Pasqua. La Festa dei macigni rotolati via
Riflessioni di Giuseppe del Progetto Giovani Cristiani LGBT
Una delle definizioni più belle di Croce è quella che ci dà Don Luigi Maria Epicoco nel suo libro “Sale non Miele. Per una Fede che brucia”, in cui scrive:
“La maggior parte della realtà che ci circonda, avvertiamo che non ce la siamo scelta noi fino in fondo; c’è una parte della realtà che sfugge al nostro calcolo, alla nostra libertà, eppure esiste. È davanti a noi. Caricarsi della propria Croce significa sentirsi responsabili di tutta la realtà che si ha davanti, e non solo della parte che ci piace. Responsabili anche di ciò che non si è scelto (…). In questo senso la Croce ci santifica, perché ad un certo punto capiamo che ciò che ci sta dinanzi è esattamente l’occasione che il Signore ci sta dando per amarlo”.
Dunque la Croce non è un evento particolare nella nostra vita, non è una situazione circostanziale, ma è la realtà che ci circonda nella sua interezza, quel frammento di vita che ci è stato affidato.
Noi omosessuali non abbiamo scelto la nostra omosessualità. Non abbiamo scelto la nostra storia passata e anche tante cose del nostro presente non sono state scelte… eppure ci sono, ci provocano, ci interpellano, ci chiedono qualcosa proprio adesso.
La sofferenza che molti cristiani omosessuali ingiustamente vivono è la loro Croce. Ma la salita del Calvario porta sempre alla Risurrezione. Non c’è buio della Croce che non debba cedere il posto alla luce. Il buio della Croce non può durare per sempre.
Ce lo ricorda anche don Tonino Bello in “Alla finestra la speranza” in cui scrive:
La tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre “collocazione provvisoria”. Il Calvario, dove essa è piantata, non è zona residenziale.
“Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra”. Forse è la frase più scura di tutta la Bibbia. Per me è una delle più luminose. Proprio per quelle riduzioni di orario che stringono, come due paletti invalicabili, il tempo in cui è concesso al buio di infierire sulla terra.
Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane.
Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.
Coraggio, fratello che soffri. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.
La parola Pasqua significa “passaggio”. Il passaggio dalla morte alla vita, il passaggio dal buio alla luce, il passaggio dalla sofferenza alla gioia. Per comprendere pienamente il messaggio della Risurrezione forse dovremmo rileggere la storia di Lazzaro, la cui risurrezione è la più “famosa” nel Vangelo, dopo quella di Gesù.
Di Lazzaro sappiamo molto poco, nonostante sia il più grande amico di Gesù. È come se il principale contributo che egli dia nel Vangelo sia quello di morire: Lazzaro è un uomo che sembra subire costantemente la vita, fino al punto di ammalarsi. Subisce la morte e paradossalmente subisce anche la risurrezione, perché non è lui a domandarla a Gesù ma sua sorella Marta. Lazzaro può rappresentare nel Vangelo tutti coloro che stentano a diventare protagonisti della propria vita, tutti coloro che restano al balcone, a guardare l’esistenza, mantenendosi sempre distanti da grandi decisioni.
Cosa accade realmente a Lazzaro dopo la sua Risurrezione? Ce lo racconta il Vangelo, nel brano della “penultima cena” di Gesù, quella consumata a Betania, a casa di Maria e di Marta.
Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. (Giovanni 12, 1-2)
Finalmente Lazzaro si siede a tavola. Dopo l’esperienza della morte e della risurrezione, ha recuperato il suo protagonismo. È come se Lazzaro avesse vissuto sempre in un sepolcro. Cristo gli ha permesso di uscire, gli ha donato la libertà e così Lazzaro ha smesso di subire la vita e si è seduto a tavola, è passato dalla terza persona alla prima, è passato dalla teoria alle scelte, è diventato protagonista.
Presto sarà tolta anche la pietra che chiude i nostri sepolcri, talvolta imbiancati. E diventeremo protagonisti della nostra vita. Ecco il senso vero della Pasqua. Scrive Tonino Bello in “Pietre di Scarto”:
Vorrei che potessimo liberarci dai macigni che ci opprimono, ogni giorno: Pasqua è la festa dei macigni rotolati. È la festa del terremoto.
La mattina di Pasqua le donne, giunte nell’orto, videro il macigno rimosso dal sepolcro. Ognuno di noi ha il suo macigno. Una pietra enorme messa all’imboccatura dell’anima che non lascia filtrare l’ossigeno, che opprime in una morsa di gelo; che blocca ogni lama di luce, che impedisce la comunicazione con l’altro.
È il macigno della solitudine, della miseria, della malattia, dell’odio, della disperazione del peccato. Siamo tombe alienate. Ognuno con il suo sigillo di morte.
Pasqua allora, sia per tutti il rotolare del macigno, la fine degli incubi, l’inizio della luce, la primavera di rapporti nuovi e se ognuno di noi, uscito dal suo sepolcro, si adopererà per rimuovere il macigno del sepolcro accanto, si ripeterà finalmente il miracolo che contrassegnò la resurrezione di Cristo.
Auguro a ciascuno di noi di vivere il miracolo della Pasqua, con le parole che proprio don Tonino Bello lesse nel giorno di Pasqua del 1986.
Il Signore è Risorto proprio per dirvi che, di fronte a chi decide di “amare”, non c’è morte che tenga, non c’è tomba che chiuda, non c’è macigno sepolcrale che non rotoli via. Auguri! La luce e la speranza allarghino le feritoie della vostra prigione.