Parole come pietre. La lingua velenosa del papa contro i gay
Articolo di Massimo Arcangeli tratto da il manifesto del 22 dicembre 2012
«I tentativi di rendere il matrimonio fra un uomo e una donna giuridicamente equivalente a forme radicalmente diverse di unione sono una offesa contro la verità della persona umana e una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace».
Lo ha detto il papa, nel suo recente messaggio per la Giornata Mondiale della Pace e ieri nel tradizionale messaggio alla curia romana in occasione del natale. E sono parole pesanti come macigni.
Sono un linguista, oltreché un intellettuale, e le parole sono forse per me fonte di emozione o turbamento più di quanto normalmente avvenga. Proprio per questo, nel tempo, ho imparato a soppesarle; almeno all’università ben consapevole che tutto ciò che esce dalla mia bocca può influenzare le menti dei miei studenti anche oltre le mie stesse intenzioni; una parola buttata lì o mal spesa, una volta pronunciata, posso non riuscire più a cancellarla anche se la rinnego mille e mille volte.
Un frammento d’esperienza che la mia pelle assorbe anche a parti invertite: da ascoltatore, sempre per quell’ipersensibilità alle parole, sono spesso vittima del linguaggio degli altri, se è un linguaggio armato, nemmeno fossi fatto di burro.
Può mai un matrimonio fra due uomini o due donne, giuridicamente, essere «una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace»? Può mai la sua equiparazione al matrimonio fra un uomo e una donna, giuridicamente, recare offesa all’essere umano e alla sua verità?
Può mai la più alta autorità religiosa dei cattolici, che è anche un raffinato teologo, non avere contezza dell’inaudita violenza di queste parole? Forse perfino un papa, in tempi di profondissima crisi, può mostrare il volto peggiore di sé; come tutti i comuni mortali, anche quando parla ex-cathedra, è una persona umana.
O forse Benedetto XVI, sulla parola pace, dovrebbe riflettere bene prima di parlare: è una parola antica, risalente a una radice indoeuropea che farebbe oggi, di pacificare, un sinonimo di pattuire o negoziare. Il 12 settembre 2006, in un intervento all’università di Ratisbona, il pontefice menzionò
un passo, offensivo verso Maometto, di un dialogo tra un dotto persiano e l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo. Anche allora venne meno ai suoi doveri ecumenici, al suo magistero di sommo negoziatore. Anche allora alimentò l’odio, anziché cercare il dialogo.
C’è chi, al momento in cui scrivo queste righe, sta rispondendo proprio con l’odio all’odio acceso dalle sue agghiaccianti parole: #VergognaSulPapa, su Twitter, è uno degli hashtag più gettonati. Se è un anticipo della fine del mondo, di un mondo che pare impazzito, siamo ancora in tempo a
cercare un’alternativa all’odio. È servito il papa a ricordarcelo.
A ricordarci che i diritti delle persone, perfino nella casa di Dio, possono non trovare risposta nei doveri di una mano tesa. Il giorno del messaggio del Papa è stato anche quello che ha visto piazza San Pietro accendersi per un gigantesco albero di Natale, donato al Vaticano da un comune molisano.
Chissà che possa esserne accesa, illuminata a giorno, anche la coscienza cristiana del pontefice. Giorni fa papa Ratzinger, sbarcato su Twitter anche lui, alla prima domanda giuntagli attraverso il social network («Come possiamo vivere meglio l’anno della fede nel nostro quotidiano?») ha risposto: «Dialoga con Gesù
nella preghiera, ascolta Gesù che ti parla nel Vangelo, incontra Gesù presente in chi ha bisogno».
Di quel dialogo, di quell’ascolto, di quell’incontro in nome di Cristo, ora, non sappiamo che farcene. Papa Woytjla, il giorno dell’elezione al soglio pontificio, scusandosi per il non perfetto italiano, si rivolse così ai fedeli esultanti assiepati a piazza San Pietro: «Se sbaio mi corrigerete».
Benedetto XVI, se quelle parole contro i gay, lui che è il papa, le rinnegasse mille e mille volte, riuscirebbe forse nell’impresa di cancellarle dalla memoria dei milioni di persone che le hanno ascoltate, o viste riprodotte. Al suo milione e passa di followers potrebbe cominciare a dire: «Ho sbagliato, e mi avete corretto».
Restituirebbe quanto soprattutto ha tolto a quelle tre parole che, agli occhi del mondo, ha pericolosamente svuotato di significato per riempirle con il veleno dell’omofobia: la verità, la giustizia, la pace.