Pasolini, “Cosa sono le nuvole?” e Velazquez
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Riflessioni di Luciano Ragusa
Il cortometraggio di Pasolini “Cosa sono le nuvole?” e uno dei più complessi e interessanti dell’intera opera cinematografica dell’autore. Vi si mischiano, infatti, non solo riflessioni poetiche sul senso dell’esistenza e sulla ricerca della verità, ma, mette in rilievo, filosoficamente, il cardine teoretico della nozione moderna di rappresentazione.
Il regista friulano mette subito in correlazione Che cosa sono le nuvole? con il quadro Las meninas di Diego Velázquez, sovrapponendolo al titolo dello spettacolo del giorno. Qual è l’obiettivo di questa sovrimposizione?
Tralasciando l’analisi artistica dell’opera del pittore spagnolo, Las meninas sembra mostrare, su tela, il meccanismo della rappresentazione in quanto tale, non del suo oggetto di riferimento. Diego Velázquez dipinge sia l’esercizio di visione dell’oggetto di riferimento (lo spettatore del ritratto e le sue damigelle) sia l’esercizio dello stesso pittore al lavoro.
L’artista spagnolo inaugura così una direzione essenziale della nozione moderna e contemporanea di figurazione: l’immagine pittorica non è l’accesso, l’ingresso, all’oggetto in sé, alla sua essenza noumenica, ma è lo sguardo su di esso che diventa oggetto di riferimento, perché sia il nostro esercizio di visione sia il pittore al lavoro non hanno altri oggetti a disposizione.
Quando cioè siamo di fronte ad un oggetto ne vediamo la sua rappresentazione, ed il capolavoro di Velázquez effigia esattamente questo, la possibilità di spostare l’attenzione non sull’oggetto della rappresentazione ma sulla rappresentazione stessa. Sintetizzando il più possibile, questa direzione, sarà intrapresa dall’empirismo inglese tra 600’ e 700’, soprattutto da Hume (per cui anche quando siamo fisicamente davanti a qualcosa, abbiamo di fronte la sua rappresentazione e mai l’oggetto), continua con kant (la realtà ci appare sempre come fenomeno e mai come cosa in sé), passa per Russel e Wittgenstein fino a giungere agli analiti inglesi e americani dei giorni nostri.
Pasolini è cosciente della portata rivoluzionaria di Las meninas, e ci invita ad osservare il film come fosse il quadro di Velázquez: da una parte c’è la messa in scena dei pupi/personaggi; dall’altra la prospettiva secondo la quale lo spettatore sarebbe solo osservatore privilegiato, ma che in realtà non può vedere, né percepire, i dialoghi e i caratteri dei pupi/attori.
Non può entrare nelle pieghe recondite, in quelle sfumature segrete e irrazionali del senso, non può calarsi nell’abisso della rappresentazione che si svolge.
Il cortometraggio è un invito a trovare la verità dell’inganno, infatti, gli orizzonti di senso che si sovrappongono al suo interno sono molteplici e non sempre immediati: il bene contrapposto al male evocato dalla tragedia shakespeariana, la realtà dei pupi/attori verso la finzione che devono rappresentare, la scoperta della bellezza del creato quando tutto attorno c’è solo immondizia, ecc. ecc.
Questa commistione tra Las meninas e il film è ancora più robusta se rivolgiamo lo sguardo alla sua sceneggiatura, all’interno della quale, Pasolini, fa pronunciare didascalicamente al burattinaio queste parole:
“Questa non è solo la commedia che si vede e che si sente; ma anche la commedia che non si vede e non si sente. Questa non è solo la commedia di ciò che si sa, ma anche di ciò che non si sa. Questa non è soltanto la commedia delle bugie che si dicono, ma anche della verità che non si dice”.
All’interno dell’opera cinematografica c’è un altro momento in cui il regista incontra il suo sguardo con Velázquez. Quando l’immondezzaro sta portando i due burattini alla discarica, appeso all’abitacolo, sullo sfondo, si intravvede Venere allo specchio, che offre, tra gli altri, un ulteriore orizzonte di senso rappresentato dalla bellezza come simbolo della creazione, da contrapporre alla morte delle due marionette: il funerale di Otello e Jago si trasforma nel suo rovesciamento, si perfeziona, per loro, una seconda nascita.
Pasolini e la scelta di Otello
Jacques: “Tutto il mondo è un palcoscenico, e gli uomini e le donne sono soltanto attori”. (W. Shakespeare, “Come vi piace”).
TRAMA
In un piccolo teatro sta per essere messa in scena, agli occhi di un pubblico popolare, la tragedia shakespeariana Otello. A interpretarla un gruppo di marionette parlanti, metà uomini, metà pupazzi. L’ultimo costruito, Otello, chiede informazioni sul proprio essere al mondo e sullo strano motivo ascoltato poco prima, ma, toccando a lui entrare in scena, mosso dai fili del marionettista, recita la sua parte di fronte agli spettatori.
Sconcertato dalla cattiveria di Jago, Otello, domanda spiegazioni sul perché si è costretti a recitare parti che non sentiamo profondamente nostre, al che, il disilluso Jago, risponde che si vive in un sogno dentro un altro sogno.
Lo spettacolo incede verso l’epilogo fino a quando, il pubblico, sconcertato dal dramma della gelosia e dalla violenza che ne sussegue, comincia a fischiare e protestare, fino ad intervenire nella trama uccidendo i due protagonisti, mentre Cassio e Desdemona, vengono portati in trionfo.
Jago e Otello, buttati nello sgangherato camioncino dell’immondizia, frastornati e straniti, si guardano attorno piangendo silenziosamente.
Gettati nella discarica, i due, sdraiati con il viso fronte cielo, per la prima volta scoprono il mondo: sopra di loro scorrono magnifiche nuvole bianche, fissate le quali, Otello e Jago si meravigliano della bellezza del creato.
Il film, girato nel 1967 e distribuito l’anno successivo, non consentì a Totò di vederne il risultato, infatti, lo stimato attore napoletano, morì il 15 aprile del 1967, non appena terminate le riprese. Ad un certo punto del film, Otello/Davoli, chiede, e si chiede, il senso delle azioni che portano in scena, perché stupefatto dalla cattiveria di Jago/Totò e dalla volontà del burattinaio di uccidere Desdemona.
Il pretesto della tragedia del drammaturgo inglese offre a Pasolini la possibilità di intrecciare piani della significazione a cui è particolarmente legato: il marionettista, che rappresenta l’ineluttabilità del destino, ma anche l’insieme dei condizionamenti a cui la società, inconsciamente, ci sottopone, suggerisce che la verità è fuori dalla finzione scenica a cui ciascuno di noi nella vita è costretto a rappresentare.
E che forse la verità della necessità è percepibile con più chiarezza attraverso l’universo emotivo, senza una grammatica che la espliciti razionalmente. Persino i nostri desideri sono a rischio, soprattutto in una società che il regista intuiva tecno-totalitaria, dove gli aneliti passionali sono indotti da un mercato che sempre più ci vuole consumatori poco intelligenti.
Filosofi e antropologi del calibro di Renè Girard, si sono occupati della questione evidenziando il carattere mimetico del desiderio: ciò che noi desideriamo non è mai lineare, cioè sviluppato secondo una linea retta in cui i soggetti in campo siamo noi e il nostro desiderio; c’è sempre un terzo elemento, l’altro, che rende le nostre aspirazioni etero-dirette, cioè mimetiche, per cui ci troviamo a strutturare vite che non sono nostre nella sostanza, però reali nel palcoscenico dell’esistenza.
Come esce Pasolini da questa empasse? Come scioglie l’intreccio tra gli orizzonti di senso, fra finzione e realtà? Il regista, individua un modello che verbalizza nel testo cantato da Domenico Modugno, sottofondo dell’intera vicenda:
“Il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro,
ma il derubato che piange ruba qualcosa a sé stesso,
perciò io vi dico finché sorriderò tu non sarai perduta.
Pasolini è ispirato da Shakespeare, che appunto nell’Otello:
Quando non c’è più rimedio è inutile addolorarsi,
perché si vede ormai il peggio che è attaccato alla speranza.
Piangere sopra un male passato è il mezzo più sicuro per attirarsi nuovi mali.
Quando la fortuna toglie ciò che non può essere conservato bisogna avere pazienza:
egli muta in burla la sua offesa.
Il derubato che sorride, ruba qualcosa al ladro,
ma chi piange per un dolore vano, ruba qualcosa a sé stesso.(Otello, atto primo, scena terza).
Ciò che l’intellettuale friulano vuole dirci è chiaro: ciascuno di noi deve mettere tutto nella giusta prospettiva, nel corretto ordine gerarchico le priorità, senza anteporre sciocchezze che ci traghettano nella finzione (evitando così il rischio mimetico).
Dobbiamo tornare alla qualità della pazienza, sempre più oggetto di derisione in un mondo iper-veloce, perché unica depositaria di una verità la cui comprensione può rendere irrilevante la sottrazione di un presunto, nostro, bene.
Quando si riesce a trasformare un fatto negativo in positivo, o comunque a non dare importanza ad eventi trascurabili se giudicati nella complessità del mondo, si recupera, attraverso il vero significato di ciò che accade, la costitutiva sacralità della vita. Sacralità, che per Pasolini, è sempre stata uno degli occhi privilegiati della sua intera opera.
SCHEDA DEL FILM:
Terzo episodio del film Capriccio all’italiana. Gli altri episodi sono: Il mostro della domenica di Steno (nome d’arte di Stefano Vanzina); Perché di Mauro Bolognini; Viaggio di lavoro di Pino Zac; La bambinaia di Mario Monicelli; La gelosa di Mario Bolognini.
Soggetto, sceneggiatura, regia: Pier Paolo Pasolini.
Aiuto alla regia: Sergio Citti.
Fotografia: Tonino Delli Colli.
Scenografia e costumi: Jurgen Henze.
Musiche originali: “Che cosa sono le nuvole?”, scritta da Domenico Modugno e P.P. Pasolini, interpretata da Domenico Modugno.
Montaggio: Nino Baragli.
Interpreti e personaggi: Totò (Jago); Ninetto Davoli (Otello); Laura Betti (Desdemona); Franco Franchi (Cassio); Ciccio Ingrassia (Roderigo); Domenico Modugno (l’immondezzaro); Adriana Asti (Bianca); Francesco Leonetti (il marionettista); Carlo Pisacane (Brabanzio).
Produzione: Dino De Laurentis Cinematografica Roma.
Produttore: Dino De Laurentis.
Riprese: marzo-aprile 1967.
Teatri di posa: Cinecittà.
Esterni: dintorni Roma.
Durata: 21 minuti.
Bibliografia:
- Gallo, Pier Paolo Pasolini. Sulle tracce del sacro, Viator, Milano, 2014.
- Murri, Pier Paolo Pasolini, Il Castoro, Milano, 1994.
- Sack, Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday, Guanda, “Biblioteca della Fenice”, 1992.
- P. Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano, 2012.