una diversa componente visuale.
Friedman: Certo. Siamo riusciti a metterci dentro un po’ di carne. [Ride]
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Vi siete sentiti in obbligo di includere almeno un pezzettino di ogni intervista, visto che i sopravvissuti rimasti sono così pochi?
Friedman: Dopo quasi ogni intervista ho avuto seri dubbi sulla possibilità di ricavarne una storia coerente. Questo era dovuto in parte alla lingua – tutto era in traduzione simultanea – e in parte al fatto che alcuni di loro parlavano molto, molto lentamente. Solo leggendo la trascrizione su carta riuscivamo a capire di cosa parlassero, perché spesso, quando erano arrivati alla fine di una frase, avevamo dimenticato da dove avessero cominciato.
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Voi non seguite una struttura cronologica fissa, eppure le connessioni tra gli intervistati sembrano sempre tematiche, con i vari punti di vista che si giustappongono; nel caso di Pierre l’Alsaziano, vediamo lui che si contrappone a tutti gli altri. La sua testimonianza e la sua rabbia sono potentissime. A malapena parla con Klaus, perché Klaus è tedesco.
Epstein: Pierre peraltro è venuto al Festival del Cinema di Berlino. Attraverso questo film ha fatto pace con la Germania.
Friedman: Ognuna delle persone nel film svolge un ruolo decisivo; penso che le loro storie dettino il loro stesso ruolo. La storia di Annette è in pratica la storia della Repubblica di Weimar e finisce quando la subcultura lesbica venne costretta a nascondersi e lei fu costretta a lasciare il paese.
Epstein: La storia di Annette è stata probabilmente la più difficile da includere, in quanto si tratta di una storia lesbica e le lesbiche non hanno subito lo stesso trattamento dei maschi omosessuali. Nondimeno, sapevamo che non potevamo trascurarla. In un certo senso abbiamo dovuto pensare al loro mancato vittimismo, e speriamo che Annette possa rappresentare proprio questo. Questo è rappresentativo di ciò che abbiamo tentato di fare: scoprire in anticipo l’essenza di ciascuna persona per poi metterla al servizio del film nel suo insieme.
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Pochi di noi sono abituati a sentire delle persone che parlano senza reticenze del loro ruolo di insegnanti e di leader di gruppi giovanili che hanno rapporti sessuali con i loro studenti o con i ragazzi del gruppo – o, nel caso di Gad Beck, di uno studente che salta addosso al suo insegnante di educazione fisica nella doccia. La loro totale apertura probabilmente deriva dal fatto di non avere nulla da perdere. Quando ascoltavate queste cose, non è che pensavate “Perché non parlano più veloce?”.
Friedman: È stato divertente quando questi uomini anziani hanno cominciato a parlare di sesso e abbiamo visto un lampo nei loro occhi: è stato incoraggiante!
Epstein: Io avevo più fede nel materiale di Jeffrey, cosa che costituisce un ribaltamento dei nostri ruoli. Lui di solito fa la parte dell’ottimista e io quella del pessimista. Ma pensavo che ci fosse abbastanza perché il film funzionasse.
– Penso che le contraddizioni e le zone oscure che presentate spronino lo spettatore a documentarsi sull’argomento. Il film è pieno di svolte brusche: Hitler inizialmente difende il suo cane da guardia Ernst Röhm, l’omosessuale a capo delle SA; i nemici di Hitler usano l’omosessualità di Röhm per attaccare i nazisti. Siamo abituati a una visione manichea dell’epoca nazista, ma il vostro film presenta la storia come una serie di finte, ritirate e scelte inaspettate. Perché i nazisti non hanno messo in atto una soluzione finale per tutti gli omosessuali?
Friedman: Per prima cosa, i gay facevano generalmente parte dei Cristiani Tedeschi [quella parte della Chiesa Luterana che sostenne il regime nazista n.d.t.] ed erano potenzialmente “curabili” agli occhi di alcune autorità. Secondariamente, non c’era una maniera veramente sistematica di trattare gli omosessuali. Nei tribunali, dipendeva dall’umore dei giudici. Nei campi, il modo in cui venivano trattati dipendeva dai comandanti dei campi stessi. Penso che questo dimostri come sia difficile fare analogie tra le persecuzioni basate sul comportamento e le persecuzioni basate su caratteristiche ereditarie.
Epstein: Sono sicuro che all’epoca gli uomini omosessuali non si concepissero come una categoria di persone. Non si consideravano omosessuali, per quanto avessero un comportamento omosessuale. Per gli Ebrei la situazione era molto diversa.
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Vista l’esperienza di Röhm, i nazisti non potevano dire di essere estranei all’omosessualità o di non avere omosessuali nei loro ranghi.
Friedman: Certo, ma questo vuol dire che i nazisti erano gay? O forse che l’omosessualità era meglio integrata nella cultura tedesca di quanto si pensasse, quando i nazisti arrivarono al potere? Questa è la mia interpretazione, ma non sono uno storico.
Epstein: Su tutto il caso Röhm Jeffrey ha lavorato fin dall’inizio del progetto. Penso che non avremmo potuto informarci più dettagliatamente sull’argomento. Ma c’è tutto un altro aspetto dell’omosessualità nei campi a cui eravamo interessati e che non abbiamo potuto inserire nel film, ovvero gli atti omosessuali sotto forma di abusi sessuali nei campi. Molte vittime degli altri gruppi, come per esempio gli Ebrei, sono state associate all’omosessualità per via degli abusi e degli stupri omosessuali inflitti loro dai Kapo e dai comandanti. Questo non ha niente a che vedere con l’identità omosessuale, ma ha contribuito a perpetuare il mito del nazista omosessuale.
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Qual è la conseguenza più perniciosa di tale mito, a parte il fatto che si tratta di un travisamento della storia?
Epstein: A lungo termine, esso demonizza gli omosessuali. All’epoca, penso che rese più difficile far conoscere la persecuzione nazista degli omosessuali, perché prevaleva il concetto che i nazisti fossero omosessuali.
Friedman: È stata l’opposizione tedesca, prima in Germania e poi nel suo esilio europeo, a usare l’argomento dell’omosessualità nella sua propaganda antinazista, argomento poi ripreso dopo la guerra e che è diventato un comodo luogo comune nel cinema.
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Anche se gli spettatori forse non si identificheranno totalmente con nessuno dei personaggi, possiamo sentire come nostri gli eventi che loro descrivono soggettivamente. Questa inquietante intimità deriva da quell’approccio poetico e impressionistico ci cui parlate spesso – come l’evocazione della “foresta che canta”, i pali dotati di uncino a cui venivano impiccati gay ed Ebrei. Una metafora che non ti si leva dalla testa, però voi la descrivete molto pudicamente, mostrando immagini di rami d’albero e poi una foto originale di quella tortura. Arrivare fino a lì, dove queste cose vengono sperimentate abbastanza per sapere come comunicarle, non deve essere stato facile.
Epstein: Penso che il lavoro (l’arte, si spera) del regista consista in una combinazione di coinvolgimento e distacco. È una danza, in cui si va costantemente avanti e indietro.
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Anche quando riprendete le persone a mezzo busto, le riprese sono molto accurate, dalla scelta delle lenti all’ambientazione.
Epstein: Anni fa venni accusato da un documentarista di sinistra, in tono non benevolo, di essere “più un arredatore d’interni che un regista”. Ora posso dire che è vero, e dirlo con orgoglio. Ovviamente lavoriamo con il direttore della fotografia sui fotogrammi, le luci e ciò che si vede nella stanza.
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Che impressione fa venire da San Francisco, considerata un moderno Eden omosessuale, per compilare una storia della Berlino weimariana, che negli anni ’20 veniva vista allo stesso modo?
Epstein: Credo che, se c’è qualcosa che ho imparato dal film (e dalla mia vita, visto che un po’ di anni sulle spalle), è che non puoi ignorare che le cose cambiano. Anche qui a San Francisco, la città considerata l’Eden omosessuale, vediamo dei grandi cambiamenti rispetto a vent’anni fa, quando siamo arrivati qui. Capisci quanto la vita sia transitoria. Non puoi dare nulla per scontato; non puoi dormire sugli allori.
Friedman: Durante la lavorazione di “Paragraph 175” sono sempre stato conscio dei paralleli con “Lo schermo velato”. Stavamo trattando lo stesso periodo storico da un punto di vista completamente diverso, e in realtà la storia era la stessa. C’era stato un periodo di libertà e apertura, gli anni ’10 e ’20. Poi, negli anni ’30, calò la mannaia. Ho dovuto capire e accettare una volta di più che la vita non sempre progredisce verso una maggiore libertà o un maggiore progresso. La vita è ciclica, e possono succedere cose che sconvolgono gli schemi.
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Forse il vostro prossimo film dovrebbe essere lo studio di un anno.
Epstein: Penso che sarebbe il 1933, l’anno del Codice Hays [il codice di autoregolamentazione del cinema americano, in vigore dal 1934 al 1968 n.d.t.] e l’anno della salita al potere di Hitler. Anche se non so quale sia il collegamento!
Friedman: Però potrebbe essere una cosa interessante da esplorare.
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Paragraph 175 di Robert Epstein e Jeffrey Friedman. Documentario, 76 minuti, 1999
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Testo originale: When life was no “Cabaret”