Passateci il microfono. Le donne transgender si raccontano
Articolo di Akiba Solomon pubblicata sul sito “Colorlines” (USA) il 2 dicembre 2011, liberamente tradotto da Rosario Liberto
A Washington D.C questo si è rivelato un anno di sangue per le donne transgender di colore. Lo scorso luglio Lashai McLean è stata brutalmente uccisa a 10 isolati dall’ufficio per il Transgender Health Empowerment (organismo che si occupa della salute delle persone transgender) a nordest di Washington.
Soltanto 11 giorni dopo, a un isolato dalla scena dell’uccisione di McLean, qualcuno ha sparato a Tonya Harrell che se l’è cavata, e ad aprile Chloe Alexander Moore è stata aggredita da un ufficiale di polizia fuori servizio.
McLean, Harrell e Moore sono soltanto le ultime vittime di uno schema ben determinato di violenza contro i transessuali nel Campidoglio.
Insieme alle gravi disuguaglianze razziali descritte dettagliatamente nell’indagine nazionale di riferimento ”Ingiustizie ad ogni svolta”, a portare il fardello più pesante sono le transgender di colore di Washington.
Poiché però la vita delle persone non si riduce soltanto a episodi di terrore, violenza e discriminazione, ho chiesto ad alcune di loro che vivono a Washington di raccontare le loro storie. Ho voluto sapere ogni cosa – le esperienze che hanno avuto con il lavoro, la famiglia, gli uomini, gli alloggi, le ragazze, la spiritualità e le piste da ballo. Ho voluto conoscere il loro modo di crescere e sopravvivere.
A seguire vi è la prima di una serie di testimonianze. Danielle King è la prima anima coraggiosa a rispondere alle mie domande ficcanaso, permettendomi di pubblicare le sue risposte in un racconto.
A lungo attivista, la King è direttrice degli sviluppi del National Center for Transgender Equality (Centro Nazionale per la Parità Transgender) con sede a Washington, ed è fondatrice della Campagna Nazionale Aurora. È inoltre vicepresidente dell’Orgoglio Nero di D.C., uno dei primi festival dell’Orgoglio Nero LGBT e uno dei più noti della nazione, e vive nella Città di Cioccolato con Mimi e Puccini, i suoi shitsu.
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La storia di Danielle King
Prima che compiessi la transizione, nel 2003, non si parlava d’identità sessuale. Il termine transessualità era ancora associato alle drag queen del ”Jerry Springer” show o alle prostitute.
Di certo non parlavo di questa cosa nella mia casa cattolica a Camden nel New Jersey, dove rimasi fino alla laurea conseguita all’età di 22 anni, per poi conoscere e per esprimere la mia identità sessuale.
Durante i primi 5 anni della transizione dovetti istruire la mia famiglia. Per questo motivo, conducevo battaglie personali dicendogli continuamente, ”è inammissibile usare il pronome d’identità sessuale inappropriato nei miei confronti allo scopo di non chiamarmi Danielle.”
Dopotutto è stato sempre questo il mio secondo nome! (mio padre sosteneva che c’era un errore di ortografia, ma mia madre raccontò tutta la verità – di come avrebbe portato in grembo insieme a me la speranza di avere una bambina. Ma subito dopo aver saputo che ero nata maschio, fece diventare Danielle il mio secondo nome).
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Persa e ritrovata
Alla fine ho trovato supporto in strada, nelle associazioni per gay e nelle sale da ballo. La gente che ho conosciuto lì direbbe, ”ok, puoi dire chi sei, ma forse per completare il look potresti prendere in considerazione le protesi o le punture di silicone”. Era risaputo che molta di quella gente ricorreva al furto per finanziare la bellezza che ottenne. Mi vedevo anche con queste donne transgender di colore molto attraenti che facevano le prostitute.
Non facevo quel lavoro ma stavo con loro all’angolo della strada sia per imparare da loro, sia per stabilire rapporti più stretti con i miei simili. Non voglio dare un’immagine negativa di tutto ciò, si tratta soltanto del loro modo di sopravvivere. Non ho scelto questo modo di vivere soltanto per timore, e non è stato dovuto al fatto che io avessi più autostima di loro.
Da quel momento ho visto morire molti di loro per mancanza di sistemi legali sani e di assistenza che gli consentissero di diventare donne. Questo è il motivo principale e per cui ho iniziato la Campagna Nazionale Aurora, organizzazione no profit che crea un legame tra i trans di colore, con l’obiettivo di dare loro una vita più sana e longeva. E’ un processo lento, ma di sicuro si tratta di un sacrificio d’amore.
Ma un giorno tutto questo creerà una rete e una sorellanza per le donne transgender di colore, come è avvenuto per le Deltas o le Alpha Kappa Alphas (affiliazioni universitarie).
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Linciaggi moderni
Per quanto mi riguarda, per noi la consulenza è una questione di vita o di morte. Conosco soltanto una o due donne transgender di colore che hanno raggiunto l’età avanzata. Il virus dell’Aids è ancora molto diffuso nella nostra comunità e molte di noi vivono in quelle a basso reddito. Cerchiamo di portare a casa la pagnotta, di pagare per la transizione e non otteniamo un’istruzione superiore. In pratica è quasi come essere condannati alla povertà.
Anche la violenza è un grosso problema ed è sentita molto dalla gioventù afroamericana di Compton, nel Bronx e di Camden. Avevo un cugino, un membro della banda dei Crip a cui hanno sparato, e che poi si è vendicato ma finito ucciso e gettato dentro un cimitero. In mezzo a queste violenze ad essere prese di mira in mezzo a queste violenze ci sono sempre i giovani trans di colore.
Non si può parlare di omicidi quando si spara alla schiena senza motivo a una donna bella e divertente come Lashay McLean, o quando persone eccezionali e promettenti come NaNa Boo Mack vengono pugnalate a morte in pieno giorno a soltanto pochi isolati da una casa d’accoglienza per giovani transgender. Questi secondo me sono veri e propri linciaggi!
La differenza è che non ci accorgiamo di questi massacri nella nostra comunità. Il clero di colore non va’ sul pulpito a parlarne, i trans attivisti non collaborano insieme con risultati positivi. Non riteniamo la gente responsabile.
Mancano i trans di colore anziani che diano consigli a quelli più giovani dicendogli ”No, non potete accettare il fatto di rimanere in strada o mettere in pericolo voi stessi, e non dovete marinare la scuola di giorno e prostituirvi di notte”
Facciamo le prostitute per sopravvivere, ma anche come forma d’identità, e dobbiamo impegnarci a fare il nostro lavoro. Dobbiamo dire cosa significhi per noi alzarsi il mattino, prendere il treno o lo scuolabus, lavorare, o dobbiamo parlare di come quel viaggio sia sempre in tensione perché derise da tutti (la mia amica Tiana la chiama ” l’ora del giudizio”).
E se non sei accettabile non vieni accolta bene in comunità. Poi vai a letto con Rahim della porta accanto e ti dice che sei brava e che ti pagherà. Improvvisamente diventi merce e sei desiderata. A volte ci sentiamo importanti, ma paragono questa pseudo-conferma all’euforia data dal crack. Alla fine si crea una situazione che porta molta più violenza.
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E cosa centra la razza con questo?
Non voglio dire che le donne transgender di altre razze non provino quello che proviamo noi, ma penso che le disuguaglianze razziali associate all’essere una persona di colore aumentino quando si sommano a un’ esperienza transessuale. I sistemi di supporto non sono sufficienti, e quelli che ci sono non fanno altro che far continuare queste disuguaglianze.
Inoltre, sembra che le comunità di colore siano soltanto più portate a renderti uno stereotipo. Almeno la gente vuole una risposta e dirà cose come ”se sei gay, sei gay punto!” Credo che questo sia uno dei motivi per cui molti di noi compiono la transizione prima – al fine di soddisfare quelle pressioni esterne ed interne.
L’aspetto economico è un altro fattore. C’è molta urgenza di completare la transizione con successo e assimilarsi alla società, quindi si può avere un posto di lavoro come tutti e non si deve vivere nell’ombra. In ogni caso il tempo è tiranno. Nel frattempo, sembra che le nostre controparti bianche compiano la transizione più tardi.
Loro tendono ad essere più affermate e a ricevere l’istruzione e il denaro per la transizione. E come dice una donna transgender bianca, ”anche se sei bianco, i privilegi maschili non decadono automaticamente”.
Questo mi fa pensare a come Tyra Hunter sia stata investita da un’auto e sia morta a causa dell’interruzione di soccorso da parte dell’equipe paramedica, che rise di lei quando si accorse che era trans.
Penso anche a come l’ospedale rifiutò di curarla, e credo davvero che se la Hunter fosse stata bianca, per comportarsi in quel modo l’equipe avrebbe dovuto veramente temere una causa civile.
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Testo originale: Pass the Mic: Transgender Women in Chocolate City Tell Their Stories